Lavoro, decreti “dignità”, centri per l’impiego, redditi di cittadinanza

“Non sono le leggi che producono i cambiamenti, sono i cambiamenti che producono le leggi”

Anno 2001, “Libro bianco sul mercato del lavoro”: « E’ urgente una massima semplificazione delle procedure di collocamento attraverso la competizione tra strutture pubbliche e private. Alla funzione pubblica vanno affidate residue attività ( anagrafe, scheda professionale, controllo dello stato di disoccupazione involontaria e della sua durata, azioni di sistema ); mentre vanno affidate al libero mercato le attività di servizio….». 

Alcune tappe miliari sulla legislazione giuslavoristica. Il mercato del lavoro, nel dopoguerra, si caratterizza per un’impronta marcatamente garantista, essendo il rapporto di lavoro subordinato e a tempo indeterminato. Negli anni ’50 ( non cito le leggi ), fu introdotto l’istituto dell’apprendistato, onde garantire i giovani dai 14 ai 20 anni ( oggi può arrivare a 29 anni, con contratti d’entrata fino a due livelli inferiori! ). Successivamente, nel ’62, fu disciplinato il contratto di lavoro a tempo determinato, che rappresentava un’eccezione e per determinate causalità. Gli stessi licenziamenti erano subordinati all’esistenza di specifiche ragioni. Faccio notare che fu il periodo del cosiddetto boom, a dimostrazione che, se l’economia “tira”, non sono le tipologie contrattuali a fermarla. L’industrializzazione dell’economia italiana e le lotte sindacali che ne seguirono, lasciavano ben poco spazio a diversi modelli regolativi dei rapporti di lavoro. E’ a ridosso dei primi anni ’70, che iniziarono ad attuarsi deroghe alle normative vigenti. Con la scusa delle crisi economiche ( ma guarda un po’! ), si passa, attraverso accordi sindacali, ad una diversa concezione dei contratti di lavoro, che iniziano a farsi “flessibili”. Attuare “misure urgenti a sostegno dell’occupazione”, significò estendere il tempo determinato a settori come commercio e turismo, instaurare “contratti di formazione e lavoro” per giovani fino 22 anni, stipulare contratti part time ed implementare nuove forme contrattuali, sempre giustificate dalle crisi economiche ( vedi i contratti di solidarietà ). Clima politico globale cambiato, mutati rapporti di forza fra capitale e lavoro, debolezza sindacale, arretramento della politica, consentono una raffica di deroghe alle normative ed agli accordi sindacali. Conseguentemente, l’apertura alla flessibilizzazione del mercato del lavoro è, ancora una volta, favorito dalla scusante di nuove crisi economiche che aprono gli anni’90. Il patto governo- sindacati del 23 Luglio 1993, prevede flessibilità salariale e nuovi assetti contrattuali. I contratti di formazione e lavoro, nel ’94, vengono elevati a 32 anni,sono istituiti i piani d’inserimento professionale ed i lavori socialmente utili. Non va dimenticato, nel ’97, il pacchetto Treu, che regolamenterà il cosiddetto lavoro interinale, prodromo di altre nefandezze. Da quell’anno sarà un’escalation: verrà ri-normato il part time ( lavoro supplementare e clausole elastiche ), il tempo determinato ( discrezionalità nei motivi di assunzione ),fino ad arrivare alla legge 30 e successive modifiche.Nel frattempo, cambiavano gli assetti geopolitici e macroeconomici, ci sono state la caduta dei muri, le “guerre keynesiane”, l’espulsione dei migranti dalle loro terre, le delocalizzazioni, le crisi petrolifere ed asiatiche, il crollo della new economy, per giungere alla crisi sistemica attuale….. E fu Job Act.

Vogliamo ancora credere che siano insignificanti interventi basati su un “welfare dei miserabili”, ad offrire la possibilità per la giusta redistribuzione del reddito? Il percorso di svuotamento delle funzioni, privatizzazione ed esternalizzazione dei Servizi per l’impiego, non è stato altro che una delle tante attività volte allo smantellamento dello stato sociale, dove i diritti acquisiti ( previdenza, casa, lavoro, salute, scuola ), risultati di tante battaglie, sono stati svenduti al feticismo del libero mercato. Un gioco in cui regna la filosofia liberista che fa dell’impresa il modello su cui investire tutte le risorse, anche assistendola, agevolandola, soccorrendola, in pratica offrendole, ove necessario ( quindi spesso ), tutti quei servizi, che si presume possano aiutarla a “creare” lavoro, non importa “quale”. Al mercato del lavoro occorre una normativa che giustifichi il suo estrinsecarsi sociale. Ma non basta: alla sovrastruttura, è necessaria una struttura che reifichi, almeno formalmente, quelle che sono le disposizioni legislative, spesse volte concertate trasversalmente. La compravendita della merce forza- lavoro e la gestione dei rapporti di lavoro, è demandata ad apparati e figure professionali, che divengono riferimenti “necessari” per i cittadini: centri per l’impiego, agenzie di somministrazione lavoro, consulenti, avvocati giuslavoristi, fondazioni universitarie e professionali, agenzie di collocamento private… Chi avesse l’insano desiderio di accostarsi alla bibliografia concernente il mercato del lavoro e ciò che ad esso afferisce, impiegherebbe dei mesi per catalogare studi, ricerche, saggi, articoli, trattati, analisi, indagini, progetti, approfondimenti, documenti, raccomandazioni, monitoraggi, statistiche, programmi, pianificazioni e…tanti proponimenti. Su di esso hanno scritto, e lucrato, esperti, specialisti, consulenti, economisti, sociologi, psicologi, politici, chi con competenza e chi meno. Per lui, si sono attivati governi, istituzioni, enti, associazioni e l’Europa tutta, prodigandosi, affinché, da tanta grazia, ne traesse beneficio almeno una sparuta pattuglia dei soggetti interessati: i disoccupati, a cui, però, sono rimaste tonnellate di carta ed illusorie politiche del lavoro. Gli altri, le aziende, le imprese, il capitale, hanno comunque implementato flessibilità, precarietà e compressione salariale, fagocitando fondi pubblici ( ma non chiamateli aiuti di stato: piuttosto, sostegni all’occupazione! ). Ma allora, se aldilà dell’attuale crisi, la disoccupazione dagli anni ’80 è andata aumentando, nonostante riduzioni salariali, accordi sindacali al ribasso e la flessibilità del lavoro, perché riproporre stantie e rancide ricette? Negli ultimi trent’anni, l’aumento dei profitti è stato consequenziale alla sovrapproduzione di merci ed all’incremento dei consumi voluttuari, mentre la disoccupazione, anche per effetto della precarizzazione dei rapporti di lavoro è cresciuta tanto da divenire fenomeno strutturale. Per anni ci hanno fatto credere che le politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro, avrebbero favorito nuova occupazione, senza spiegarci, che questa era dovuta a contratti precari, aventi l’unico obiettivo di abbassare ulteriormente il costo della forza lavoro. Il tentativo ( riuscito ) di dividere i lavoratori e fiaccarne le potenzialità di lotta, è passato attraverso la legittimazione, di fatto, del lavoro nero, la flessibilizzazione dell’orario di lavoro, della sua precarizzazione, il ricorrente, ricattatorio, ricorso agli ammortizzatori sociali, l’utilizzo schiavistico della manodopera immigrata, lo smantellamento dei servizi pubblici ed in genere dello stato sociale ( sanità, istruzione, previdenza, casa ). Capziosamente si è posta la necessità di risanare il debito pubblico, di contrastare le crisi economiche, di riformare le pensioni, attraverso scelte che hanno prodotto il peggioramento delle condizioni di vita dei cittadini. Tuttavia, non va dimenticato che i costi pagati dai lavoratori, sono da ricercarsi anche nella spietata concorrenza intercapitalistica globale, nei parametri imposti dall’Europa e da organismi internazionali ( Banca mondiale, Fondo monetario, Organizzazione per il commercio… ) …. Imprese e finanza, oltre a capitalizzare i profitti, spesso, hanno potuto usufruire di aiuti attraverso sovvenzioni, sgravi fiscali, contributivi e decine di miliardi a vario titolo ( basti pensare alle inutili sovvenzioni per ricerca e sviluppo, riconversioni, emersioni dal lavoro nero … ). Nonostante la pauperizzazione della popolazione, la precarietà del lavoro e la disoccupazione strutturale, il ciclo produzione/consumo, non si è mai interrotto, essendo premessa necessaria per la riproduzione del capitale. Dopare l’economia, anche attraverso la finanza di rapina, è stata la soluzione per sopperire all’intasamento di merci che richiedevano un altrettanto esasperato ( ed indotto ) consumo. I risultati li abbiamo sotto gli occhi: peggioramento delle condizioni di vita, aumento della povertà, disoccupazione, dramma abitativo, lavoro nero. Contestualmente, i governi susseguitisi ( longa mano del capitale ), incapaci di risolvere le contraddizioni insite in un sistema sociale da loro stessi attivate, da una parte hanno fomentato fenomeni di criminalizzazione dell’”altro”, considerando il disagio sociale come problema di ordine pubblico, dall’altra, hanno attivato contingenze emergenziali ( ammortizzatori sociali in deroga, effimeri sostegni al reddito… ), trasmutate da stati provvisori in strutturali. Nel frattempo, sono state vanificate le conquiste nell’ambito dei diritti civili, politiche, sindacali e salariali, annichilendo quel poco di welfare che era sopravvissuto. Anzi, a questo va sostituendosi, con anni di ritardo rispetto agli altri paesi che l’hanno adottato ed in mancanza di una reale riforma degli ammortizzatori sociali, la politica del welfare to work o workfare, che pretenderebbe di rendere la condizione lavorativa più competitiva rispetto le misure passive ( sussidi ), spingendo il disoccupato alla ricerca “attiva” di lavoro, pena particolari sanzioni ( ad es. sospensione dei sostegni o cancellazione dalle liste di disoccupazione ). Sostanzialmente, si prevede una responsabilità individuale, piuttosto che sociale, attribuendo importanza al “giusto” scambio di diritti e doveri e sollecitando una presunta partecipazione, piuttosto che conflitto. Questa impostazione è propria delle correnti neoliberali. Praticamente, si demandano politiche del lavoro a strutture “pubbliche” ( ormai inutili ) come i servizi per l’impiego e formazione,  che dovrebbero individuare peculiari target di fruitori.  Ma la realtà dei centri per l’impiego è ben diversa, essi, non sono in grado di far muovere un mercato del lavoro gestito da altri soggetti (Stato, Comunità europea, apparato macroeconomico ), i quali stabiliscono parametri di politica socio-economica che spesso confliggono con ipotesi di “programmazione” territoriale. La mercificazione della persona ( autoctono o migrante ), quindi, sempre più costretta nella sua debolezza contrattuale, diviene fattore dirimente per la funzionalità del libero mercato.

La dialettica tra economia e politica, tra capitale e società, determina il l’allineamento della politica alle esigenze produttive. La politica si pone al servizio degli interessi capitalistici e adegua il quadro giuridico  ai mutati rapporti nella sfera produttiva. E torniamo a quanto affermato:“non sono le leggi che producono i cambiamenti, sono i cambiamenti che producono le leggi”.  

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Foto: Civico20 News (da Google)

 

  

 

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