Guerra: una coazione a ripetere?

Quando sentiamo un Edward Luttwak magnificare la presunta bellezza della guerra e il fascino che, secondo lui, essa torna oggidì a esercitare sugli esseri umani proviamo un senso di sgomento, senza renderci conto che la nostra “istintiva” ripulsa è figlia dei tempi: in altre epoche ben pochi avrebbero stigmatizzato come odiosa provocazione l’uscita televisiva del polemologo e polemista americano.

“(…) che la guerra è bella, anche se fa male / che torneremo ancora a cantare” recita il testo di Generale, una fra le più poetiche canzoni antimilitariste scritte negli ultimi decenni in Italia, che ci racconta una scomoda verità: è difficile sottrarsi alla malia di una grande parata militare o di una pattuglia di caccia Sukhoi in volo acrobatico. Armi e uniformi seducono da sempre: ciò che oggi rifiutiamo è lo strazio del campo di battaglia, lo spettacolo delle mutilazioni e della morte cruenta. Non è solo una questione di “gusto”: ci piace credere che, col trascorrere dei secoli, l’essere umano sia maturato, passando da suddito asservito a cittadino consapevole e acquisendo un maggior rispetto di se stesso e dei suoi simili. L’uomo e la vita come “valori in sé”, assoluti e irrinunciabili. Quando sarebbe avvenuto questo radicale mutamento di prospettiva? Ne Il mondo di ieri l’ebreo austriaco Stefan Zweig rappresenta un’Europa – quella delle Belle Époque – in cui non esistevano (o quasi) controlli alle frontiere, gli intellettuali dei vari Paesi dialogavano fraternamente fra loro e la pace e il progresso erano dati per scontati. L’attentato di Sarajevo turba appena quest’idillio: nel parco di Vienna poco dopo l’arrivo della ferale notizia la banda riprende a suonare. Siamo troppo evoluti per ricadere nella follia della guerra, pensa l’autore, e invece… e invece di lì a poco scoppierà un conflitto devastante, che produrrà milioni di morti e soprattutto imbarbarirà gli animi, rimettendo a nudo la natura violenta di individui insospettabili. Passano appena due decenni e deflagra la guerra più sanguinosa della Storia, scatenata da un popolo – quello tedesco – reputato non a torto il più colto e civile dell’Occidente. Gli atti di eroismo e gli episodi di umanità non mancano, ma degradano a eccezioni in un quadro dipinto di nero: la regola sono i bombardamenti terroristici, le rappresaglie spietate, le esecuzioni di massa e la crudeltà nei confronti del “nemico”.

Erano più aggressivi e “barbari” di noi i nostri nonni e bisnonni? Ritengo proprio di no, anche se mediamente conducevano un’esistenza piuttosto grama e meno “comoda” di quella toccataci in sorte. La gioventù comune cresceva per strada, scontri fisici e prove di ardimento erano all’ordine del giorno… senso dell’onore e combattività venivano esaltati da chi reggeva il potere.

Siamo guariti dal virus bellicista grazie alle distruzioni susseguitesi dal 1939 al ’45? Di certo le immagini di quella carneficina – e dei morti, specialmente civili – si sono impresse nella memoria collettiva, suscitando orrore, ribrezzo e paura. Prima erano soltanto le vittime a provare e vedere con i propri occhi gli effetti immediati delle azioni belliche, dall’avvento di cinema e televisione siamo tutti potenziali testimoni delle turpitudini di una qualsiasi guerra. Questo è un dato di fatto, ma l’ipotesi che le scene cui abbiamo assistito “da remoto” sin dall’infanzia abbiano contribuito a un ravvedimento operoso dell’umanità costituisce una pericolosa, anche se rassicurante fantasticheria.

La verità è che non siamo affatto migliori dei nostri avi: banalmente abbiamo qualcosa in più da perdere, perché oggi il “cittadino medio” del c.d. Occidente vive abbastanza a lungo, ha un tetto sulla testa e indumenti decorosi, mangia almeno due volte al giorno, ha teorico accesso alle cure mediche e all’istruzione universitaria. Abbiamo insomma timore di mettere a repentaglio le nostre (effimere) conquiste; inoltre assumiamo massicce dosi quotidiane di bromuro mediatico servito da un’élite che ha un comprensibile interesse a tenerci “buoni”, vale a dire apatici e inerti. Ci illudiamo di essere rinsaviti: in realtà ci siamo lasciati addomesticare.

E’ scoraggiante dover ammettere che la maggior parte degli europei contemporanei “ripudia” la guerra non per scelta etica, bensì per pavidità, indolenza e attaccamento alla vita: così mi pare stiano tuttavia le cose, e qualche rondine illuminata dal sole della ragione non fa primavera. Lo spirito critico è stato domato, non così l’aggressività individuale che dei conflitti è il propellente: di un tanto possiamo agevolmente renderci conto guardandoci attorno e osservando certe nostre reazioni nella quotidianità e sui social. Se il tasso di violenza è comunque diminuito rispetto al passato ciò è dovuto – come ho cercato a suo tempo di dimostrare nell’articolo Violenza individuale, passività collettiva (http://bentornatabandierarossa.blogspot.com/2012/11/violenza-individuale-passivita.html) – all’accresciuta capacità di controllo da parte di autorità provviste di efficaci poteri coercitivi e sanzionatori: per funzionare il sistema capitalista ha bisogno di produttori docili e ben irreggimentati. Insomma, per dirla col poeta: puoi anche illuderti di essere diventato migliore, ma “Sei ancora quello della pietra e della fionda / uomo del mio tempo”.

Tutta colpa nostra? Direi proprio di no: l’uomo nasce predatore in un mondo ostile e pieno di insidie, e comunque – come ci ha insegnato Marx – sono le condizioni ambientali lato sensu intese a plasmare la coscienza del singolo, non viceversa. La società occidentale odierna ama autorappresentarsi come progredita e “civile”, ma l’esperienza diretta ci racconta una storia ben diversa: è invece altamente competitiva, spietata nei confronti dei deboli e dei devianti, abile nel produrre beni e servizi ma restia a distribuirli equamente. Incensato a parole il merito viene raramente premiato, mentre i diritti sostanziali restano sulla carta: le doti richieste a chi vuole farsi strada e sopravvivere decentemente sono spregiudicatezza, cinismo e attitudine alla dissimulazione. L’Occidente non rifiuta affatto la guerra, cui ricorre spesso e volentieri – e quando non la combatte con i propri eserciti la appalta ad altri, infischiandosene delle desolazioni e dei lutti provocati. Solamente una transizione al Socialismo e la comparsa dell’uomo nuovo preconizzato da Karl Marx potrebbero cancellare la guerra dalla Storia, ma negli ultimi decenni il traguardo sembra essersi allontanato anziché avvicinarsi, e anche se il cammino va percorso con fiducia (There is no alternative, se non vogliamo fare tosto o tardi una bruttissima fine!) la meta potrebbe rivelarsi a conti fatti utopistica: dell’inafferrabile natura umana sappiamo ancora abbastanza poco.

Un tenue barlume di ottimismo ci deriva dal fatto che, nonostante rullino da mesi i tamburi dell’interventismo politico-mediatico, la maggioranza degli italiani è attualmente contraria all’invio di armi all’Ucraina “aggredita” e a un impegno diretto nel conflitto, tuttavia l’incessante propaganda appare finalizzata a compattare, motivandola, una cospicua minoranza che potrei definire carrista, composta perlopiù dai lettori di giornali di (pseudo)sinistra e dai sostenitori del PD: il rischio di un remake delle “radiose giornate di maggio” (del 1915) non è purtroppo assente, poiché l’esperienza storica insegna che gruppi indottrinati e decisi hanno spesso il sopravvento su moltitudini prive di coesione.

Preso atto che il fenomeno guerra accompagna l’umanità fin dai primordi e che sovente i conflitti scoppiano quasi motu proprio, facendosi beffe dei piani dei governanti, possiamo soltanto sperare che la loro frequenza (se non l’intensità) progressivamente si riduca, affidandoci allo sbiadire di “ideali” un tempo di moda (tendenza accentuatasi negli ultimi decenni, vissuti all’insegna di un consumismo sfrenato che recide i legami comunitari) e alla crescente abulia per contrastare l’istinto di sopraffazione e l’insofferenza verso l’altro che albergano in ciascuno di noi. Un calcolo utilitaristico ci suggerisce che la guerra conviene a pochi e nuoce ai molti – perciò va evitata. Sarebbe tuttavia ipocrita – e dunque in linea con l’ideologia dominante – negare, come fanno i benpensanti, che l’essere umano subisca la fascinazione dell’arte bellica, delle armi e del confronto muscolare: in fondo la poesia stessa germoglia, ovunque nel mondo, come esaltazione delle gesta degli eroi combattenti. E’ inquietante pensare che alcune fra le più grandi opere letterarie mai composte – dall’Iliade alla Gerusalemme liberata, dal Mahabharata a Guerra e pace – si ispirano a feroci conflitti e che l’evoluzione tecnologica procede di pari passo con quella degli armamenti: inquietante, ma rispondente al vero.

Dai diamanti non nasce niente / dal letame nascono i fior” osservava un altro eccelso cantautore, ma di letame nei millenni ne è stato sparso fin troppo, e un cambio di registro è auspicabile.

Luttwak, un esperto vero -

Fonte foto: da Google

1 commento per “Guerra: una coazione a ripetere?

  1. Filippo
    14 maggio 2022 at 0:14

    Interessante lettura, grazie.

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