Quel fatale 2001. Ascesa e caduta della globalizzazione

Nel 2001 gli Stati uniti vengono colpiti, per la prima volta nella loro storia, da un attacco militare sul proprio suolo. Nello stesso anno, la Cina viene ammessa nell’Organizzazione Mondiale del Commercio.
Due avvenimenti che non hanno il minimo rapporto tra di loro. Ma che, messi insieme, influiranno in modo decisivo sul processo di globalizzazione in atto nel mondo.
Intendiamoci: l’America profonda, quella del complesso militare-industriale, dei Cheney e dei Rumsfeld, era ben conscia del fatto che la nascita di un nuovo ordine mondiale comportasse rischi seri per l’egemonia Usa. Così il rapporto del Consiglio Nazionale di Sicurezza, preparato per il primo discorso di Bush sullo stato dell’Unione sottolineava la necessità di “tenere sotto”la Russia e la Cina, nemici naturali degli Stati Uniti e del mondo libero. Questo, in una fase in cui Putin era agli inizi del suo mandato e in cui la Cina, uscita dalla cura ricostituente di Deng, si affacciava per la prima volta, nella sua nuova veste, sulla scena mondiale.
Ma poi c’è lo choc dell’attentato alle Torri gemelle. Un evento che, secondo i giornali dell’epoca, avrebbe cambiato la storia del mondo. E che comunque concentra l’imperialismo messianico americano, con una rara e forse ultima scelta bipartisan, sul Patriot act all’interno e poi negli interventi militari in Afghanistan e in Iraq.
Era l’occasione per coinvolgere l’Europa e per aprire nuove forme di collaborazione con antichi e nuovi nemici, primi tra tutti Russia e Iran. E profferte in tal senso arriveranno da tutti. Ma per essere lasciate cadere o sdegnosamente respinte. Nella guerra irachena l’America avrebbe fatto da sola: senza mandato dell’Onu e segnando sul taccuino chi l’avrebbe sostenuta e chi no. E, lungo otto lunghi anni, si sarebbe concentrata sull’unico obbiettivo della lotta al terrorismo, tralasciando, per così dire, tutto il resto.
Una “distrazione di massa”che sarebbe durata per anni. E che, “ex malo bonum”, avrebbe consentito una modificazione senza precedenti dell’ordine mondiale a vantaggio dei paesi emergenti. Dalla ricostruzione sovranista della Russia dopo i disastri di Eltsin all’affermazione della sinistra socialdemocratico-populista in tutta l’America latina; dalla crescita delle tigri asiatiche ad una proiezione mondiale senza precedenti della potenza cinese.
Il tutto nel quadro di un processo di globalizzazione a immagine e somiglianza della Cina: e di cui la Cina stessa sarà, insieme, il fondamentale ispiratore, il principale motore e il più importante bene beneficiario.
Fondamentale ispiratore: si compra, si vende, si investe nella massima libertà (il movimento delle persone, leggi le migrazioni, è fuori dagli schermi di Pechino); e a prescindere da qualsiasi pregiudiziale politico-ideologica. Principale motore: è l’appetito insaziabile di un paese di quasi un miliardo e mezzo di abitanti, privo di materie prime, di risorse idriche e agroalimentari ad alimentare i suoi investimenti in ogni parte del globo e, soprattutto, a tenere alti i prezzi agricoli e delle materie prime. Per tacere di un turismo di massa che sopravanza largamente quello americano.
Principale beneficiario: al punto di diventare il concorrente n.1 degli Stati uniti in tutti i campi, meno, guarda caso, in quello della potenza militare (qui il rapporto, almeno in termini di spese per la difesa, è di circa 1 a 10).
Non a caso, allora, globalizzazione e ordoliberismo verranno duramente rimessi in discussione non da una sinistra immaginaria ma dalla destra reale e, in particolare, dagli Stati uniti di Trump. Con una serie di iniziative e di prese di posizione che non è il caso di richiamare qui.
E’ il ritorno agli indirizzi enunciati nel 2001. Rendere gli Stati uniti più grandi abbassando tutti gli altri e, in particolare, proprio la Cina. Fino a riportare indietro processi su cui Washington pensava di avere il copyright. A pagarne le conseguenze sono i paesi emergenti e i loro popoli. Meno scambi. Interruzione delle catene di distribuzione. Meno investimenti esteri diretti. Più debiti. Una maggiore instabilità finanziaria. Una diminuzione drastica dei prezzi dei prodotti primari e, quindi, delle entrate dalle esportazioni. Un minore contributo cinese alla crescita economica. E, in sintesi, per la prima volta da decenni a questa parte, una crescita complessiva assai meno sostenuta fino ad essere più bassa rispetto ai paesi di più antica industrializzazione. Per tacere degli effetti politici e sociali, particolarmente evidenti in America latina ma non solo. Dove, a pagare il prezzo di sanzioni sempre più odiose, non sono i regimi sgraditi a Washington ma i loro popoli.
Due brevi considerazioni conclusive. La prima riguarda il nuovo ordine post 1989, segnato da processi e protagonisti molto diversi da quelli ipotizzati e da una rapida crisi che nessuno aveva previsto. Il che dovrebbe portarci a minori dibattiti ideologici e maggiori analisi fattuali. La seconda ha che fare con il carattere pericoloso ma non irreversibile di questa crisi; il che implica, per tutti, un’azione assai più decisa nel contrastarla.

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Fonte foto: milanofinanza.it (da Google)

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