La molestia quotidiana delle “fake news”

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Foto: Discorsivo (da Google)
I media italiani – e non soltanto loro – paiono, di questi tempi, aver messo da parte ogni pudore: dopo essersi profusi in geremiadi per l’affaire Anna Frank (cioè per l’idea balzana concepita da quattro giovinastri di sfottere i “nemici” romanisti stampando l’immagine della povera ragazza assassinata in un Lager nazista), si sono sbizzarriti nel pubblicare notizie fasulle ai danni di quelle autentiche, sistematicamente occultate.
Quanto si parla della schiavitù salariata in Amazon e Ikea? Lo scrivo con amarissima ironia: il minimo sindacale. In compenso, assistiamo a un proliferare di trasmissioni dedicate al tremendo pericolo delle fake news trumpian-putiniane e a una continua, proterva riproposizione del chiacchiericcio/gossip sulle “molestie sessuali” novecentesche.
Andiamo con ordine, anche se i due temi sono interconnessi: per un giornalista onesto (Travaglio) che chiama le c.d. fake news col loro nome, cioè balle, e annota che sono sempre esistite, c’è una pletora di mestieranti che ostentano candido e indignato stupore per questa diabolica invenzione di mr. Trump – il bieco serpente che attenta alla castità della libera informazione.
Ci sarebbe da sganasciarsi per la scoperta dell’acqua calda (del fatto, cioè, che il giornalismo sconfina sovente nella propaganda più becera, e che certa politica trova in quest’ultima la migliore alleata), ma purtroppo in quell’acqua siamo quotidianamente immersi, e rischiamo di scottarci – se non di bollire vivi. Rammentiamolo allora, una volta per tutte: le false notizie, vale a dire le menzogne, sono indispensabili al potere, perché utili a tenere le masse in uno stato di minorità e soggezione, oltre che a condizionarne la condotta – come abbiamo appreso alla scuola elementare, nessun problema (matematico o economico/sociale) può essere risolto se non si dispone di dati precisi. Donald Trump ha mentito al proprio elettorato, rappresentando un mondo e un futuro diversi da quelli reali o (da lui) auspicati? Sicuramente, ma altrettanto vale per i suoi predecessori: possiamo risalire fino a Ramses II, che eternò nella pietra il mito di Qadesh, trasformando un sanguinoso “pareggio” in un trionfo del faraone dai capelli rossi, ancor oggi ricordato come il più grande fra i sovrani egizi. Immortale potenza di psyops
Perché allora tutta questa perseveranza nel sostenere una tesi (quella della “novità” del fenomeno) ridicolizzata più che contraddetta dalla Storia? Ovvio: perché il vero colpevole di tutto non sarebbe la pedina Trump, ma il suo gelido puparo, Vladimir Putin, czar della Russia canaglia e capace di manipolare gli esiti elettorali sino all’orbita di Plutone. Come ha notato Giulietto Chiesa, Russia today, il canale televisivo in lingua inglese di Mosca, è misera cosa in confronto agli invasivi media occidentali, ma la verosimiglianza dell’accusa conta meno di nulla: l’importante è che essa sia ripetuta e veicolata all’infinito, fino ad imprimersi indelebilmente nella mente dei sudditi. Le fake news sulle fake news sono strumenti di guerra psicologica, pensati per un duplice scopo: la demonizzazione del nemico esterno – che grazie alla propria abilità, sebbene assai più debole, sta guadagnando terreno sull’Occidente americanizzato – e quella degli oppositori interni, le cui critiche al sistema sarebbero subornate e in malafede. Il messaggio che stanno cercando di far passare è il seguente: se sei contro (la globalizzazione, il Ttip, le riforme, la UE, la NATO, le migrazioni di massa ecc., o anche solo alcuni di questi processi/istituzioni) sei di necessità un “populista”, e se sei un populista sei altrettanto certamente un agente di Putin, che ti compensa per il tuo tradimento[1].
La fake storm mediatica sulle fake news serve a tapparci la bocca? E’ probabile, visto che i giornalisti di regime puntano il dito contro blogger e affini – ma questa campagna va collegata ad altre attualmente in corso.
So che della violenza alle donne si può oggidì parlare solo per condannarla (e condannare noi maschi, tutti egualmente bruti), ma io sono tentato da una breve riflessione sul punto. Anzitutto avverto in giro una certa confusione: la violenza propriamente detta e le c.d. molestie sessuali le troviamo spesso immerse in uno stesso calderone. Orbene, si tratta di cose diverse – a meno di non voler dilatare all’infinito, per finalità ideologiche, il concetto di violenza. A sentire i radiogiornali sembra quasi che per il maschio italiano ammazzare la moglie, la compagna o la ex sia diventato una sorta di tragica “ordinaria amministrazione”, che la furia assassina dilaghi all’improvviso dopo decenni o secoli di quiete ovvero che, al contrario, l’uomo sia ab aeterno il carnefice della sua naturale compagna. Non ho sottomano statistiche, né reputo indispensabile procurarmene, ma sono arciconvinto che questo tipo di comportamenti criminali sia oggi meno diffuso (in proporzione alla popolazione insediata) rispetto al passato. Semplicemente (e questo rappresenta un indubbio progresso) che il marito picchi la moglie, o faccia di peggio, non è più socialmente tollerato, così come non risulta più giustificabile – né ai sensi di legge né per il sentire comune – l’omicidio “per causa d’onore [2]”, che pure ai tempi della mia infanzia era ancora previsto dal codice penale. Questa accresciuta sensibilità non può che rincuorare, visto soprattutto che si esercita nei confronti di soggetti tradizionalmente deboli, ma non deve farci dimenticare un dato di fatto: che la violenza è purtroppo insita nella natura umana, senza distinzioni di etnia o di sesso (oggigiorno sarebbe politicamente corretto dire: “di genere”, anche se il termine è adoperato impropriamente).
Il problema sorge quando dalla sacrosanta condanna di singole condotte si passa a indebite generalizzazioni, nonché allo sfruttamento in chiave ideologica di una piaga sociale. Che un tanto stia accadendo ce lo dicono le parole, mai neutre: perché inventarsi il neologismo “femminicidio”, che tra l’altro suona malissimo? Un tempo si adoperavano termini come uxoricidio, parridicio, matricidio ecc. per definire l’assassinio di uno stretto congiunto: scelta ragionevole, in società tradizionali basate sulla centralità della famiglia e la patria potestà, che non a caso punivano (e ancora puniscono) più severamente l’uccisione del consanguineo o del coniuge. Aggravato, ma pur sempre omicidio ai sensi dell’articolo 575 del nostro CP: “chiunque cagiona la morte di un uomo è punito…”. Uomo in questo caso non va inteso nel senso di maschio (vir), ma di essere umano (homo): un tanto dovrebbe essere pacifico, e fino a ieri lo era. Attualmente la visione sembra mutata, ma escludo che ciò dipenda dalla determinazione a sradicare il fenomeno. Per contenere gli effetti della violenza individuale (estirparla è probabilmente impossibile [3]) occorrerebbe, da un lato, intervenire sul contesto in cui si estrinseca, bonificandolo – cioè rimuovendo alcuni fattori scatenanti, come la miseria, l’ignoranza, la diseguaglianza, le sottoculture criminogene ecc. – dall’altro introducendo pene che, per la loro certezza, possano fungere da deterrenti. Il dibattito, però, non s’incentra su questi temi, bensì sulla presunta “malvagità” del maschio umano, di cui la donna è vittima designata: ecco la ragion d’essere di un vocabolo che, per quanto pleonastico, viene sventolato in faccia agli ex “grembiuli azzurri” come un vessillo ideologico, e si presta ad essere pronunciato come un verdetto senza appello.
Quello che realmente interessa non è provare a risolvere il problema, né stigmatizzare la sopraffazione vigliacca nei confronti di chi è inerme (altrimenti sentiremmo parlare di anzianicidio, bambinicidio ecc.): lo scopo è dividere fittiziamente l’umanità in “buone” e “cattivi”, ma non certo per ragioni etiche o legate alla pietas verso i deboli.
La riprova di quanto suggerito ci viene da una vicenda che, a differenza della precedente, non è tragica, ma semplicemente grottesca: quella (strombazzata senza decenza) delle molestie d’antan.
Cosa sta succedendo in effetti di così grave da meritare l’apertura dei gazzettini e le prime pagine dei quotidiani a larga diffusione? Senza intenti polemici rispondo “nulla”, visto che i fatti descritti (ammesso che di fatti si possa parlare…) risalgono per lo più a uno, due o tre decenni fa – se anche discutessimo di reati, dunque, sarebbero pressoché tutti prescritti. Ma di che cosa si tratta, infine? In qualche occasione di rapporti carnali variamente “sollecitati”, anche se in genere a venir denunciati sono palpeggiamenti (che comunque, da noi, integrano ipotesi di violenza sessuale), avance troppo esplicite o ripetute e persino inviti che definiremmo scopertamente “maliziosi”. Colpiscono alcuni aspetti comuni alle storie narrate: le presunte vittime non sono povere disgraziate alla ricerca di un’occupazione per vivere[4], ma attrici già (all’epoca) affermate o sulla rampa di lancio e soubrette note al grande pubblico. Gente, insomma, che può permettersi il lusso di dire no – ma che questo benedetto “no” sceglie di dirlo a posteriori, dopo trent’anni. Quando cioè non costa nulla. L’altro elemento è l’assoluta mancanza di riscontri, di prove: la regola secondo cui onus probandi incumbit ei qui dicit è obliata o capovolta, l’accusa equivale a condanna, in base evidentemente al “fatto notorio” che gli uomini sono tutti maiali. In compenso, le protagoniste assurgono automaticamente a modelli di virtù, indipendentemente da un passato spesso torbido: le molestie asseritamente subite lavano ogni colpa, ce le restituiscono caste e pure come Maria Goretti.
Fake news? Direi proprio di no, perché tutti questi racconti manco raggiungono la consistenza della notizia. Inconsistente, ma proprio per questo pericolosissimo, è pure il concetto di “molestia”.
Dal punto di vista del diritto positivo, la molestia in sé non esiste, al di fuori dell’ipotesi contenuta nell’articolo 660 CP, che la identifica però col disturbo alle persone, la “rottura di scatole”: abbiamo la violenza sessuale, l’ingiuria, la diffamazione, lo stalking, ma non una generica molestia, che rientra nelle fattispecie precedenti oppure non è. Certo, qualche talebano dei diritti delle donne ha proposto di estendere la punibilità per violenza sessuale anche ai casi di “induzione” a compiere o subire atti sessuali (se passasse quest’idea praticamente ogni rapporto sarebbe reato!), ma più che sul piano giuridico gli effetti di una campagna ben orchestrata si faranno sentire sul piano socio-comportamentale. Beppe Severgnini ha sentenziato, su La7: a stabilire cosa sia molestia e cosa no è la sensibilità della donna che la “subisce” (o l’apprezza, verrebbe da chiosare): di conseguenza si passa da un piano obbiettivo ad uno spudoratamente soggettivo, e dunque scivolosissimo. Per incorrere nella squalifica sociale, in una sorta di ostracismo sarebbe sufficiente urtare la suscettibilità altrui. Come? Se molestia è “quando donna fischia” (per fare il verso al compianto Boskov) potrebbero bastare uno sguardo insistito ed ammirato, un approccio ingenuo, una mano sfiorata al primo appuntamento… perché no? persino un complimento o la dedica di una poesia.
Se la molestia non è definibile in concreto, allora tutto è potenzialmente molestia. Cosa questo comporti è presto detto: la castrazione sociale del maschio europeo. Forse hanno in mente questo epilogo (e lo caldeggiano) certe virtuose matrone della sinistra sistemica quando preconizzano, ad esempio, che tra pochi anni “saremo ridotti da 60 a 40 milioni”, e dunque… ma no, non voglio procedere oggi su un terreno minato dal buonismo prezzolato dei cantori dei diritti umani. Il principale obiettivo di questa strategia informativa – cioè di chi, controllando i media, la ispira – potrebbe essere piuttosto quello di accentuare l’isolamento degli individui, già oggi prigionieri di un reticolo di norme e divieti fittissimi che sgomentano, spingono ad una rassegnata inazione[5]. La paura è un formidabile strumento di dominio sulle menti e sui corpi: non stupisce quindi che l’elite ne susciti continuamente di nuove.
Ma cosa c’entra tutto questo – vi starete chiedendo – con la “parità di genere”, che a casa mia si chiama ancora eguaglianza di diritti e di trattamento? Non c’entra proprio nulla, rispondo, perché questa crociata contro il maschio bestiale e lubrico non è condotta nell’interesse della donna, che vedrà rarefarsi i corteggiatori ma sarà probabilmente ancor più esposta, in futuro, all’oltraggio violento di relitti umani frustrati, rabbiosi, immiseriti e senza radici.
E rimarrà in balia degli eventi e disperatamente sola anche lei, come il ragazzo troppo intimorito per carezzarle i capelli.

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[1] In fondo, è la stessa accusa che il mussoliniano Popolo d’Italia, fondato coi soldi arrivati dalla Francia, rivolgeva spudoratamente ai “massimalisti” di “Lenine” nel ’17: quella di intelligenza col nemico.
[2] L’articolo 587 CP è stato abrogato appena nel 1981, cioè… ieri l’altro!
[4] E perciò facilmente ricattabili…
Fonte: http://bentornatabandierarossa.blogspot.it/2017/12/la-molestia-quotidiana-delle-fake-news.html?m=1

1 commento per “La molestia quotidiana delle “fake news”

  1. armando
    4 dicembre 2017 at 16:04

    aggiungo solo che sei agente di Putin, automaticamente sei anche maschilista, quindi ben che vada un molestatore. Dalla qual categoria, di ampliamento in ampliamento, non si salva nessun maschio, a meno che sia omosessuale. Solo loro, miracolosamente e contro le evidenze delle cronaca, possono salvarsi dallo stigma.

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