Ma di quale memoria parliamo?

Si assiste ogni anno a diverse celebrazioni del fenomeno storico che erroneamente viene definito Olocausto (parola che ha in sé qualcosa di sacro) e che più propriamente andrebbe chiamato sterminio. Del resto, il 27 gennaio è dedicato per legge alla giornata della memoria.
Non sempre tali celebrazioni mi sono piaciute. Vi ho visto spesso una traduzione spettacolarizzata, di forte impatto emotivo, concentrata su aspetti raccapriccianti da inferno in terra. Mi vien da pensare, tuttavia, che quell’inferno, quando è sceso sulla terra, aveva delle ragioni – sono stati cioè degli uomini a portare Auschwitz nella storia. Su questo, però, mi sembra che non ci si concentri abbastanza. Eppure, sembrerebbe della massima importanza pensarci – comprendere cioè come mai la teoria e la pratica dello sterminio abbiano potuto contagiare non soltanto un manipolo di pazzi e delinquenti, di sanguinari e sadici, ma milioni di donne e di uomini, madri e padri di famiglia.
Non mi è parso che si diano, pertanto, in occasione di queste tristi ricorrenze, momenti di comprensione effettiva di ciò che è accaduto e di ciò che, di quell’inferno, nonostante tutto, è ancora rimasto fra noi. Fare di un ricordo storico di quella rilevanza una sorta di cimelio da esibire per fare audience, invece, o per apparire alla moda, è un aspetto assolutamente deteriore – e direi nausente e vomitevole – della civiltà dello spettacolo.
Neppure mi piace il fatto che si concentri il cosiddetto giorno della memoria in un singolo giorno – come se negli altri giorni si avesse licenza di dimenticare assolutamente. Meno ancora mi piace e mi convince che si dedichi attenzione quasi esclusivamente al genocidio ebraico. Non voglio fare alcun elenco – che del resto sarebbe piuttosto lungo e triste – dei genocidi che sono stati purtroppo perpetrati ai danni di popoli interi. Potremmo cominciare forse col ricordare di averli dimenticati, anzi di non sapere neppure che sono stati barbaramente compiuti, spazzando via dalla faccia della terra milioni di innocenti! Quanti sanno del genocidio del popolo pellerossa? E di quelli nel continente sudamericano ad opera del conquistadores? O, per rimanere in ambito soltanto novecentesco, quanti “hanno memoria” del genocidio del popolo armeno o di quello ruandese? E di ciò che è accaduto nei Balcani? E a Timor Est? E nel Darfur?
La memoria non esiste. Né l’oblio. Esiste soltanto – ma non è poco – la relazione fra le dimensioni temporali. Nulla si ricorda. Nulla si dimentica. La differenza sta nel livello e nella qualità della memoria e dell’oblio. Nella loro collocazione e sistemazione nella nostra mente. La memoria senza oblio è ossessione, arida e invadente – è tipica dei vecchi ormai incapaci di aderire alla vita. L’oblio senza memoria, invece, è vuoto di senso – oltre che improvvisazione esistenziale indegna dell’umano.
E dunque, per rimanere nel tema, chi si occupa effettivamente di trasmettere il senso storico di ciò che è avvenuto? Quanti fra coloro che si riempiono la bocca, parlano e discettano, fastidiosamente e retoricamente, hanno letto almeno qualcosa dell’Olocausto e delle sue specifiche ragioni storiche? E non mi riferisco soltanto alle opere monumentali di Primo Levi, Hannah Arendt o Jean Amery, ma di tutta la cultura che ruota intorno all’universo concentrazionario e genocida… Quanti sono coloro che “inviano almeno un fiore” per le donne e per gli uomini spazzati via nei grandi stermini della storia?
La relazione fra le dimensioni temporali nella quale consiste la nostra vita dovrebbe – io credo – essere costantemente tenuta viva, ma non affatto come spettacolo da esibire per soddisfare la fame di morbosità o di auto-assoluzione borghese. E neppure dovrebbe essere rimossa. Nella nostra collocazione storica – a soli 70 anni dalla fine della seconda guerra mondiale – non ci possiamo consentire di non sentirci coinvolti e di non preoccuparci, pensandoci completamente fuori e al riparo da efferatezze e genocidi – che del resto, come detto, sono state compiuti fino a ieri.
Oggi no?
Spero davvero che si dia modo alla scuola, all’università e ai media di non rimuovere, e anzi di mantenere viva la nostra presenza storica. Non mi pare che si faccia adeguatamente, ma non smetto di augurarmi che la nostra collocazione esistenziale possa essere educata e mantenuta, il più possibile, vigile e consapevole…
E non credo neppure – come qualcuno irresponsabilmente afferma – che i giovani non ne vogliano sapere niente. Ne ho avuto la prova (anche) quando ho collocato fra i testi di un corso che ho tenuto all’università, “Se questo è un uomo” di Primo Levi. Ricordo benissimo l’attenzione estrema degli studenti – il loro interesse e la loro passione conoscitiva…
Che dire allora? Cerchiamo di essere all’altezza almeno dei nostri ragazzi.

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5 commenti per “Ma di quale memoria parliamo?

  1. Mario Galati
    28 gennaio 2023 at 5:05

    Il Giorno della Memoria è sempre stata una ricorrenza revisionista, sin dalle sue intenzioni. E’, in effetti, il giorno della smemoratezza e si inserisce nel quadro dell’ideologia di legittimazione liberale.
    Si depura il carattere di classe del fascismo e del nazismo; si trascende il piano sociale e, spesso, persino il piano politico dell’organizzazione nazi-fascista; si presenta il tutto come una manifestazione del male, sul piano morale, psicopatologico (sino alla teratologia: la storia come storia di mostri. Hitler è un mostro e il suo gemello è Stalin, naturalmente, essendo il vero obiettivo di questa lettura della storia) e religioso. Così, i nostri liberali “democratici” e “antifascisti”, possono nascondere il carattere capitalistico del nazi-fascismo, l’essere una organizzazione reazionaria di massa capitalistica; una manifestazione della riorganizzazione capitalistica dello stato in un periodo di crisi, una risposta capitalistica alla sua crisi; una caserma per i lavoratori; una manifestazione particolarmente aggressiva dell’imperialismo capitalistico; lo stato di eccezione dello Stato liberale, deciso dalle medesime classi dominanti; l’estremizzazione della tradizione coloniale e razzista liberale.
    In questo modo i liberali si liberano di una loro creatura e la relegano su di un piano metastorico.
    Oppure, fanno ancora meglio: attraverso la categoria pseudo storica, metafisica (usata su un piano formale politicistico), di “totalitarismo”, la utilizzano per attaccare il comunismo (fascismo e comunismo emanazioni del “totalitarismo”).
    Per i liberali il fascismo è come il maiale: non si butta via niente. Prima lo si organizza e lo si utilizza apertamente, sul piano politico, sociale, economico, militare; poi si fa finta di ripudiarlo e si utilizza sul piano propagandistico ideologico la sua caricatura (il totalitarismo, il “male assoluto”, ecc.), cucendola addosso ai suoi veri avversari: i comunisti e l’Unione Sovietica.
    Preve sosteneva che questa giornata è una manifestazione di culto della nuova religione civile del politically correct.
    Una manifestazione di culto farisaica del medesimo apparato di dominio responsabile del nazi-fascismo e della shoa, aggiungerei.
    La differenza è che da quando Israele è stato cooptato nel popolo dei signori, tra le democrazie coloniali liberali (a braccetto con i carnefici di ieri, anzi, riconoscendosi nella medesima tradizione capitalistica coloniale e imperialistica alla base del razzismo e della tragedia degli ebrei), i capri espiatori e le vittime designate sono altre, ma non contano nulla per i benpensanti “democratici” dirittumanisti.

    • Fabrizio Marchi
      28 gennaio 2023 at 13:03

      Concordo.

    • giulio bonali
      29 gennaio 2023 at 8:32

      Analisi perfetta!

      Aggiungerei (ma é un aspetto secondario della questione ottimamente diagnosticata in questo ottimo commento), che assolutizzare uno dei tanti (anche se fra i peggiori) episodi di razzismo della storia dell’ OCCIDE E DEL CAPITALISMO e pretendere di farne un unicum irripetibile e non paragonabile con nessun altro, il peggiore (superlativo relativo) di tutti, anzi l’ assoluto, “il pessimo”, dandogli un nome proprio con iniziale maiuscola (come “Olocausto” o “Scioà”) perché non si possa confondere con nessun degli altri, pretesi incomparabilmente meno gravi, é una palese professione di razzismo malcelato come preteso antirazzismo.
      Infatti essere antirazzisti coerenti e conseguenti implica necessariamente condannare con identica forza tutti i razzismi (e considerare ugualmente disumani e barbarici tutti i purtroppo non pochi olocausti inflitti dai razzisti a svariate popolazioni.
      Invece considerare un razzismo peggiore degli altri, un “Olocausto” imparagonabile per gravità ad alcun altro implica necessariamente, secondo logica elementare, considerare una (vera o presunta) razza (quella appunto vittima dell’ “Olocausto” unico, con iniziale maiuscola in questione), migliore della altre, che dunque per una necessità logica cogente, sarebbero ad essa “inferiori”.
      In questo modo si abbraccia, si giustifica e si santifica il pessimo, criminalissimo razzismo sionista, odierno “degno” emulo del nazismo: altro che “giornata della Memoria per non dimenticare così che evitare che certi obbrobri e tragedie non si ripetano”: l’ esatto contrario!

      • Mario Galati
        29 gennaio 2023 at 11:21

        Giusto l’aspetto colto da Giulio Bonali. Ma l’unicità della Shoah potrebbe consistere nella modalità di preparazione e attuazione, ossia, attraverso l’organizzazione industriale dello sterminio.

  2. ndr60
    29 gennaio 2023 at 12:59

    Ovviamente concordo totalmente con i commenti precedenti, aggiungo solo una cosa: le sette sorelle tv hanno surrettiziamente, nel corso degli anni, esteso la giornata della memoria a settimana della memoria, cominciando da ben prima del 27 gennaio a inondare la programmazione di film edificanti aventi come tema la persecuzione del popolo ebraico. Per carità, li capisco: avranno i magazzini pieni di film sul tema, essendo diventato una categoria drammaturgica al pari del western o del poliziesco…

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