La memoria e i cattivi

In una trasmissione di approfondimento storico andata in onda sulla Rai, il dibattito si chiedeva se ricordare l’orrore fosse ancora sensato. Il coro è stato unanime. Avrei aggiunto con convinzione la mia voce al coro. Ma non avrei taciuto su alcuni aspetti della questione.
Un interrogativo ragionevole da porsi consiste nell’identificare in che modo quella memoria possa offrire strumenti di interpretazione dei fatti storici per la formazione di una coscienza critica pronta ad allarmarsi di fronte alla percezione di un pericolo attuale. Stranamente questo dubbio non viene mai sollevato nelle lunghe ore che i mezzi di comunicazione dedicano alla memoria.
In particolare esiste una narrativa fuorviante, ma ormai consueta, sullo sterminio, sulla nascita del nazional-socialismo, sulla crudeltà. Ogni anno difatti irrompono sulla scena i cattivi. Che certo cattivi furono, ma non nella rappresentazione schematica che viene proposta ai nostri occhi. Come se esistesse un preconfezionamento della disumanità.
Il rischio che si corre sta nel porre quei metodi in uno spazio cosmico, inafferrabile, piombati in quel periodo storico come delle astronavi pilotate da marziani. Come se la follia fosse apparsa improvvisa. Estranea alla cultura del tempo. Ciò di cui si tace è in realtà l’insegnamento storico più denso. Quella propensione all’orrore, in quella realtà, era discorsività, quasi buon senso comune. E soprattutto quella mentalità non si faceva conoscere con parole solo tedesche.
Anche e soprattutto le democrazie liberali contribuirono, nelle loro scorribande coloniali, con le loro teorie sulla specie che giustificavano la cristallizzazione delle ineguaglianze sociali, nel rendere quel discorso un’argomentazione buona per un caffè.
Eludendo la questione del colloquio sul terrore che in quei tempi era sulle bocche di intellettuali, dei professionisti, della gente comune, si potrebbe pensare che alla fine la discriminazione, l’esclusione dalla cittadinanza, lo sterminio, possano essere riprodotti solo con il ritorno delle stesse e identiche astronavi, equipaggiate con le stesse divise, con la stessa retorica e con identici grotteschi baffetti.
Potrebbe far ingenerare il pensiero che non esistesse una società intera che giudicasse quella separazione razziale meritata, scientifica a suo modo, razionale. Si arriva così al secondo equivoco di una memoria presentata in maniera didascalica. L’irripetibilità dell’orrore. Il fatto che oggi quelle consuetudini barbare non possano assumere altre vesti, altra grammatica, un differente raziocinio.
Ad esempio l’incapacità di osservare come la cultura del merito, della competenza, la managerialità dell’esistenza, stia progressivamente sfaldando l’idea di cittadinanza senza ricorrere a teorie sulla razza. L’idea insomma che lo status di cittadino debba essere meritato attraverso un concentrato di condotte, di atteggiamenti, di riconoscimenti che delineerebbero una classifica. Punti che assicurano il diritto al voto, al lavoro, al salario, alla dignità sociale.
Se si approfondisce ancora di più il merito della questione ci si potrebbe accorgere che una separazione così impostata, portata alle estreme conseguenze, potrebbe accettare una crudeltà ancor più cinica. Perché impreziosita dalla civiltà dei costumi, da un’enfasi progressista, dal pregio donato da un conformismo evoluzionista. Subdola e accattivante. Che non si serve di sciocca repressione ma di sagace persuasione. Che convince della necessità di affidarsi ai capaci per estromettere dalla sicurezza chi non tiene il passo. La disoccupazione è una colpa.
Lo possiamo vedere nello spettacolo mediatico di questi giorni sull’elezione del Capo dello Stato. Mai come ora il serpente dell’anti-parlamentarismo è così strisciante e così velenoso. La raffigurazione di un Parlamento occupato indebitamente da perdigiorno, da scansafatiche, incatenati dalle liturgie della diplomazia, della dialettica, rispetto alla morale, alla puntualità dei migliori, degli specialisti che in un lampo decidono, governano, razionalizzano. Loro sì veri cittadini dai quali acquisire quelle potenzialità che rendono un essere umano degno di considerazione sociale. Dalla purezza della razza alla purezza della performance.
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