La DAD nel futuro

La DAD malgrado il suo effettivo fallimento didattico è oggi lo scorcio attraverso cui intravedere il futuro della della pubblica istruzione e della democrazia.  Dalla DAD non si torna indietro ripetono da destra come da sinistra, non ci sono voci dissenzienti o critiche, ma solo precisazioni e diverse sfumature nella concordia generale. Dove manca l’opposizione non vi è democrazia, il dibattito assente indica che siamo da decenni nella postdemocrazia: la crisi delle grandi narrazioni filosofiche e politiche ha coinvolto anche i valori democratici. L’istruzione struttura portante degli Stati democratici affonda con essa, e nessuno, pare, voglia salvarla. Si distrugge la sua essenza formativa inneggiando all’innovazione continua, alla fuga dal vecchio per nuovi orizzonti.

Si assiste al plauso generale, non si rilevano limiti nell’azione didattica, ma l’unico problema evidenziato, in genere, è relativo all’l’erogazione del servizio non fruibile a tutti gli studenti. La discussione non verte sulla qualità dell’insegnamento, ma sul mezzo, sulla sua efficienza e sulla rete. Le rimostranze dei sindacati sono anch’esse limitate alla “democratizzazione” del mezzo senza discutere sulla qualità dell’istruzione.

Chiunque abbia esperienza della DAD constata quanto la distanza e le videolezioni  contribuiscano ad un livello di attenzione molto basso, le ore contratte facilitano contenuti diluiti, le interrogazioni  promuovono, è il caso di affermare, “gli intraprendenti” che grazie a una serie di piccoli accorgimenti riescono a superare le prove. La socializzazione è nulla, per cui la vivacità intellettuale possibile nelle classi è sostituita da una pacifica indifferenza. Il rispetto dell’istituzione declina nella commistione degli ambienti privati con il pubblico. Il Ministro dell’istruzione tuona, afferma che l’errore è stato utilizzare le stesse modalità che si usano in classe nella didattica a distanza. Si dovrebbe procedere per approfondimenti ed uso delle fonti informatiche. Il cartaceo scompare, al suo posto restano le fonti virtuali che gli alunni, già usano, per un veloce copia ed incolla. Il Ministro non lo sa, ma il sogno di una didattica nuova e veloce è  tra di noi, da non poco, nella sua tragica ignoranza che favorisce il declino della democrazia. Vi è democrazia dove vi sono contenuti, senza di essi vi è il semplicismo dell’inclusione adattiva, la quale è quanto di più estraneo alla democrazia ed al dettato costituzionale. La scuola è stata il motore della democrazia, ora spetta ad essa essere lo strumento d’involuzione della stessa. Il testo del neoministro “Nello specchio della scuola” sciorina dati di natura economica e aziendale, la scuola è rappresentata come un corpo che dev’essere assimilato dall’economia liberista, la quale esige e ordina di avere factotum e precari da usare, i quali devono essere istruiti alle sole tecnologie. La scuola da luogo che legge il mondo per ripensarlo diviene luogo dell’adattamento inclusivo in nome dell’azienda. La formazione integrale della persona che prescinde il mercato e qualsiasi sistema economico è sostituita dalle tecnologie, pertanto primario diviene il fare senza il pensare. Si va a scuola, dunque, per imparare il linguaggio del mercato:

“Tuttavia è proprio nella crisi più profonda che si predispongono le condizioni per le trasformazioni più radicali, e infatti proprio negli anni fra il 2009 e il 2012 si creano le condizioni per il nuovo salto, che si concretizzerà nel passaggio alle tecnologie di connessione di 4a generazione (4G), quello – per intenderci – dal telefonino per scambiare messaggi vocali allo smartphone che permette di inviare video, foto e soprattutto dati –moltissimi dati. Sono gli anni in cui Microsoft (1975), Apple (1976), Amazon (1997), Google (1998) e Alibaba (1999) si riposizionano sul mercato del web, generando piattaforme che divengono gli snodi centrali del mercato mondiale degli scambi. Ugualmente, imprese come Facebook (2004), YouTube (2005), Airbnb (2007), Uber (2009), WhatsApp (2009) e Instagram (2010), nate per fornire servizi specifici online, si affermano come aziende globali; e proprio basandosi su queste piattaforme entrano poi sul mercato decine di imprese, essenzialmente americane o cinesi, che offrono minuto per minuto servizi con un’estensione e una specializzazione impensabili anche solo per la generazione precedente. Secondo le stime di Ericcson, dal 2010 al 2019 il volume di exabyte scambiati mensilmente da apparati mobili (unità di misura dell’informazione o della quantità di dati trasmessi pari a un miliardo di miliardi di byte) sale da poco più di zero nel 2010, quando prevaleva ancora la voce, a circa 2 nel 2013, a 8 nel 2016 e a 20 nel 2019, con una crescente rilevanza dei video e dei dati. Tuttavia proprio in quegli anni l’Italia registra la sua crisi più grave, perché mentre a livello internazionale si stava delineando un profondo cambiamento strutturale, che ha aperto la via a una nuova economia basata sulla digitalizzazione della produzione e degli scambi, il nostro paese sprofondava nella crisi fiscale dello Stato, con un deficit e un debito il cui peso sottraeva risorse a educazione e ricerca e quindi a quell’innovazione necessaria per capire e affrontare la trasformazione dell’economia e della società[1]”.

 

A scuola di capitale

Dalla scuola l’azienda  deve attingere “il capitale umano”, essa diviene servizio al mercato nei fatti e non certo alla Repubblica, alla crescita umana della comunità e della persona, a scuola si deve  imparare a parlare  il linguaggio liberista. Il processo era già in corso (debiti, crediti, offerta formativa, PCTO), ora si completa la mutazione. La politica al servizio dell’economia “dona” un altro pezzo vitale dello Stato al mercato:

“L’ultima considerazione fa riferimento alla pubblicazione il 19 giugno 2020 da parte della Commissione europea del Digital Economy and Society Index (DESI), cioè dell’indice composto che misura le capacità e le competenze di cui dispone un paese in ambito digitale (figg. 2 e 3). Tenendo conto di condizioni di connettività, disponibilità di capitale umano e competenze adeguate, uso dei servizi di internet, integrazione delle tecnologie digitali e servizi pubblici digitali, la Commissione europea classifica l’Italia fra gli ultimi in Europa, seguita solo da Romania, Grecia e Bulgaria. Tuttavia, se nella connettività il nostro paese è appena sotto la media europea, è proprio nella disponibilità di competenze e capitale umano adeguato che l’Italia risulta definitivamente ultima fra i paesi europei, rendendo esplicito il grado di impreparazione con cui il nostro paese si è presentato all’appuntamento con la rivoluzione digitale e da ultimo con lo spettro del COVID-19[2]”.

Il capitale umano va addestrato alle competenze, al coding, all’inglese ad uso delle transazioni, si deve delicealizzare per avere una popolazione scolastica debolmente istruita nei contenuti, ma veloce nell’obbedienza. Si guarda con simpatia anche alla riduzione del ciclo delle scuole superiori in modo da far entrare velocemente “nuovi disoccupati” pronti all’uso nel mercato. Il modernismo rivela le sue falle: con le nuove tecnologie i disoccupati aumenteranno, con la competizione globale la precarietà sarà la legge sovrana della nuova inclusione allo Stato-mercato:

“Lo studio economico dei sistemi educativi emerge come disciplina nei primi anni sessanta del Novecento, ma il suo concetto fondamentale, come rileva Psacharopoulos [1987, XV], risale a un’attenta lettura di Adam Smith, che individua già nella Ricchezza delle nazioni come il capitale umano sia il fattore dinamico dell’organizzazione della produzione: Smith ritiene infatti che le persone, oltre a una conoscenza di base, possano apprendere dallo stesso lavoro che stanno realizzando, cosicché all’aumentare delle attività aumenta la capacità di specializzarsi e nel contempo di ricercare complementarità con gli altri lavoratori coinvolti nello stesso ciclo produttivo; questo determina un’efficienza dinamica che dipende sia dal livello di istruzione di base, sia dalla capacità di gestire in maniera sistematica un processo di apprendimento. Gli investimenti in educazione di base e continua sono fondamentali per la formazione del capitale umano necessario per generare quegli aumenti di produttività che determinano l’accelerazione nella crescita economica di un paese[3]”.

L’economista filosofo di riferimento è Adam Smith, il quale ha insegnato nei suoi scritti che l’egoismo è la ragion sufficiente di ogni comportamento e anche l’empatia non è partecipazione comunitaria, ma strategia emotiva per comprendere il cliente, Adam Smith è il punto di riferimento della scuola che verrà. Viviamo in un’epoca smithiana, la persona è sostituita dal cliente, la società dall’azienda. Imperano le passioni tristi e le violenze quotidiane, di cui il sistema mercato non vuole assumersi responsabilità alcuna. L’unica povertà a cui si deve far fronte è la povertà digitale alla quale con un atto di fede i ministranti dell’economia chiedono  la soluzione di ogni problema:

“Il taglio delle risorse all’istruzione avviene nella difficile fase di uscita dalla crisi del 2008-9, che coincide in tutti i paesi con la riorganizzazione produttiva e con il passaggio tra le tecnologie 3G e 4G, che ha ridisegnato il mercato a livello globale e determinato i riposizionamenti competitivi nella nuova industria, centrata sull’emergere di nuove competenze e nuovi saperi. Mentre in Germania si affrontavano la crisi e il rilancio dell’economia investendo in educazione, in Italia si tagliava sull’istruzione, mantenendosi poi per anni su un livello di sussistenza. Qui si colloca la radice del ritardo italiano. Il taglio della spesa per l’educazione proprio nel momento del rilancio e del passaggio di tecnologia ha inciso sullo sviluppo delle tecnologie digitali e soprattutto sulle competenze, pregiudicando la ripresa dell’economia e lasciando spazio per una nuova povertà educativa che scava fossati fra Nord e Sud del paese. Confrontando questi dati con gli esiti del sistema educativo riportati in precedenza, e in particolare con i dati sulla nuova povertà educativa e sul ritardo nelle competenze digitali, appare chiaro perché siamo arrivati impreparati all’emergenza COVID-19[1]”.

 

Autonomia per il “Territorio”

L’autonomia scolastica contribuirà alla soluzione dei problemi economici trasformando la scuola in istituzione al servizio del Territorio (azienda). In questi decenni di autonomia la scuola ha perso prestigio e capacità formativa, è dispersa e umiliata dalla competizione per raccattare iscritti, per impedirne la fuga alla ricerca della scuola facile dai voti “gratificanti”:  professori e maestri sono al servizio di genitori e figli che li trattano come domestici di infimo livello. Si umilia il pubblico in nome di interessi privati.  La cultura dell’azienda ha già delicealizzato la scuola, l’ha resa povera nei contenuti e debole con i clienti. Si vuole puntare ad un ulteriore “salto qualitativo” dal quale non si tornerà indietro. In gioco è la democrazia, la quale rischia di soccombere cannibalizzata dall’impresa. Il senso critico esige un lungo percorso formativo, contenuti e disciplina. Si utilizza la parola “critica”, nei testi dei pedagogisti funzionali alla struttura economica, per strutturare una formazione veloce ed epidermica, senza idee, sostanzialmente adattiva, ma tale finalità è ammantata col velo di Maya della critica svuotata di significato rigore  e senso:

“L’apparato normativo approvato nel 1997 si configurava come strumento per la progettazione e realizzazione di un’offerta didattica che potesse rispondere ai bisogni degli studenti, tenendo insieme sia una dimensione nazionale, che doveva nello spirito della legge avere una dimensione unitaria, di garanzia e di valutazione, sia una territoriale, in cui la scuola si inseriva nella propria comunità locale, divenendone motore e riferimento per i ragazzi, le famiglie, le istituzioni, la società tutta. Questo vigoroso impianto tuttavia si è progressivamente insabbiato in una struttura che ha continuato a basarsi su una modalità organizzativa centralizzata, che di fatto ha ostacolato il trasferimento ai territori e alle istituzioni scolastiche di tutte le competenze per potersi muovere in autonomia. È di quell’autonomia responsabile e solidale che oggi abbiamo bisogno per andare oltre l’emergenza COVID-19. Un’emergenza che, per essere affrontata, richiede responsabilità, flessibilità e semplificazione amministrativa, che dell’autonomia costituiscono i principi base[2]”.

 

I Patti educativi sono lo strumento con cui privare la scuola della sua finalità educativa per consegnarla alle aziende del Territorio che condizioneranno programmi e finalità. I Patti educativi sono un contratto che destabilizza gli ultimi residui di comunità in nome della scuola azienda che pare sia il luogo irenico dove le personalità devono formarsi:

“L’idea dei Patti educativi di comunità è quindi di aprire alla scuola reali spazi di arricchimento formativo e, a un tempo, rendere la comunità corresponsabile dell’educazione dei giovani, dando piena attuazione alla legge sull’autonomia. Qui diviene cruciale il rapporto con l’università e i centri di ricerca, che devono avere la possibilità di costruire relazioni più strette con la scuola, in modo da garantire un «travaso» continuo dei loro studi e la loro messa a disposizione di un sistema educativo che deve poterli tradurre – soprattutto per quanto riguarda le materie scientifico-tecnologiche (Science, Technology, Engineering and Mathematics, STEM), cioè quelle più legate all’evoluzione delle scienze sperimentali – nella capacità di lavorare in gruppo per risolvere problemi complessi. Del resto, le imprese che stanno affrontando oggi la transizione verso la Quarta rivoluzione industriale richiedono proprio queste competenze – le cosiddette soft skills –, basate sull’antico principio già chiarito da Adam Smith secondo cui l’efficienza non nasce dalla specializzazione individuale, ma dalla capacità di rendere fra loro complementari le singole specializzazioni, in un contesto che sappia affrontare e risolvere problemi complessi e inediti[1]”.

 

Fine dell’Umanesimo

L’istruzione professionale andrebbe elevata immettendo nei curricula degli studenti formazione umanistica e filosofica, tali studenti sono deficitari dello strumento lingua senza il quale non vi è democrazia, invece si punta ad estendere la formazione professionale e tecnologica a tappeto per ridurre il pensiero astratto e la sua capacità di problematizzare. La scuola deve diventare un immenso campo di preparazione al lavoro che non c’è e ci sarà sempre meno:

“Il rilancio della formazione professionale diviene essenziale non solo per offrire ai giovani prospettive concrete di realizzazione lavorativa e umana, contribuendo in maniera significativa a ridurre la dispersione di risorse e di talenti, ma anche per garantire la crescita alle imprese che hanno necessità di specifiche competenze tecniche accompagnate da capacità di giudizio e visione, che permettano al singolo di affrontare anche fasi di rapido cambiamento[2]”.

Il senso critico esige informazioni e strutture concettuali e linguistiche da usare in modo divergente, sembra, invece che siano un limite, si sa “con la cultura non si mangia”, e l’essere umano è solo un consumatore che divora e produce. La cultura umanistica dev’essere un orpello, un retaggio residuale del passato al servizio della nuova religione scientifica, ma senza di essa non vi è comunità, né creatività: i più grandi scienziati sono stati grandi umanisti, poiché i linguaggi plurali alimentano il senso critico:

“Liberata dall’obbligo di fornire soprattutto nozioni, proprio in questa situazione la scuola torna a essere necessaria in quanto «maestra di vita», dovendo insegnare ai ragazzi a comprendere fenomeni complessi su cui esercitare una capacità di giudizio, che permetta loro di affrontare situazioni incerte e difficili con la capacità di costruire comunità, che possano usare tutti gli strumenti offerti dalla tecnologia senza esserne usati. Questo richiede una scuola che investa di più in cultura scientifica, non in opposizione alla cultura umanistica, ma che integri le conoscenze relative alle STEM in una visione della persona che deve potersi fondare su una cultura dell’uomo e della società che costituisce la base del sapere. Disporre di una solida formazione matematica significa aumentare il nostro grado di libertà nei confronti delle tecnologie che oggi dominano la nostra vita. Significa aumentare il nostro grado di comprensione di fenomeni complessi, senza cadere nella trappola di sempre nuove dipendenze tecnologiche, come chiaramente indica Carimali [2018], che esorta a cogliere il valore delle STEM nella loro integrazione con la cultura umanistica come fattore fondamentale di libertà. Se dunque l’approccio scientifico-matematico deve fornire ai giovani gli strumenti metodologici per strutturare una capacità di ragionamento più sistematico – che impieghi allo stesso tempo capacità di astrazione e strumenti di sperimentazione – le discipline umanistiche offrono a quel ragionamento la profondità che permette di posizionare i propri giudizi nel tempo e nello spazio. La tanto bistrattata storia e l’ormai dimenticata geografia divengono oggi più che mai strumenti essenziali per affrontare la complessità di eventi altrimenti incomprensibili. L’insegnamento dell’italiano serve del resto a dare a tutti «le parole per dirlo», cioè il primo strumento per esprimere con autonomia e appropriatezza un pensiero, senza che siano altri ad appropriarsi dei nostri sentimenti, parlando per noi o formulando luoghi comuni passati per buon senso[1]”.

L’italiano deve insegnare a dire cosa?

Se l’intero asse educativo è orientato verso l’azienda e le tecnologie, la parola dev’essere finalizzata, si deduce, alla compravendita. In tale cornice solo un ingenuo potrebbe pensare che si possa credere alla lingua quale mezzo per la socialità solidale. La socialità diviene con il canto e la musica (CAMPUS)  di sostegno al Patto educativo con il Territorio. Si vorrebbe limitare la frammentazione individualista con momenti ricreativi, con fugaci esperienze comunitarie in una cornice di individualismo economicistico senza limiti. L’arte e la musica esigono una lunga preparazione, pertanto in tale contesto, in cui la formazione è breve e superficiale sono solo intrattenimento senza concetto:

“È comunque in una scuola a tempo pieno che può essere sviluppato quell’insieme di attività volte a costruire una nuova socialità, a partire proprio dal momento in cui si mangia insieme, momento fondamentale per un’educazione civica nel senso più pieno del termine. Per queste ragioni il Rapporto finale ha attribuito molta enfasi alle materie CAMPUS (Computer/Coding, Arte, Musica, Polis, Sport: cfr. cap. 6, par. 4) e all’educazione alla creatività e all’affettività, da condividere e costruire con il territorio tramite i citati Patti educativi di comunità: sono questi i cardini per costruire comunità che vogliano ritrovare la via dello sviluppo dopo la crisi[2]”.

 

Scuola e mobilità sociale

L’immobilità sociale è causata dall’oligarchia del mercato e dalla conseguente pessima distribuzione dei poteri e delle ricchezze. La professionalizzazione della scuola comporterà precarietà culturale al servizio del mercato globale, se non si agisce sulla struttura economica dominata dal monopolio e dal privilegio derivante dai redditi, non vi può essere “merito” e “mobilità sociale”, ma pare che colpevole sia la scuola dell’immobilità sociale, pertanto urge una sua “riforma”:

“D’altra parte la scuola sembra essere diventata un ascensore immobile, non più in grado di portare chiunque ne abbia le capacità e la volontà ai piani alti della nostra struttura economica e sociale. Come abbiamo evidenziato in precedenza, già prima della pandemia in Italia quasi un ragazzo su due aveva un diploma che non era sufficiente a garantirgli un lavoro; nel Sud solo un diplomato su tre trovava un impiego al termine degli studi; la stessa laurea non era più garanzia di crescita sociale, se poco meno di quattro laureati su dieci in Italia – ma quasi sei su dieci nel Mezzogiorno – non trovavano soddisfazione alle loro ambizioni di lavoro. Ricostruire curricula scolastici che permettano di formare i ragazzi e conquistare competenze, abilità e capacità di giudizio diviene quindi necessario, ma diviene altrettanto fondamentale che queste siano «virtù» riconosciute e condivise come condizioni necessarie per lo sviluppo dalle imprese, dalle istituzioni e dalla società tutta[3]”.

Diminuendo il tempo scuola si toglie tempo per capire e capirsi, non si  democratizza il sistema, perché solo nella partecipazione vi è la vera mobilità della comunità democratica che si traduce in mobilità per merito e non per provenienza sociale:

“Bisogna domandarsi se non sia giunto il momento di portare il ciclo secondario da cinque a quattro anni innalzando l’obbligo scolastico – da raggiungere anche con percorsi professionalizzanti che portino a una qualifica – dagli attuali 16 anni (senza riconoscimento di fine ciclo) ai 17. Le molte sperimentazioni già in corso da anni sui licei quadriennali sono in questo senso confortanti. D’altra parte per coloro che seguono il percorso triennale di FP si potrebbe delineare un quarto anno – già diffuso in molte Regioni del Nord – basato sui già citati Programmi di inserimento lavorativo (PIL), cioè con un tirocinio in parte curricolare e in parte lavorativo monitorato da un docente e da un tutor aziendale o con un apprendistato formativo, che potrebbe portare a un diploma con possibilità di accesso a un ITS, completando così la filiera[4]”.

La  pubblica istruzione come “filiera di produzione” è la verità della storia dei nostri giorni, in cui il linguaggio unidirezionale del mercato divora ogni  potenzialità critica in “senso non adattivo”. Il silenzio di molti, tra cui i docenti, consente l’affermarsi della nuova logica di mercato sul cui altare è sacrificata una lunga tradizione culturale, la democrazia ed il suo futuro. Si rammenti il discorso di Calamandrei sulla pubblica istruzione per capire il declino dell’odierna prospettiva e dei legislatori:

“Ci siano pure scuole di partito o scuole di chiesa. Ma lo Stato le deve sorvegliare, le deve regolare; le deve tenere nei loro limiti e deve riuscire a far meglio di loro. La scuola di Stato, insomma, deve essere una garanzia, perché non si scivoli in quello che sarebbe la fine della scuola e forse la fine della democrazia e della libertà, cioè nella scuola di partito. Come si fa a istituire in un paese la scuola di partito? Si può fare in due modi. Uno è quello del totalitarismo aperto, confessato. Lo abbiamo esperimentato, ahimè. Credo che tutti qui ve ne ricordiate, quantunque molta gente non se ne ricordi più. Lo abbiamo sperimentato sotto il fascismo. Tutte le scuole diventano scuole di Stato: la scuola privata non è più permessa, ma lo Stato diventa un partito e quindi tutte le scuole sono scuole di Stato, ma per questo sono anche scuole di partito. Ma c’è un’altra forma per arrivare a trasformare la scuola di Stato in scuola di partito o di setta. Il totalitarismo subdolo, indiretto, torpido, come certe polmoniti torpide che vengono senza febbre, ma che sono pericolosissime. Facciamo l’ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l’aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C’è una certa resistenza; in quelle scuole c’è sempre, perfino sotto il fascismo c’è stata. Allora, il partito dominante segue un’altra strada (è tutta un’ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A “quelle” scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private[1]”.

 

Per una scuola all’altezza della democrazia e della globalizzazione necessitiamo di formazione, e non certo della scuola smart dei nuovi padroni del capitale, del futuro e delle parole. Contro il nuovo fascismo dell’aziendalizzazione integrale che sostituisce partiti e politica con il totalitarismo dell’economicismo abbiamo bisogno di una scuola che metta al centro la comunità solidale e non certo l’azienda, perché questo possa essere la comunità tutta deve difendere la scuola, affinché non venga tradito il dettato costituzionale. L’articolo II della Costituzione fonda la Repubblica sullo sviluppo integrale della personalità contro ogni tendenza alla mutilazione programmata della stessa:

“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.

La comunità democratica è il luogo dove le personalità di ciascuno possano mettere in atto le potenzialità nella relazione non mercificata dai processi di reificazione. La scuola e l’istruzione costole del mercato sono la realizzazione del nichilismo che nega la persona per consegnarla come ente alle forze globali del plusvalore, con tale realtà dobbiamo confrontarci per capire il presente e deviare dalla “corrente fredda” che rischia di congelare il futuro e di inchiodare le menti alle ombre della caverna-mercato.

 

 

[1] Patrizio Bianchi Nello specchio della scuola Il Mulino pp. 32 33

[2] Ibidem pag. 44

[3] Ibidem pag. 59

[4] Ibidem pag. 63

[5] Ibidem pag. 68

[6] Ibidem pp. 70 71

[7] Ibidem pag. 79

[8] Ibidem pp. 81 82

[9] Ibidem pag. 82

[10] Ibidem pag. 84

[11] Ibidem pag. 94

[12] Discorso di Piero Calamandrei, pronunciato al III Congresso dell’Associazione a difesa della scuola nazionale (ADSN), Roma 11 febbraio 1950

Alberto Manzi | Parole, Parole sagge, Istruzione

Fonte foto: Pinterest (da Google)

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