E’ anche colpa nostra

In questi mesi il totalitarismo liberale ha assunto una nuova forma. La crisi del suo impianto antropologico, la perduta malia nei confronti degli esseri umani, la consapevolezza che il suo “sogno” individualista non allettasse più la popolazione, lo ha portato a decifrare il proprio potere in senso autoritario.
Ormai quegli imperativi esistenziali, tutti improntati alla costruzione di sé nel mercato, all’idea che la concorrenza rappresentasse l’orizzonte di liberazione soggettiva, sono introiettati da pochissime classi sociali. I benestanti ovviamente, il gotha manageriale, nazionale e transnazionale e una quantità di loro beniamini facenti parte di uno specifico blocco intellettuale, che va dal giornalismo militante e genuflesso fino a raggiungere quel corpo di lavoratori che si percepiscono come classe creativa. Pedagogizzati dalle narrazioni sull’impresa di sé.
Con Draghi questo raggruppamento è stato definitivamente identificato come il popolo nella sua totalità. L’azione di Governo insomma risponde a molteplici vincoli sovranazionali e a uno specifico gruppo d’interesse. Che non si devono in alcun modo confrontare con la democrazia. Ma le pulsioni autoritarie con Draghi stanno assumendo un vero e proprio sapore tecno-fascista.
Il bivacco parlamentare del tempo che fu, cardine della prosopopea mussoliniana, oggi è stato riproposto con toni meno enfatici, più chirurgici. L’informazione, a questa fascistizzazione liberale, risponde con l’atteggiamento tipico di chi è meschino intellettualmente. L’ordine va protetto per acclamazione.
Gli appelli di questi giorni delle autorità universitarie, dei media, dei vertici sindacali, delle milizie politiche fascistizzate, di chierici intellettuali ormai orgogliosi della propria civilizzazione conformista, hanno assunto toni raccapriccianti per la loro arroganza sadica, per il più bieco asservimento che la storia repubblicana ricordi. L’autoritarismo tecno-fascista ha iniziato a colpire anche le strutture di opposizione. Il primo colpo è stato dato ai sindacati di base con arresti indicibili per un rinnovato reato di sciopero.
Il disprezzo tipico delle vecchie camicie nere, con la loro tracotanza ridanciana nei confronti degli intellettuali, del Parlamento, delle classi sociali subalterne, è stato rammodernato dal darwinismo sotteso al concetto di meritocrazia. Draghi si è posto a capo di questo reazionarismo con la volontà di prendere pieni poteri. Pieni poteri che il partito unico diviso in clan della maggioranza gli sta affidando senza alcuna remora. Partito unico che si prende le proprie responsabilità nei confronti della Storia.
Ma se è vera la premessa, se sono vere le condizioni drammatiche in cui il Paese versa, se davvero ci troviamo di fronte a un’impennata totalitarista, è anche vero che le risposte politiche delle forze di opposizione, parlamentari e non, sono insufficienti e non proporzionate alla gravità della situazione emergenziale.
Quando si ha a che fare con la democrazia, con arresti di esponenti sindacali, si dovrebbe in primo luogo dichiarare uno stato d’emergenza permanente, un’allerta di mobilitazione e in secondo luogo lavorare per l’unità di tutte quelle forze, sociali e politiche, che in questi anni si sono poste all’opposizione strutturale del sistema neo-liberale.
Al contrario, per colpe che tutti ci dobbiamo assumere, si sceglie un orizzonte di piccineria strategica. Si improntano radiografie reciproche a quella o a quell’altra forza politica per stabilire la coerenza con il proprio programma, come se ognuno avesse trovato una pietra filosofale con la quale misurare l’ortodossia altrui. Per cui l’uno è troppo marxista, l’altro troppo sovranista, l’altro ancora troppo fucsia, o troppo mediatico.
Il senso di responsabilità dei dirigenti dovrebbe misurarsi con la realtà. E la realtà è appunto autoritaria, culturalmente fascista. Le forze socialiste, comuniste, del sovranismo costituzionale, dei sindacati di base, della minoranza CGIL, repubblicane, del populismo democratico, gli intellettuali critici, dovrebbero oggi, seriamente, fare i conti con la propria insufficienza. In questi anni è cresciuta l’area del dissenso. Ma è un’area che non ha trovato la forza per costruire una base militante. Ha predefinito un corpo intellettuale e di quadri politici, ma non ha mai puntato alla dimensione territoriale. Questa mancanza di solidità, che solo una corposa platea di attivisti può eventualmente costruire, fa venir meno il principio democratico anche nelle formazioni che si battono per la democrazia, sociale e politica.
Nei partiti è la base che può chiedere ai dirigenti l’unità di azione con forze culturalmente affini. Nei momenti di emergenza questa necessità aumenta ed è la base, nei partiti, che deve prendere la scena. O al contrario sono i dirigenti che si fanno carico del peso dell’emergenza nei confronti di una base ottusamente pura. Senza questo nesso è inutile parlare di centralismo decisionale, di organizzazione, di legittimazione dei gruppi dirigenti. Anche in questo caso si procede per acclamazione e le strategie si fanno ristrette, condizionate dalla volontà di auto-riproduzione dei dirigenti, cosicché la mentalità manageriale e privatizzata della politica possa funzionare da totem anche per chi coglie la pericolosità di questo impianto ideologico.
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