Guerra fashion

Nel 1990 un team del dipartimento della Difesa statunitense, guidato da Dick Cheney così si esprimeva in un rapporto intitolato “Defense Planning Guidance”: “Il nostro obiettivo è evitare il riemergere di un nuovo rivale sull’ex territorio sovietico o altrove, che rappresenti una minaccia pari a quella sovietica. Questa è la valutazione principale e richiede che ci si sforzi di impedire a qualsiasi potenza ostile di dominare una regione le cui risorse, ben controllate, sarebbero sufficienti a generare un potere globale. La nostra strategia deve ora ricalibrarsi per impedire l’emergere di un potenziale futuro concorrente globale.
Nella Strategia di sicurezza nazionale del 2002 George W. Bush questo ribadiva: “Le nostre armate dovrebbero essere abbastanza forti da dissuadere i potenziali avversari dal perseguire un’espansione militare che speri di superare o eguagliare il potere degli Stati Uniti”.
In effetti l’atteggiamento Statunitense dalla caduta del muro è stato contraddistinto da un vero e proprio interventismo imperialista accecato da uno schema consolidato di compulsivo colonialismo. I nemici della libertà americana, grazie all’espansione della comunicazione globalizzata e supinamente affiliata, venivano ridotti a sanguinari despoti. Saddam, Milosevic, Gheddafi, Assad, Chavez e poi Maduro. Nessun contraltare.
La potestas indirecta americana prendeva il nome di globalizzazione. A difesa dei profitti privati delle multinazionali qualsiasi intervento militare diventava comprensibile. La guerra un modo come un altro per difendere la civiltà dei mercati. Il consenso pressoché unanime. Qualsiasi anfratto del globo era centrale per gli interessi occidentali. In un’ottica preventiva.
Questa era la Fine della Storia. Impregnata di sanguinoso terrore. Una Fine della Storia mai consolidata però. I valori occidentali disegnati sull’individualismo competitivo non sono riusciti ad affascinare altre culture. Russia e Cina si sono chiamate fuori.
Per arginare la Russia sono stati costruiti chirurgici interventi in zone di sua influenza (Serbia e Siria) e si sono approvvigionate formazioni di estrema destra nell’Europa centrale dal forte sentimento anti-russo. Sdoganando qua e là quel tanto di nazismo al chilo.
L’Ucraina si è rivelata centrale nella strategia di accerchiamento della Russia. Un colpo di stato nel 2014 ha cristallizzato l’intervento americano nel Paese. I cittadini russi, i partiti comunisti sono stati vittime di politiche persecutorie. L’esercito ucraino, con le sue milizie inneggianti al nazional-socialismo, ha ingaggiato un conflitto distruttivo nelle Repubbliche indipendenti del Donbass.
La Russia, in questo contesto, ha ribadito da un decennio le sue pretese. Neutralità dell’Ucraina, Crimea russa e indipendenza delle Repubbliche russofone. In risposta, come ha ricordato il Prof. Orsini, la Nato ha effettuato in Ucraina tre mastodontiche esercitazioni militari nel 2021. Lasciando presagire un’escalation della guerra condotta contro le repubbliche indipendentiste ma soprattutto un’affiliazione de facto dell’Ucraina nella Nato.
Da queste premesse nasce l’odierno conflitto. Per cui ha ragione Canfora, la guerra è già Russia/Nato. Lo è sempre stata e – se vista così – chi è l’aggressore? Per questo viviamo momenti di esaltazione irrazionale per la chiamata alle armi. Perché il conflitto è mondiale.
I propagatori di morte, tra i quali spiccano il Presidente Ucraino e tutti i suoi funzionari, diventano improvvisamente delle pop star dal sapore fashion. Armati di falce ci dicono che la guerra è bella anche se fa male. Copertine, interventi in mimetica nelle piazze europee inneggiano alla distruzione, alla nuclearizzazione della normalità e ribadiscono: le proposte russe sono inaccettabili. A tutti i costi sarà guerra. Ce lo avete promesso voi. Le promesse si mantengono.
I paladini nostrani del Washington Consensus si svegliano infervorati da questo clima di crociata sacrificale. La vice-premier ucraina ci ammonisce sul nostro pavido anti-eroismo. Scrosciano applausi sui richiami alla morte nelle piazze rivestite di baionette. Il dover essere in guerra è un argomento su cui conversare distrattamente come se ammirassimo un festival del cinema.
Il pubblico è ammaliato da cotanta spettacolarizzazione del prodotto confezionato chiamato resistenza. Che vuole insultare la Resistenza. In questa adulazione generalizzata per la distruzione ciò che non può più porre un argine al discorso di morte è un movimento internazionalista dei lavoratori. Che combatta per la pace. Quindi contro la Nato. Disintegrato dalle politiche neo-liberali di svuotamento della democrazia e dalla fascinazione per l’orizzonte individualista di liberazione proprio della cultura emancipatoria del progressismo modernista, si muove come un fantasma. Per lasciare campo aperto ai tifosi che cantano cori negli stadi spinati dalla smania di armi.
Quel ceto semi colto non perde un attimo nel dichiararsi esecrato quando popoli non fieri di essere colonizzati provano a difendersi. Così come si indigna quando il popolo (bue) proprio non si capacita per la bellezza di una vita post-democratica, dove chi decide è investito dalla spada della competenza. O quando i lavoratori scioperano. E non capiscono cosa sia il progresso, il merito. Quando si rifugiano nei loro fortini assistenzialisti. Così incapaci di uccidere il nemico per il successo.

Potrebbe essere un'immagine raffigurante 1 persona e il seguente testo "#LETTERSFORPEACE NOSTRA INIZIATIVA: SCRIVETECI SUI SOCIAL UNA LETTERA PER LA PACE VANITYF FAIR Volodymyr N.10SETTIMANALE Lelensky, MARZO 2022 sdente dell'u IL VOLTO DELLA RESISTENZA VOLODYMYR ZELENSKY L'UCRAINA HANNO UNITO IL MONDO NEL NOME DELLA LIBERTÀ. LA BATTAGLIA RIGUARDA"

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Dichiaro di essere al corrente che i commenti agli articoli della testata devono rispettare il principio di continenza verbale, ovvero l'assenza di espressioni offensive o lesive dell'altrui dignità, e di assumermi la piena responsabilità di ciò che scrivo.