Euro e Austerity: la tenaglia che ci stritola

euro_austerity_articoloCredo che il primo dovere nei confronti di noi stessi sia quello della chiarezza.

In primo luogo sulla gravità della situazione. Il nostro paese ha perso, dall’inizio della crisi, poco meno del 10% del prodotto interno lordo, il 25% della produzione industriale, il 30% degli investimenti. A chi paventa catastrofi nel caso di un’eventuale fine dell’euro va risposto che al punto in cui siamo l’onere della prova va rovesciato, perché la catastrofe c’è già. E la prima cosa da fare è di comprendere come ci siamo finiti e cosa fare per uscirne.

Ci troviamo, molto semplicemente, nella peggiore crisi dopo l’Unità d’Italia: peggiore di quella del 1866, e peggiore di quella del 1929 (Rapporto CER n. 2/2013).

Peggiore per tre motivi: perché il livello di prodotto pre-crisi – che negli altri casi era già stato recuperato dopo 6 anni– in questo caso non sarà recuperato neppure in 10 anni; perché gli indicatori di cui disponiamo non segnalano alcun miglioramento significativo della situazione (al contrario, quanto alla disoccupazione, essi ne prevedono un ulteriore aumento nel corso del 2014). E anche perché la situazione attuale è caratterizzata da due elementi di rigidità che privano il nostro Paese di margini di manovra.

Il primo vincolo – quello rappresentato dall’appartenenza alla moneta unica – impedisce ogni autonoma politica monetaria e ogni recupero di competitività tramite la svalutazione della moneta.

Il secondo elemento di rigidità – quello dei vincoli di bilancio – impedisce ogni politica anticiclica, per non parlare poi di una politica industriale. Osservo en passant che il modello tedesco, continuamente invocato quando si tratta di precarizzare il mercato del lavoro sul modello dell’Agenda 2010 di Schröder, viene completamente trascurato quando si parla di politiche anticicliche. E sì che con 70 miliardi di euro utilizzati per rilanciare il settore manifatturiero tra 2008 e 2009, la Germania (che in quei due anni aveva perso all’incirca la stessa quota di prodotto perduta dall’Italia) costituisce un caso di scuola in fatto di utilizzo massiccio di politiche di deficit spending in funzione anticiclica…

I vincoli di bilancio hanno conosciuto un aggravamento negli ultimi tre anni anche rispetto a quanto fu previsto a Maastricht. In particolare, la regola relativa alla necessità di ridurre la parte di debito che eccede il 60% del pil nella misura del 5% annuo è una regola che nel Trattato di Maastricht non c’era, e non per caso: era infatti ben chiaro ai negoziatori degli altri Paesi che l’Italia non avrebbe potuto accettare un obbligo di riduzione del debito di queste proporzioni. Questo vincolo è invece stato introdotto nel 2011, nel bel mezzo della peggiore crisi economica globale dagli anni Trenta.

Stretti tra il vincolo monetario e quello delle politiche di bilancio, i governi non hanno alcun margine di manovra. Possono solo accettare la corsa al ribasso sui salari (ossia la svalutazione interna), che però – come si è visto in questi ultimi anni – ha l’effetto di far crollare la domanda interna, e quindi di ridurre, prima, e distruggere, poi, capacità produttiva, a evidente beneficio di produttori localizzati in altri paesi. La verità è che “di fatto, l’austerità fiscale ha collocato l’economia europea su un equilibrio di sottoccupazione” (Rapporto CER 4/2013, p. 7).

Se i vincoli di bilancio dal 2011 in poi si sono fatti più severi e stringenti, anche il vincolo monetario si fa sempre più soffocante, a dispetto dei bassi tassi d’interesse BCE. Per 3 motivi: 1) perché l’euro è sopravvalutato sul dollaro, 2) perché allo stesso annuncio dell’OMT da parte di Draghi, dopo la sentenza di Karlsruhe, sarà molto difficile dare seguito concreto in caso di necessità (ne ha scritto molto bene Gianluigi Nocella: http://re-vision.info/2014/02/in-attesa-di-condanna/ ); 3) infine, perché sul nostro paese incombe la deflazione; la quale, a differenza dell’inflazione, aumenta il valore reale del debito in essere e ne può rendere insostenibile il peso anche in tempi molto brevi.

Per questi motivi lo stesso assottigliarsi dello spread Bund/Btp non deve ingannare: esso infatti è il prodotto della politica di quantitative easing della Fed da un lato, dei flussi di capitale in uscita dai fondi obbligazionari specializzati in emerging markets dall’altro. Si tratta in entrambi i casi di dinamiche che potrebbero facilmente e rapidamente mutare di segno.

Anche perché non si è affatto invertito il processo di balcanizzazione finanziaria in Europa, ossia la risegmentazione dei mercati finanziari e il loro ridisegnarsi secondo linee coincidenti con i confini nazionali. Si tratta del pericolo numero uno per l’euro, assieme alla crescente divergenza tra le economie dell’eurozona. Un processo caratterizzato dal rimpatrio dei crediti effettuati dalle banche tedesche e francesi nei confronti degli altri paesi dell’eurozona, e conseguentemente dall’aumento della quota di titoli pubblici di questi paesi in mano alle banche domestiche. Nel caso delle banche tedesche, le esposizioni nei confronti dei Paesi periferici dell’eurozona è passata in pochi anni da esposizioni per 520 miliardi di euro verso i Paesi periferici dell’eurozona a esposizioni pari a 214 miliardi (dato di novembre 2013).

La ratio dell’Unione Bancaria, la vera posta in gioco con la sua costruzione, consiste nella possibilità di invertire questo processo. Ma purtroppo, per i difetti della sua attuale configurazione (ritagliata sulle esigenze delle banche tedesche e sulla necessità di proteggerne il maggior numero possibile dall’esame della BCE), non sembra in grado né di ridurre entro termini ragionevoli il rischio sistemico, né di costituire una diga efficace alla balcanizzazione finanziaria. Con quello che ne consegue anche per quanto riguarda le prospettive di sostenibilità del nostro debito pubblico.

Più in generale, C.M. Reinhart e K.S. Rogoff ritengono che in base all’esperienza storica l’ottimismo dei governanti europei circa la possibilità di uscire dal debito “per mezzo di un mix di austerity, forbearance e crescita” sia ingiustificato. E che, al contrario, “il finale di partita della crisi finanziaria globale probabilmente richiederà una qualche combinazione di repressione finanziaria (una tassa occulta sui risparmiatori), vera e propria ristrutturazione del debito pubblico e privato, conversioni, inflazione molto più elevata, e misure varie di controllo dei capitali” (C.M. Reinhart e K.S. Rogoff, Financial and Sovereign Debt Crises: Some Lessons Learned and Those Forgotten, IMF Working Paper, dicembre 2013, pp. 3-4).

Se riflettiamo su queste parole, possiamo intendere come molti dibattiti italiani su questi temi siano fuori centro e fuori tempo.

Si invoca lo spettro dell’inflazione (che riduce il valore reale del debito) quando invece siamo prossimi alla deflazione (che lo aumenta).

Oppure si invoca lo spettro della svalutazione della moneta quando, semmai, il vero problema oggi è la svalutazione interna: perché stiamo già svalutando, e pesantemente, i salari (la qual cosa, sia detto di passaggio, è precisamente quello che ci viene chiesto quando si parla di “riforme strutturali”).

L’errore, qui, è quello di pensare con le categorie e con le priorità degli anni Settanta e Ottanta in uno scenario completamente cambiato, i cui elementi di pericolo sono completamente differenti.

Rigidità delle politiche di bilancio e rigidità del cambio sono difficilmente sostenibili di per sé. Ma soprattutto sono insostenibili contemporaneamente. La conseguenza è molto semplice: o salterà l’una, o salterà l’altra.

O sapremo conquistarci maggiori margini di manovra effettivi sui conti pubblici, e al tempo stesso imporre anche alla Germania la politica espansiva in termini di domanda interna che sinora si è rifiutata di attuare (senza la quale ogni espansione della nostra domanda interna riproporrebbe una situazione di squilibrio della bilancia commerciale), o procederemo verso l’implosione dell’eurozona. Ma, prima ancora, verso la distruzione della nostra capacità produttiva e della nostra economia.

L’unico modo per conquistare quei margini di manovra è porre radicalmente in discussione gli ultimi Trattati e accordi europei: quelli dal marzo 2011, ossia dal Trattato Europlus in poi. Altrimenti, non resta altra strada che l’abbandono della moneta unica. Non ci sono altre vie: in particolare, non sarebbe praticabile né utile la strada di un approfondimento del processo di integrazione europeo anche da un punto di vista politico. Infatti, se non si interviene prima sull’impianto neoliberistico/mercantilistico che impronta di sé i Trattati dall’Atto Unico Europeo dal 1986 in poi – e che fa sì che la competizione tra paesi in Europa sia necessariamente tutta giocata sulla concorrenza al ribasso sulla protezione del lavoro e sulla fiscalità per le imprese – ogni ulteriore passo avanti verso l’integrazione politica rischierà inevitabilmente di rappresentare la blindatura istituzionale, tendenzialmente autoritaria, di un assetto sociale ingiusto e insostenibile.

Una citazione per finire:

Quest’area monetaria rischia oggi di configurarsi come un’area di bassa pressione e di deflazione, nella quale la stabilità del cambio viene perseguita a spese dello sviluppo dell’occupazione e del reddito. Infatti non sembra mutato l’obiettivo di fondo della politica economica tedesca: evitare il danno che potrebbe derivare alle esportazioni tedesche da ripetute rivalutazioni del solo marco, ma non accettare di promuovere uno sviluppo più rapido della domanda interna.”

Sono parole tratte dal discorso parlamentare con il quale Luigi Spaventa motivò il voto contrario del PCI all’ipotesi di adesione dell’Italia allo SME. Era il 12 dicembre 1978. Il rischio che Spaventa lucidamente aveva individuato si è concretizzato: le sue parole, purtroppo, descrivono alla perfezione la situazione attuale dell’Europa.

È questa la catastrofe in cui già siamo e da cui dobbiamo uscire. Prima che sia troppo tardi.

4 commenti per “Euro e Austerity: la tenaglia che ci stritola

  1. letizia
    8 Maggio 2014 at 9:42

    in molti mi chiedono del perche’ gli inglesi storici pescecani liberisti si siano messi a nudo su questioni così fondamentali come la creazione della moneta , ed abbiano gettato la maschera pochi giorni fa con questo articolo https://www.facebook.com/groups/509235105791618/search/?query=bank%20of%20england
    secondo voi si potrebbe reinterpretare una delle piu’ grandi contraddizioni del capitalismo, leggendo nella situazione attuale una nuova lotta di classe che potrebbe portere alla deflagrazione della moneta unica? il modo di produzione capitalistico allo stato attuale ha un grossissimo problema di domanda, ma la maggior parte di richiesta di beni viene proprio dalla quella classe media che e’ stata depapeurizzata dalle politiche depratorie delle èlite internazionali che perseguono grandi profitti tramite il saccheggio, in nome del debito pubblico degli stati, di grandi porzioni di bene pubblici e privati. Il cosiddetto esercito industriale di riserva che era anch’esso funzionale al capitale per l’abbattimento dei salari, adesso invece e’ diventato il suo anello piu’ debole. la disoccupazione altissima conseguenza delle politiche economiche statali che si sono asservite alla finanza quindi provoca anche li un crollo della domanda in tutta europa. In poche parole i grandi capitali massimalizzano i loro profitti investendo in titoli ma il piccolo capitale per come la vedo io e’destinato a trovare la strada della sua sopravvivenza tramite lo scontro e l’abbattimento proprio di quelle politiche ultraliberistiche che l’euro rappresenta. Saranno loro a portarci fuori facendo saltar tutto ma senza cambiare poi di base nulla per cio’ che ci riguarda?

  2. Alessandro
    8 Maggio 2014 at 16:36

    Non sono un economista, quindi non posso entrare nel merito di questioni che non sono in grado di padroneggiare, però vorrei lo stesso sollevare una questione. L’euro è stato adottato quando gli effetti della selvaggia globalizzazione neoliberista hanno incominciato a manifestarsi pienamente, con le delocalizzazioni, con le speculazioni finanziarie. Non potrebbe darsi che il problema non sia l’euro, ma l’assenza di una politica che sia in grado di gestire questi processi economico-finanziari che invece fino a ora hanno usufruito del laissez faire più totale?
    Non è un caso che a soffrire maggiormente della crisi occupazionale siano le aree più periferiche del continente, quelle più care per la produzione e per la successiva vendita dei prodotti, mentre le aree centrali reggono non solo per una maggiore propensione alla “virtuosità” e alla serietà delle classi dirigenti, ma anche perchè, pur garantendo ai lavoratori alti salari, riescono però a limitare le spese di produzione e distribuzione vista la loro collocazione geografica.
    Certamente l’intervento non può più essere demandato alle singole entità nazionali, ma andrebbe operato a livello perlomeno continentale, per esempio penalizzando fortemente le delocalizzazioni speculative e invece premiando gli investimenti seri e produttivi. Può la svalutazione della moneta nazionale sostituirsi a questi interventi?
    Ancora una volta sono portato a pensare che la causa dei nostri mali sia la totale libertà di cui gode il capitale. E’ l’eterno ritorno del sempre uguale, citando un noto filosofo.

  3. tom
    12 Maggio 2014 at 13:20

    La svalutazione non basta, senza un ritorno agli stumenti legislativi e normativi di tutela del lavoro, del patrimonio pubblico e dell’ascesa sociale… cionondimeno è un inizio. Aver voluto costruire una surrettizia identità europea attorno ad un Euro esiziale DEVE ripercuotersi contro gli assassini che hanno progettato ed eseguito questo piano. Il valore simbolico dell’attacco all’euro è enorme, e la prima parte dell’offensiva deve andare a segno.

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