Eutanasia

Tra una lezione e l’altra, a scuola, come spesso accade, si aprono dei dibattiti con gli studenti su vari temi di attualità; del resto anche a questo serve la filosofia. Questa è stata la volta dell’eutanasia. Una delle più accese, in questa occasione, è stata una studentessa dell’ultimo anno (non di una mia classe), simpatizzante della sinistra radicale.

Concordiamo sul fatto che persone con gravissime patologie, imprigionate in corpi quasi totalmente paralizzati, oppure malati terminali afflitti da gravi sofferenze fisiche e psicologiche, abbiano il diritto di decidere della loro vita (e quindi anche di porle fine attraverso il cosiddetto “suicidio assistito”) in totale autonomia.

Lei però va (molto) oltre e insiste sul fatto che questo diritto dovrebbe essere esteso a tutti, anche, ad esempio, alle persone depresse perché non abbiamo nessun diritto di pontificare sul loro dolore nè possiamo giudicare quale sia il loro stato di sofferenza. “Può darsi che per alcune di loro – ha spiegato – quello stato di malessere profondo sia del tutto equiparabile a quello di una persona completamente paralizzata, intubata e inchiodata in un letto”. “Del resto – riporto testualmente le sue parole – viviamo in un sistema capitalista fondato sull’utile, il denaro, l’accumulazione e non certo sull’essere umano; un sistema che genera malessere, disagio e depressione soprattutto nelle persone che non riescono a sopportare la competizione sfrenata che impone e, quindi, dal momento che la libertà individuale è sacra, dovremmo dare a tutti la possibilità di scegliere quando andarsene da questo mondo”.

Obietto che proprio quella sua idea di libertà potrebbe essere funzionale al sistema che lei (in buona fede) dice di voler combattere, perché proprio “garantendo” quella “libertà” il sistema stesso potrebbe trovare la giustificazione per conservare lo status quo e disfarsi, potenzialmente, di tutte quelle persone considerate inutili, improduttive o inabili per le più svariate ragioni: anziani, depressi, psicologicamente o socialmente fragili, disabili,  persone sole, abbandonate, oppure cadute in un vortice di depressione perché non riescono a trovare un lavoro e una collocazione nella società, oppure ancora perchè lo hanno perso e non riescono a ritrovarlo, emarginati per i più disparati motivi, tossicodipendenti, alcoolizzati, giovani privi di una socialità, di una vita sessuale e affettiva con tutte le ricadute psicologiche del caso, e via discorrendo (l’elenco delle cause che generano disagio psicologico e sociale sarebbe lunghissimo).  “Bisognerebbe – aggiungo – impegnarsi per cambiare la situazione, per trasformare la realtà, per costruire una società più solidale e umana e non per dare la “libertà” alle persone di togliersi la vita perché depresse o incapaci/impossibilitate di reggere la competizione”.   E lei mi risponde che ho ragione ma che prima che si cambieranno, forse, le cose, passeranno secoli, e allora è giusto impegnarsi per cambiare la realtà ma nel frattempo bisogna garantire a tutti anche la libertà e il diritto di togliersi la vita”.

Ora, sarebbe sbagliato credere che questo modo di pensare sia soltanto un caso isolato. In realtà questa giovanissima donna – pur non essendone consapevole – ha interiorizzato, fino alle estreme conseguenze, il concetto di “libertà” tipico della ideologia neoliberale e neoliberista dominante, così come nello stesso tempo, pur così giovane, ha già interiorizzato la sconfitta che si traduce nell’idea della impossibilità della trasformazione della realtà. Due piccioni con una fava (per il sistema), verrebbe da dire. E la cosa ancora più drammatica è che è convinta di stare sostenendo chissà cosa di innovativo e rivoluzionario…

E non è un caso che appartenga idealmente ad una certa “sinistra radicale” la cui stella polare è ormai solo la retorica parossistica sui diritti civili (compreso quello al suicidio assistito senza nessuna limitazione di sorta) i cui aderenti, in molti casi in buona fede, pensano e vivono in totale simbiosi con l’ideologia neoliberale dominante pur non essendone consapevoli.

Eutanasia: "Io, che in Svizzera accompagno gli italiani a morire" - Associazione Luca Coscioni

Fonte foto: Associazione Luca Coscioni (da Google)

7 commenti per “Eutanasia

  1. Giulio Bonali
    24 novembre 2021 at 8:58

    Però secondo me quello di porre fine alla propria vita é (dovrebbe essere) un diritto individuale insindacabile (oddio, non nego che dire le stesse cose dei “radicalfighetti”, da “cattocomunista” quale loro solitamente mi additano al pubblico ludibrio, mi fa un po’ schifo).
    Per me vale “a prescindere” (in astratto, e senza dimenticare che in ogni caso della vita va condotta, per parafrasare Lenin, un’ anallisi concreta della situazione concreta).
    Certo chi si toglie la vita alla prima depressione é uno stolto superficialissimo che non sa ciò che perde (del che peraltro non avrà mai modo di dolersi e pentorsi).
    Certo nessuno nasce saputo e l’ educazione e l’ aiuto allo sviluppo armonico della personalità di bambini e adolescenti é un dovere degli adulti, che si compie (contro il pessimo -senza virglette- “buonismo” politicamente corretto) anche con corcizioni e punizioni (ovviamente limitate: un conto é violare il “diritto” di un bambino di attraversare la strada senza guardare finendo sotto un camion, un’ altro é impore a un adolescente la scuola secondaria da frequentare).
    Personalmente sono molto grato al mio maestro elementare che non disdegnava di usare (con me persinalmente non meno che con altri compagni di scuola perché sono sempre stato molto indisciplinato) una leggera bacchetta di canna legnosa (sulle mani e talora sulla testa; ogni tanto si ropmpeva e un leccaculo del primo banco, odiato da tutti, si premurava di procurargliene una nuova), nonché tirate di orecchi e scapellotti alla bisogna.
    Però, nel caso di persone mature o comunque maggiorenni incline al suicidi per motivi che noi (contrariamente a loro) riteniamo (probabilmente a ragione; e secondo il nostro punto di vista, per quel che ne possamo capire) non sufficientemente gravi secondo me non dovremmo agire coercitivamente ma invece aiutandoli razionalmente ed affettivamente (dovrebbe anzi essere un diritto, almeno in una certa misura, potere usufruire di un aiuto -magari anche pubblico, nei limiti del possibile- nei momenti di difficoltà).
    Dovrebbe poter bastare la persuasione nel caso di persone sufficientemente mature (almeno in teoria; mi rendo conto che non di rado capita che chi sia stato imopedito a suicidarsi o salvato “in corso d’ opera” ringrazia infinitamente i suoi salvatori: bisognerebbe valutare di volta in volta il da farsi, e qui sta il diffcile; ragionare in astratto per chi, come noi, é felice é facilissimo ma non serve, purtroppo).

    • Fabrizio Marchi
      24 novembre 2021 at 14:00

      Non ho mai parlato di metodi coercitivi per impedire alle persone di suicidarsi, ci mancherebbe altro. Al contrario, penso che una società civile sana o relativamente sana deve aiutare le persone a vivere e non a togliersi la vita…con la solidarietà, il calore umano, il senso della comunità, la vicinanza emotiva e fisica, il sostegno a superare le inevitabili difficoltà della vita.
      Una società realmente evoluta deve essere permeata da messaggi e valori positivi e non può essere fondata su un messaggio del tipo “Se non ce la fate o non sopportare il dolore esistenziale (o le difficoltà, in gran parte create dalla società stessa) vi aiuto a suicidarvi…”. Non scherziamo neanche…Quest’ultima sarebbe una sorta di miscela di darwinismo e malthusianesimo sociale. Altro discorso, ovviamente, sono le persone affette e afflitte da gravi e dolorose patologie, come l’essere inchiodati si una sedia a rotelle o aver contratto una malattia degenerativa o altro ancora. In quel caso, il soggetto deve essere libero di poter decidere in totale autonomia.
      P.S. Magari fossi felice o felicissimo… 🙂

  2. Panda
    24 novembre 2021 at 14:37

    Quello che non mi riesce di capire – forse per un limite mio – è come si possa da un lato ammettere che la propensione al suicidio sia frutto di una manipolazione operata dal sistema, dall’altro difenderla come momento espressivo di libertà. La libertà si riduce a uno snodo funzionale di una società che si riconosce non fondata sulla libertà. A quanto pare, secondo qualcuno, l’orizzonte ideologico della sinistra dovrebbero essere le posizioni di Nozick, imbellettate dall’ipocrisia di un sospiro di dispiacere.

    Tra l’altro esiste letteratura che della debolezza del momento “autonomistico”, non fosse di per sé evidente, fornisce anche qualche riscontro empirico. Esempio: “There are also important ethical implications; the fact that there is a high prevalence of potentially treatable psychiatric illness in those elderly people who have both physical illness and suicidal ideation should be central in any discussion on physician assisted suicide.” ( https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC523116/ )

    Ovviamente il confine fra manipolazione e coercizione nel capitalismo è molto sottile: una volta aperta quella porta, non si vede né come né perché le spinte, magari neanche troppo gentili, a varcarla non possano aumentare. Già ora, in Oregon, dove dal ’98 esiste una legge sul suicidio assistito, nel 2018 risulta che il 54% degli “utenti” ha “scelto” nel timore di costituire “un peso per famiglia, amici/caregiver” (qui: https://www.oregon.gov/oha/ph/providerpartnerresources/evaluationresearch/deathwithdignityact/documents/year21.pdf pag. 12), la percentuale più alta dal 1998.

    Si può sostenere quel che si vuole, ma almeno si abbia il coraggio di guardare la realtà in faccia.

  3. Alessandro
    24 novembre 2021 at 14:49

    “Concordiamo sul fatto che persone con gravissime patologie, imprigionate in corpi quasi totalmente paralizzati, oppure malati terminali afflitti da gravi sofferenze fisiche e psicologiche, abbiano il diritto di decidere della loro vita (e quindi anche di porle fine attraverso il cosiddetto “suicidio assistito”) in totale autonomia.”
    Condivido. Purtroppo non si riesce a ottenere neanche questo e. Diciamocela tutta: la vita è sicuramente un’esperienza interessante, per quanto anche assai deludente, a patto che la si possa trascorrere in modo decente sotto il profilo fisico, altrimenti è semplicemente un peso e in questo caso dobbiamo consentire al singolo di abbreviare le sue sofferenze. Chi non percepisce questo manca totalmente o di empatia o pone l’ideologia al di sopra di tutto. Certo, è difficile giudicare dall’esterno il grado di sofferenza, ma credo che una diagnosi di una malattia incurabile che manifesta una sintomatologia pesante sia sufficiente per consentire al singolo individuo di farla finita. Oltre non andrei. Tutto ciò che è curabile o gestibile, anche una depressione per quanto crei sofferenza, non dovrebbe ottenere questo lasciapassare, per le ragioni elencate nell’articolo. D’altronde la vita è più un campo di battaglia, con se stessi e con gli altri, che un pranzo di gala, quindi si abbandona il campo quando oggettivamente non ha più senso lottare.

    • Giulio Bonali
      24 novembre 2021 at 16:23

      Il problema é però che non può darsi certezza oggettiva calcolabile o misurabile di quando non abbia più senso lottare oppure ne valga ancora la pena.
      Ci sono eroi e pavidi (in vario grado e con infinite sfumature intermedie), e anche questi ultimi secondo me hanno il diritto di decidere da sè della propria vita (“il coraggio uno non può darselo”, don Abbondio, personaggio gretto e meschino, ma che ha diritto di vivere secondo la sua grettezza e meschnità nella misura in cui non danneggi indebitamente altri).
      Per questo concordo con tutti quelli che dicono che si deve cercare di aiutare a vivere tutti e chiunque, anche in caso di gravi sofferenze (mal valutabili “da fuori”, largamete soggettive e quindi da lasciar ponderare a ciascuno per se stesso, almeno in ultima istanza); ma detto questo, come dicono i politicamte corretti quando vogliono trarre in iganno gli interlocutori e il “pubblico pagante”, ma non é il mio caso, alla fine la scelta di ognuno che sia maturo (in teoria; di fatto maggiorenne) dovrebbe essere autonoma e non impedita da coercizioni estrinseche (ovviamente parlo di scelte eminentemente personali-individuali, come quella di porre fine alla propria sofferenza con il suicidio o l’ eutanasia, non di scelte con implicazioni sociali o comunque anche per altri individui oltre quelli che le compiono).

      Posso giudicare male, anche con severità, una scelta altrui non implicante altri che l’ autore, ma non posso imedirgliela, se voglio agire eticamente.

      • Alessandro
        24 novembre 2021 at 21:04

        Sì, infatti parlavo di una diagnosi di malattia incurabile e di una sofferenza pisco-fisica importante, che credo sia abbastanza oggettiva. Chiaramente nessuno può scegliere al posto del diretto interessato. Da ateo non credo ai miracoli, ma altri sono liberissimi di crederci e prolungare la loro agonia nella speranza di un intervento soprannaturale, soltanto non devono imporre agli altri la loro visione della sofferenza estrema incurabile.
        Ciò che m’infastidisce nel ragionamento di tanti, non certo del suo che è molto equilibrato come sempre, è che si arroghino il diritto di prolungare la sofferenza altrui, quando non gliene mai fottuto niente dell’altro. Ricorda un po’ quei cattolici che avallano i bombardamenti umanitari in giro per il mondo, stroncando la vita a tanti bambini, che però si ergono a difensori della vita quando si parla di aborto.
        Conosco troppo bene la sofferenza vera, vivendola e avendola vissuta nei parenti più stretti per non sapere che, in casi molto ben definiti, è la scelta migliore per chi soffre direttamente e solo questo a me interessa.

        • Giulio Bonali
          25 novembre 2021 at 8:46

          Capisco e concordo perfettamente.
          Fra l’ altro noto anche che quegli ambienti cattolici prevaricatori che pretenderebbero di imporre ad altri le loro proprie convinzioni anche a costo di condannarli di fatto ad efferate torture, spesso e volentieri sono estremamente ipocriti.
          Ricordo che il card. Martini (per molti aspetti più apprezzabile di tanti altri suoi colleghi; sicuramente molto meno peggio di un Woytila o un Marcinkus, anche se non ci vuole proprio niente per esserlo), secondo la testimoninaza postuma di un suo intimissimo collaboratore, amico e confidente da me ascoltata in TV, quando era malato terminale chiese di “essere addormentato” -ben diversa cosa dal ricevere antidolorifici e in generale cure paliative!- per evitare gli ultimi supplizi che gli avrebbe imposto il morbo se lasciato libero di evolvere “secondo natura” -ovvero, per loro, “secondo provvidenza divina”; e fu accontentato (nella clinica religiosa in cui era ricoverato). Cioé chiese ed ottenne di finire anticipatamente per arifizio medico la sua vita cosciente e in qualche misura perfino la sua vita vegetativa (poiché in coma farmacologico non si può essere alimentati che artificialmente, di certo non trascurabilmente peggio che in satato di veglia, così accelerando inevitabilmente il decesso).
          Ma guai a chiamarla col suo nome: eutanasia (per certi secondari aspetti differita, se proprio vogliamo cercare il pelo nell’ uovo)!
          Personalmente sono:
          a) lieto che si siano evitate da parte sua sofferenze terminali inutili e non minimamente compensate da soddisfazioni, secondo la sua volontà espressa in piena autonomia;
          b) scandalizzato (letteralmente) che la chiesa cattolica pretenda di impedire e di fatto impedisca a tanti altri lo stesso pietoso trattamento.

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