Chi darà visibilità agli invisibili?

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Il tema è centrale per la sinistra. Ha a che vedere con quelle fasce sociali di ultimi, ultimi per davvero, quelli cui non viene data alcuna rappresentanza politica e sindacale. Parliamo ad esempio del mondo del precariato, cognitivo e non. Un mondo a sua volta eterogeneo socialmente. Il precario cognitivo è “camuffato” e  nobilitato nella comunicazione politica neoliberista come creativo, o libero professionista, piccolo imprenditore di “sé stesso”. E psicologicamente e culturalmente tende ad identificarsi non con una fascia di sottoproletariato, come sarebbe esatto dal punto di vista sociologico (ovvero come classe priva di una coscienza politica e di una capacità organizzativa sindacale, che entra in contatto con il ciclo di produzione in modo non stabile o episodico) bensì con la piccola borghesia, cui aspira ad appartenere. Ma da cui è tagliata fuori in misura radicale, nelle fasi di crisi economica o di stagnazione, costituendo il primo cuscinetto sul quale si scaricano le tensioni del mercato del lavoro. E da cui è tagliata fuori in misura strutturale dalla mancanza dei requisiti di imprenditorialità, come ad esempio la disponibilità di capitale per avviare una iniziativa che sia realmente autonoma, risolvendosi in un rapporto più simile a quello del lavoro subordinato, ma reso peggiorativo dalla instabilità.

O ancora, è possibile pensare a quella parte di sottoproletariato in condizioni di disoccupazione strutturale: ultracinquantenni a bassa qualifica espulsi dai cicli produttivi, senza più concrete speranze di reinserimento. O ad un’area grigia di lavoro gravemente sottopagato, che per motivi di vario genere è esterno a qualsiasi tutela contrattuale (lavoro nero o informale, forme di lavoro mascherate da strumenti di tipo welfaristico – ex Lsu, titolari di programmi di inserimento lavorativo che spesso non sono altro che bacini di assistenzialismo senza sbocco lavorativo ed esistenziale reale,  buoni-lavoro, ecc.).

Oppure pensiamo a quella componente piccolo borghese che, nei nuovi meccanismi di organizzazione delle filiere produttive, è di fatto in via di proletarizzazione (il subfornitore che di fatto è legato in regime di monocommittenza alla grande impresa a monte, divenendone quasi un dipendente, i meccanismi del franchising, che producono una totale subordinazione del piccolo negoziante finale lungo la catena commerciale e distributiva)

Tutte queste figure sono sostanzialmente esterne ai meccanismi sindacali, o collettivi, di tutela del mercato del lavoro. Per diversi motivi, fra i quali anche una carenza di lettura da parte del sindacato, in particolare nei confronti dei precari, che per anni ha proposto a tali figure improbabili meccanismi di stabilizzazione, non coerenti con la fase del capitalismo innescatasi negli ultimi 20-25 anni, in cui la precarietà del lavoro è divenuta un elemento strutturale di disciplina dello stesso (il lavoro creativo non può essere disciplinato con i vecchi metodi fordisti), di risposta alla crescente disgregazione ed instabilità della domanda finale, nonché di flessibilizzazione verso il basso del salario in un contesto competitivo dove la competitività sul costo e la produttività del lavoro (cioè sul CLUP) è divenuto nuovamente centrale in conseguenza dell’emergere di nuovi competitor. L’incapacità del sindacato di pensare “su misura” rispetto alle esigenze di questa fascia di lavoratori, anziché pensare di poterli riportare indietro ad un’era fordista oramai conclusa, ha impedito di concepire nuove forme di welfare e modalità innovative di rappresentanza.

La politica, dal canto suo, è stata caratterizzata, dopo la caduta del Muro, da una involuzione culturale del pensiero della sinistra, sia di quella marxista che di quella riformista, la prima sempre più chiusa in una ridotta settaria dove si sperimenta la difficoltà di aggiornare la teoria di classe marxiana alle torsioni di un capitalismo sempre più dominato dai fattori produttivi di tipo immateriale e da organizzazioni del lavoro orizzontali e frammentate, e dedurne indicazioni operative. La seconda preda di tante derive diverse, tutte quante distruttive: il tentativo socio-liberista di proporre un pensiero liberista temperato dalla redistribuzione di esternalità sociali negative, la deriva movimentista e dei diritti civili che ha creato più estetica e narrazione che pensiero profondo sul rapporto capitale/lavoro. O quella ecologista/decrescista, incapace di affrontare le contraddizioni del capitalismo, poiché tesa ad una fuga verso un Eden di consumi responsabili, produzioni compatibili autarchia di autoproduttori morigerati ed altre sciocchezze. In questo contesto, la sinistra politica ha contribuito a generare falsa coscienza di classe nelle sopracitate categorie di invisibili (ad es. la retorica del precario-creativo-imprenditore di sé stesso) a generare proposte singole, magari anche pregevoli di per sé, ma non capaci, da sole, di dare una risposta organica a questi invisibili (redditi di cittadinanza, social card ed altri strumenti) oppure semplicemente a fregarsene di questi soggetti.

Rimasti senza una organica rappresentanza sociale e politica, invisibili e silenziosi, questi soggetti non hanno potuto fare altro che maturare un desiderio intenso di avere voce, di comunicare, specie in un contesto di crescente smaterializzazione dei processi produttivi che genera flussi informativi, che a loro volta potenziano la funzione della comunicazione, dandole crescente profittabilità. Alimentati da una falsa coscienza di classe, oppure semplicemente privati di un’azione politica collettiva che la possa costruire, essi hanno finito per diffidare delle organizzazioni politico-sindacali novecentesche, finendo quindi facilmente vittime di una retorica antipolitica contro partiti, sindacati e Casta. I processi di personalizzazione e deideologizzazione della politica, conseguenti al trionfo neoliberista dell’ultimo ventennio, e della sua visione di processi politici atomizzati e legati ad interessi immediati, hanno favorito un degrado morale delle classi dirigenti, che non hanno fatto altro che fornire ulteriori elementi giustificativi all’antipolitica (non che la corruzione non esistesse prima, ma mentre prima era, spesso, finalizzata ad obiettivi politici di conquista del consenso a beneficio del partito o della propria parte politica, oggi, in linea con la crescente individualizzazione della società, diviene sempre più un fenomeno criminale motivato da interessi individuali di arricchimento e carriera personale).

Questo degrado, comune a tutta l’Europa, e particolarmente intenso in Italia, dove i processi di crisi economica e destrutturazione sociale, dentro un sistema competitivo come quello dell’euro, e di paralisi della mobilità sociale verticale, sono stati particolarmente intensi, ha favorito la diffusione di un movimento basato sull’antipolitica e su una promessa di orizzontalismo e partecipazione diretta mirata a demolire gli organismi tradizionali della rappresentanza democratica. Gli invisibili vi hanno trovato, quindi, sia la risposta- illusoria – al loro desiderio di far sentire la loro voce, sia la risposta alla loro diffidenza verso il sistema politico e sindacale tradizionale. Sono quindi stati reclutati dentro un movimento politico aziendalistico, quindi tendenzialmente autoritario, anche se basato sui principi di lean organization tipici delle imprese attuali (dove i livelli gerarchici sono meno stratificati, si incentiva la partecipazione diretta di quelli inferiori, ma poi alla fine il padrone del vapore decide comunque, ed anzi, per evitare il rischio di caos organizzativo, la disciplina è forse anche più forte, tanto è vero che si incentiva il sindacato dialogante e cooperativo, non quello conflittuale tipico della fabbrica fordista). Guidato da preoccupanti derive di liberismo ortodosso (si pensi ai proclami di smantellamento della macchina pubblica comunale lanciati da Grillo su Roma, alle promesse di Casaleggio di rispettare l’austerità imposta dalla Trojka, ai tentativi del sindaco di Livorno di smantellare una partecipata pubblica tramite una procedura fallimentare). Movimento costruito da una azienda con rilevanti legami dentro il sistema del capitalismo finanziario e familiare, intermediati da personaggi come Enrico Sassoon, e caratterizzato da parole d’ordine tipiche del giustizialismo di destra (come interpretare diversamente la parola “onestà” urlata durante le esequie del fondatore? L’onestà sganciata dalla richiesta, altrettanto forte, di eguaglianza, diventa solo una richiesta di efficace manutenzione dello status quo sancito dalle leggi, ed è quindi reazionario, ma d’altra parte il giacobinismo finisce per cadere nella reazione, quando crea un ordine basato sul terrore).

Ma questa è una discussione del tutto politica, che agli invisibili non interesserebbe. Se è a loro che occorre rivolgersi, ammesso e non concesso che si voglia ricostruire una sinistra politica, e non solo intellettuale, e che voglia ambire ad incidere nella società italiana, quindi ad avere un valore elettorale nettamente superiore al 4-5%, può sembrare una ovvietà, però, ed al netto di ciò che succederà o non succederà dentro il M5S dopo la scomparsa di Casaleggio,  è necessario ripiegarsi proprio su di loro. Non allontanarsene con la puzza sotto il naso perché la loro falsa coscienza di classe li porta ad una distorta identificazione con i ceti dominanti (vale la pena di ricordare come lo stesso Marx ci avvertisse del fatto che, in fasi di crisi, la piccola borghesia oscilla tendenzialmente verso le ragioni del proletariato, rendendo possibili alleanze). Non calare loro dall’alto un modello di intervento, o qualche accrocco specifico, smerciato come soluzione universale, o pensare immediatamente di riportarli dentro un dirigismo organizzativo del quale diffidano, rimettendoli fin da subito dentro forme di centralismo democratico. Ma saper ascoltare i loro progetti di vita e le loro angosce, capendo che questa fase di ascolto è mancata per molti anni. Offrendo loro soluzioni nuove, per rispondere a tali progetti. Sapendo parlare la loro lingua, che è anche una lingua che passa per la comunicazione social, che di per sé contiene un livello inevitabile di orizzontalità. Ma che va utilizzata cum grano salis, come forma di coinvolgimento e di diffusione iniziale dell’informazione, di propaganda e di lancio di parole d’ordine, nonché di scambio di flussi informativi fra vertici e base.

Ma poi occorre, necessariamente, portare queste persone fuori dal mondo virtuale, che alla lunga diventa in parte una trappola ed in parte una manipolazione, costruendo dal basso una leadership politica condivisa, basata su meccanismi di ascolto vero, sui territori, dentro i posti di lavoro, dentro le piegature della disperazione e dell’emarginazione (anche recuperando tecniche di conricerca e di analisi sociale field abbandonate da anni). E, dopo l’ascolto, costruire proposte diverse, da sottoporre a un dibattito vero, fuori dai forum informatici, che sono inevitabilmente controllabili e manipolabili, ed a una votazione interna con la quale far scaturire una sintesi realmente rappresentativa, insieme ad una dirigenza accettata con una delega effettiva ad operare. Senza cadere in illusioni di democrazia digitale o di sistemi operativi con i quali condividere la redazione di progetti di legge. O su brutte copie del grillismo basate sulla cooptazione di pezzi di società civile scelti con criteri arbitrari e di comodo, ascolto posticcio immediatamente disciplinato da leaderismi sognanti e affabulatori, tavoli tematici fra addetti ai lavori organizzati in eventi controllati e filtrati, o, peggio ancora, narrazioni preconfezionate elaborate come risposta emotiva a meri sondaggi di umore, che non spostano il confronto politico e culturale dalla pancia verso la testa ed il cuore.

 

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