Ottobre

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(Questo articolo è del 2004, quindi, per i tempi di Internet, un “reperto archeologico”. Sconsigliato a chi cambia idea ogni mese su questioni essenziali. L’infame tempo della Leopolda, poi, è particolarmente disadatto a rivedere giudizi su eventi storici determinanti).

L’anniversario della rivoluzione d’Ottobre non deve essere tanto un momento di celebrazione – in questa situazione c’è poco da celebrare – quanto un momento di riflessione, sul grande insegnamento che ci ha dato, e sulla nostra capacità di recepirlo. Il modo peggiore di farlo è quello di ripetere slogan, scimmiottare i nostri grandi maestri.
Alcuni di noi, quando erano ragazzi, hanno aperto il “Che fare” di Lenin come se fosse un manuale che insegnava a costruire un partito. Questo atteggiamento ingenuo ha impedito di coglierne in pieno il significato. In esso sono essenziali i principi che fanno del partito un fattore determinante della storia, che gli permettono di collegare fra loro i lavoratori di un paese con quelli di tutto il mondo, e di far tesoro delle esperienze delle lotte passate. Le strutture organizzative sono necessariamente diverse in un paese dominato dallo zarismo e in un paese di tradizione occidentale, dove il peso del controllo poliziesco non è affatto inferiore, ma si maschera con mille cautele, è ben conosciuto da chi conduce lotte, ma non dalla stragrande maggioranza della popolazione, e, in tempi ordinari, passa quasi inosservato.
Quello che in noi giovani di un tempo fu un’ingenuità, fu invece una responsabilità grave nei dirigenti dell’Internazionale, che, in nome di una presunta bolscevizzazione, cercarono di applicare a tutti i partiti il modello ideale del partito bolscevico, e in realtà introdussero una disciplina meccanica, uno dei fattori che facilitarono la vittoria dello stalinismo.
La storia non si ripete nella stessa forma. Non ci sarà più una presa del Palazzo d’Inverno, semplicemente perché non ci sono più quelle condizioni, a cominciare dallo zarismo, ma la rivoluzione assumerà forme nuove, che oggi neppure immaginiamo. La rivoluzione del 1848-1849 vide la centralità della barricata, ma fu una breve stagione. Engels, nell’Introduzione alla prima ristampa di “Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850” di Karl Marx, scritto censurato prima da Liebknecht, per timore di un ritorno delle leggi antisocialiste, e poi, con tagli minori, da Kautsky, sostenne, con un linguaggio molto cauto, che le rivoluzioni future non avrebbero potuto vincere se non fossero riuscite a conquistare gli operai e i contadini in divisa, a provocare una ribellione interna all’esercito. Lo scritto fu travisato, non solo dai riformisti, che ci videro la sconfessione della rivoluzione e l’indicazione di una via gradualista al socialismo, ma anche da rivoluzionari, come la Luxemburg, o come Trotsky e Bordiga giovani (e questi ultimi ebbero il tempo di ricredersi), ma non da Lenin, che non ebbe mai dubbi sull’ortodossia di Engels, e seppe applicare i suoi insegnamenti. Nella Rivoluzione d’Ottobre, infatti, la propaganda nell’esercito ha un peso determinante, e Trotsky, che da critico di Lenin si era trasformato nel suo migliore collaboratore, la seppe condurre con grande capacità.
La borghesia, per garantirsi contro la possibilità che i soldati siano influenzati da propaganda rivoluzionaria, tende a sostituire la coscrizione obbligatoria con soldati di mestiere, e, a volte, con strutture private, che ricordano sempre più le compagnie di ventura. Tutto ciò s’inscrive nel processo di allontanamento dalle forme di democrazia dell’epoca della rivoluzione borghese – agli inizi dell’Ottocento parlare di democrazia faceva tremare i benpensanti, oggi sono “democratici” pure Fini e Bush – verso una democrazia blindata, che è una forma mascherata di fascismo. Tuttavia, nel caso di una guerra veramente impegnativa, i pretoriani non basterebbero più, si dovrebbe ricorrere di nuovo alla coscrizione, e allora l’ipotesi di Engels riacquisterebbe attualità.
Le forme d’isolamento, con le comunicazioni telegrafiche interrotte, che i bolscevichi dovettero subire mentre l’esercito del Kaiser avanzava, o durante la guerra civile, sono difficilmente immaginabili oggi, con i moderni mezzi di comunicazione. Oggi le notizie possono passare, il problema è distinguere quelle vere dal mare di menzogne che la borghesia, ormai definitivamente incarognita, riversa ogni giorno sulla cosiddetta opinione pubblica.
Lo sviluppo dei media cambia la forma della lotta politica e sindacale. Se Marx nel “Capitale” parlava dell’agitazione per le otto ore “che cammina con gli stivali delle sette leghe della locomotiva, dall’Atlantico al Pacifico, dalla Nuova Inghilterra alla California”, quanto maggiori sono oggi le possibilità di diffondere parole d’ordine di lotta. Gli ostacoli sono di natura politica e sociale, non più tecnica. Lenin soleva usare una forma semplice ed efficace per spiegare cosa fosse il socialismo: “I soviet, più l’elettrificazione”. Potremmo dire oggi che è “consigli dei lavoratori più Internet?”. Forse.
Da tutto ciò deriva una considerazione: chi ha detto che i grandi rivoluzionari del novecento sono morti, e non solo fisicamente, non ha capito niente di tutto ciò, perché confonde le soluzioni specifiche adottate allora, ovviamente non ripetibili, con i metodi d’analisi e di soluzione dei problemi, che invece sono attualissimi. E’ ovvio che non si può ripetere la NEP, ma abbiamo tanto da imparare dagli studi di Lenin sull’agricoltura, dalla sua capacità d’interpretare dati forniti da studiosi borghesi o da burocrati zaristi, inadatti a descrivere le differenti classi sociali, e con pazienza disgiungendo i dati e ricomponendoli con criteri diversi, riusciva a fare emergere i veri rapporti tra le classi.
Lo studio degli sviluppi economici e politici gli dava la possibilità di un’interpretazione estremamente lucida degli avvenimenti, persino quando era costretto a seguire gli eventi da lontano, in esilio. Gioverà qualche analogia: si pensi ad un vulcanologo, che non si limita a compulsare libri, ma segue sul terreno gli sviluppi. Potrà essere in grado di cogliere i segni indicatori della fuoriuscita della lava assai prima degli altri. In un articolo su quest’argomento leggiamo: ” Molto spesso prima che avvenga un’eruzione di un vulcano quiescente si verifica una serie di fenomeni indicativi di uno stato anomalo del vulcano; questi fenomeni, anche se sono definiti precursori, non sono altro che un processo vulcanico già in atto. Il fatto che anticipino l’eruzione vera e propria di un periodo di tempo più o meno lungo dipende da fattori che al momento restano in gran parte sconosciuti”. Anche in una rivoluzione ci sono fenomeni precursori, ma per individuarli precocemente occorre, non solo avere studiato accuratamente le rivoluzioni precedenti, ma anche avere sviluppato una particolare sensibilità in questo campo.
Nel marzo 1917, quando scoppia la rivoluzione cosiddetta di febbraio (bisogna tenere sempre presente il divario tra il calendario russo e quello occidentale), Lenin è in Svizzera, e si tiene in contatto con i bolscevichi. Sono di questo periodo le “Lettere da lontano”. La rivoluzione del 1905 – scrive – “ha ridestato alla vita e alla lotta politica milioni di operai e decine di milioni di contadini, rivelato le une alle altre e al mondo intero tutte le classi (e tutti i principali partiti) della società russa nella loro vera natura, nella connessione reale dei loro interessi, delle loro forze, dei loro metodi d’azione, dei loro scopi immediati e lontani. La prima rivoluzione e il successivo periodo di controrivoluzione (1907-1914) hanno messo a nudo l’essenza della monarchia zarista, l’hanno spinta al “limite estremo”, hanno svelato tutta la sua putredine e infamia, tutto il cinismo e la corruzione della banda zarista capeggiata dal mostruoso Rasputin, tutta la ferocia della famiglia dei Romanov, di questi massacratori che hanno inondato la Russia del sangue degli ebrei, degli operai, dei rivoluzionari….”
Oggi Nicola II lo hanno fatto santo, il che rivela a quale punto di controrivoluzione si sia giunti.
La prima rivoluzione rappresenta una sorta di “prova generale” in cui ogni classe, ogni partito, può conoscere la sua parte, ed essere in grado di recitarla al meglio, ma il grande acceleratore è la guerra mondiale imperialista. Altro che socialismo in un solo paese, senza la guerra mondiale la rivoluzione russa non sarebbe stata possibile, perché in essa si rispecchia, non tanto il rapporto di forza tra il proletariato russo, zarismo e proprietari terrieri e borghesia, quanto quello tra il proletariato mondiale e le altre classi, a livello internazionale. Se le potenze imperialiste non fossero state impegnate in una lotta mortale fra di loro, avrebbero potuto spazzare via ogni tentativo di rivoluzione. Sia detto questo anche per i compagni che sperano in una rivoluzione in Argentina; sei ore dopo arriverebbero truppe europee e statunitensi – questa volta pienamente concordi – per soffocarla. Le condizioni per la vittoria di una rivoluzione non sono mai esclusivamente locali, ci ha insegnato Lenin.
“La guerra imperialistica doveva, per oggettiva necessità, accelerare in modo eccezionale e inasprire al massimo la lotta di classe del proletariato contro la borghesia, doveva trasformarsi in guerra civile tra classi nemiche”. La parola d’ordine della trasformazione della guerra in rivoluzione proletaria non è una pura petizione di principio, una testimonianza e una protesta, ma poggia su una precisa analisi dei rapporti di forza tra le classi, senza la quale, spiega più volte Lenin, non esiste marxismo.
I legami tra la borghesia russa e il capitale finanziario anglo-francese, hanno accelerato la crisi, con un complotto contro i Romanov, per impedire un accordo separato tra Nicola II e Guglielmo II.
Come era accaduto in Germania al tempo della rivoluzione 1848-49, la borghesia russa cercava di accordarsi nuovamente con lo zarismo, perché aveva bisogno della burocrazia e dell’esercito per difendere i privilegi del capitale. Lenin sapeva che la scelta era tra un’ulteriore fase della rivoluzione e una monarchia bonapartista, che poggiasse su un suffragio popolare fittizio. Per impedire la restaurazione, occorreva armare gli operai:
”La nostra è una rivoluzione borghese, e quindi gli operai devono sostenere la borghesia: dicono i Potresov, i Gvozdev, i Ckheidze, come ieri diceva Plekhanov.
La nostra è una rivoluzione borghese, diciamo noi marxisti, e quindi gli operai devono aprire gli occhi al popolo dinanzi alla mistificazione dei politicanti borghesi, insegnarli a non credere alle parole, a contare solo sulle proprie forze, sulla propria organizzazione, sulla propria unità, sul proprio armamento”.
Eppure, ancora adesso, molti credono semplicisticamente che Lenin, nel marzo 1917 abbia detto: si è fatta la rivoluzione borghese, ora bisogna fare la rivoluzione socialista.
Lenin sa che il governo proseguirà la guerra, e, nel migliore dei casi, potrà dare al popolo, come in Germania, “una fame genialmente organizzata”, sa che il proletariato ha due alleati, la grande massa dei semiproletari e una parte dei piccoli contadini, e che questa massa ha bisogno di pace, pane, terra e libertà; e che gli sviluppi della guerra spingeranno queste masse verso il proletariato, e qui il soviet avrà un’importanza grandissima.
Procediamo per sommi capi. Lenin giunse in Russia, e cominciò un confronto disperato con i suoi compagni di partito, che non capivano la situazione, perché giudicavano con i criteri validi per una fase precedente della rivoluzione. Il soviet, l’unico governo rivoluzionario possibile, invece di instaurare la dittatura del proletariato e dei contadini, come previsto nel programma bolscevico, sotto la spinta degli opportunisti, cedeva il potere nelle mani del governo borghese. All’interno dei soviet, bisognava portare avanti una separazione tra gli elementi proletari e quelli piccolo borghesi (tutti coloro che accettavano la continuazione della guerra, l’appoggio alla borghesia e al governo)
Come Cellini, costretto a letto da una febbre altissima, venne a sapere che i suoi collaboratori, per incapacità, stavano rovinando la fusione del Perseo, si alzò come una furia, e, sebbene ancora febbricitante, riuscì ad imporre una precisa condotta e salvare il suo capolavoro, così Lenin, quando i bolscevichi, per un incomprensione degli avvenimenti più recenti e l’ossequio alla lettera del programma, si stavano allineando con i socialisti rivoluzionari e i menscevichi, il che avrebbe compromesso la rivoluzione stessa, dopo discussioni drammatiche, riuscì a convincerli a seguire le sue indicazioni. Il marxismo autentico ha sempre respinto lo stupido culto della personalità, ma non ha mai negato che, in certi particolari svolti storici, anche l’intervento di un singolo possa avere un peso eccezionale. E tra l’aprile e l’ottobre del 1917 ciò si verificò più volte.
Lenin colse la temperatura della lotta di classe, individuò il periodo, persino i giorni, in cui la rivoluzione avrebbe avuto probabilità di vittoria. Scriveva: “Compagni, scrivo queste righe la sera del 24, la situazione è estremamente critica. E’ chiarissimo che ogni ritardo nell’insurrezione è veramente uguale alla morte (…). L’attacco borghese dei Kornilovisti, l’allontanamento di Verkhovski dimostra che non si può attendere. Bisogna a qualsiasi costo stasera, stanotte, arrestare il governo, dopo aver disarmato (o vinto se opporranno resistenza) gli junker, ecc: Non bisogna attendere!! Si può perdere tutto”. Senza questa tempestività, avrebbe vinto il secondo complotto kornilovista.
Non c’è soltanto scienza, conoscenza dei rapporti economici e politici, c’è arte, sensibilità, intuizione. Non c’è tempo di tergiversare. Altrove scrive:”La fame non attende. L’insurrezione contadina non ha atteso. La guerra non attende:Gli ammiragli che sono scappati non hanno atteso. O forse la fame acconsentirà ad attendere se noi bolscevichi proclameremo la nostra fede nella convocazione dell’Assemblea costituente?”
Sono queste le parole di un vero capo rivoluzionario, che sa attendere quando è necessario, ma sa anche agire quando è il momento. Non è solo questione di intelligenza, ci sono molte persone intelligenti che non concludono nulla. C’è anche la capacità di perseguire uno scopo per decenni, e il possesso pieno di una dottrina, il marxismo, che, come amava ripetere, non è un dogma, ma una guida per l’azione.
Qualcuno potrebbe dire: d’accordo, il vostro marxismo è una magnifica guida nei periodi rivoluzionari, ma non serve nei periodi normali. Al contrario, abbiamo ad esempio, l’opposizione della Socialdemocrazia tedesca, che, anche se non sempre conseguente, finì col mandare a gambe all’aria nientemeno che Bismarck; e solo quando questa opposizione si allentò, per la formazione di un potente strato di aristocrazia operaia, la cui influenza finì per snaturare il partito, il militarismo tedesco divenne onnipotente. Con l’opposizione di princisbecco che c’è oggi in Italia, non un Bismarck, ma un Berlusconi, fa il bello e il cattivo tempo.
Lenin, a differenza di tanti sinistri infantili che, confondendo periodi storici diversi, condannavano della socialdemocrazia tedesca, non solo il tradimento finale, ma anche il periodo d’oro, seppe apprezzare la grande tradizione di questo partito: “La storia…. ha oggi confermato su larga scala, su un piano storico mondiale, l’opinione da noi sempre sostenuta: cioè che la socialdemocrazia rivoluzionaria tedesca … era la più vicina a quel tipo di partito di cui ha bisogno il proletariato rivoluzionario per vincere. Oggi, nel 1920, è chiaro che tra tutti i partiti occidentali proprio la socialdemocrazia rivoluzionaria di Germania ha dato i capi migliori.” Questo partito, infatti, ci ha dato militanti del livello della Luxemburg e di Karl Liebknecht, di Mehring e di Jogiches, di Leviné (anche se alcuni di loro non erano nati in Germania, fu lì che svolsero la loro attività determinante. Gli operai non hanno patria, dice il Manifesto, e, a maggior ragione, i comunisti) e una massa sterminata di militanti coraggiosi e disinteressati, che hanno saputo combattere con coraggio il tradimento dei Noske e degli Scheidemann, e la debolezza e l’opportunismo dei Kautsky e dei Ledebour.
E’ difficile che nel nostro tempo nascano individui come Lenin – solo il calore della rivoluzione può forgiare simili tempre – ma tutte le volte che i partiti dei lavoratori hanno respinto le tentazioni piccolo borghesi e la collaborazione di classe, questa politica ha inciso molto sulla maturazione della situazione. La piccola borghesia oscilla per sua natura tra il proletariato e la borghesia. Se il proletariato cede, i piccoli borghesi subiscono completamente l’influenza della borghesia, e una cappa di conformismo soffoca la società. Se il proletariato lotta, e il suo partito porta avanti un’efficace opposizione, anche la piccola borghesia si risveglia, e i margini per conquiste parziali, persino per le famose riforme, si riaprono. Il partito dei lavoratori deve scegliere se essere la ruota di scorta della borghesia o il rappresentante di tutti gli sfruttati. Chi non sceglie –diceva Lenin – pretende di sedersi tra due sedie.

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