Reddito di cittadinanza: dalle mirabolanti promesse al varo di un sussidio “bifronte”

Accingendomi alla stesura di questa nota, sfoglio con la sinistra il testo del “Decreto legge disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni[1]” nella sua versione (mi auguro!) «definitiva»[2]. Parlare di definitività a proposito di un Decreto legge, fonte provvisoria per natura, è senz’altro inappropriato, ma fra i lasciti del renzismo annoveriamo il proliferare di bozze testuali che si inseguono e si sovrappongono, complicando la vita già di per sé dura dell’interprete, alle prese con norme scritte sempre peggio e raramente intelligibili: l’istituto oggetto d’analisi dovrebbe comunque avere oramai acquisito una sua precisa fisionomia, ed eventuali future modifiche sarebbero cosmesi normativa.

Un paio di settimane fa, su La7, il giornalista Massimo Giannini ha parlato, a proposito del provvedimento, di “cambio di paradigma”, riconoscendo ai pentastellati il merito di aver mantenuto le loro promesse elettorali (cosa che in Italia non è avvenuta praticamente mai nell’ultimo trentennio!). Pur nutrendo seri dubbi sul carattere più o meno rivoluzionario della misura non posso non apprezzare l’onestà intellettuale esibita da Giannini, che pochi emuli ha trovato a «sinistra»: per PD e affiliati il reddito è da buttare (lo stesso vale ovviamente per quota 100, cui nuoce a parer mio l’infelice formula «pensionamento anticipato» contenuta in premessa, che la qualifica come eccezione alla regola, restringendone anche sul piano lessicale la portata innovativa).

Intendiamoci: un socialista o un comunista avrebbero parecchio da ridire sulla filosofia che sta alla base della manovra, poiché essa prevede un sostegno statale che è benevola ma condizionata concessione ai bisognosi anziché riconoscere un pieno diritto al lavoro a cittadini in temporanea, incolpevole difficoltà – e tutti i richiami in premessa al «lavoro» non scalfiscono l’impressione che il reddito sia in fondo un paternalistico aiuto dall’alto. Il PD[3] e i suoi propagandisti si guardano bene, tuttavia, dal contestare l’impostazione generale del reddito proponendo alternative più rispettose della dignità individuale: al contrario, prigionieri di una logica sfacciatamente neoliberista, condannano come eretica l’idea stessa di un soccorso pubblico ai poveri, descritti come sfaccendati, incapaci e – in sostanza – come persone meritevoli del proprio status di emarginati. La compiaciuta e infelicissima battuta di un’ex ministra che richiama un successo sanremese dello scorso anno fa il paio con i sarcasmi inaugurati dal suo mentore (uno, tra l’altro, che prima di impiegarsi in politica ha fatto di mestiere il figlio del padrone…) sui “frequentatori di divani[4]”: tutte queste prese di posizione, culminate nell’ipotesi di raccogliere le firme per un referendum abrogativo, denotano un disprezzo di classe che, se il termine non fosse abusato, potremmo assimilare al «razzismo».

Il fatto che i portavoce partitici della classe privilegiata assumano un atteggiamento preconcetto, oltre che odioso, e muovano impudenti obiezioni di «assistenzialismo» (proprio loro, che con tanto servile fervore assistono finanzieri e multinazionali!) non deve tuttavia condurci a difendere il reddito di cittadinanza per partito preso. Al di là della visione del mondo che esso esprime (che non è quella di chi scrive), sono proprio le concrete modalità di realizzazione a non persuadere: al vizio di base si accompagnano puntuali e gravi difetti che forse derivano dal primo e forse no, ma corroborano comunque l’opinione che il cambio di paradigma sia soltanto immaginario e che lo Stato sociale resuscitato da Di Maio&co. sia tutt’al più uno zombie.

Non essendo io un piddino dalle incrollabili, aprioristiche certezze (destrorse) sono umilmente partito dalla lettura del dettato normativo, di certo non facilitata dall’abituale farraginosità delle formule impiegate.

Proviamo a riassumere la disciplina contenuta negli articoli che vanno dall’1 al 10: il Reddito di cittadinanza (acronimo: Rdc), il cui avvio è previsto per aprile, è una misura di contrasto alla povertà che, in quanto «unica[5]», sostituisce quelle preesistenti – unica ma fino a un certo punto, visto che vanta un “gemello” nella c.d. Pensione di cittadinanza, destinata agli ultrasessantasettenni[6] che versano in condizioni identiche ai destinatari del primo. Costoro sono cittadini italiani (o di Paesi dell’UE ovvero firmatari di convenzioni bilaterali con l’Italia) oppure stranieri altri residenti nel nostro Paese da almeno un decennio che combinino un ISEE modesto (inferiore ai fatidici 9.360 euro), un patrimonio immobiliare non superiore ai 30 mila euro al netto della casa di eventuale proprietà, un ristretto patrimonio mobiliare e un reddito non eccedente i limiti di cui all’art. 2, co. 1, lett. b). La disoccupazione non è a stretto rigore indicata come requisito, ma il diritto al RdC – evidentemente compatibile con i c.d. mini jobs o con prestazioni occasionali – viene meno, oltre che per i detenuti e i ricoverati in istituti et similia con retta a totale carico dello Stato, anche per quanti nei dodici mesi precedenti si siano dimessi dall’impiego in mancanza di giusta causa.

L’ammontare del beneficio è fissato dal successivo articolo 3: per chi fa nucleo familiare a sé l’integrazione può arrivare fino ai 500 euro mensili (erogati in toto se il reddito è 0), cui si aggiungono 280 euro a copertura forfetaria della spesa per il canone di locazione, se il beneficiario è privo di casa di proprietà, oppure 150 euro se la persona ha contratto un mutuo per l’acquisto dell’abitazione. Il medesimo tetto di 9.360 euro annui si applica pure alle Pensioni di cittadinanza, ma una differenza si coglie sotto l’aspetto della durata, che per i pensionati non conosce limiti mentre per gli altri beneficiari è fissata a 18 mesi, comunque rinnovabili (p.c.d. all’infinito) dopo un mese di pausa. Se il nucleo familiare è composto da più soggetti – maggiorenni o minorenni che siano – la sola voce integrativa aumenta, ma in misura regressiva: gli adulti in aggiunta al primo riceveranno un massimo di 200 euro mensili, mentre i minori dovranno accontentarsi di 100 euro. Il totale non può comunque eccedere i 1.050 euro al mese (più l’eventuale contributo affitto o mutuo) indipendentemente dal numero dei membri della famiglia. Il citato articolo 3 prevede l’ipotesi di una variazione occupazionale in corso d’anno, introducendo un complesso meccanismo di ricalcolo/adeguamento, e quella di una modifica quantitativa del nucleo familiare. L’erogazione del beneficio (art. 5), non tesaurizzabile, avviene per il tramite di una carta Rdc prepagata, impiegabile anche come bancomat fino a un prelievo massimo di 100 euro mensili (per singolo individuo); all’utilizzatore sono inoltre estese “le agevolazioni relative alle tariffe elettriche (…) e quelle relative alla compensazione per la fornitura di gas naturale” (co. 7).

Cosa richiede in cambio lo Stato al percettore del Rdc? Esaminiamo l’articolo 4, che consta di ben 15 commi: i componenti maggiorenni del nucleo familiare devono sottoscrivere una dichiarazione di “immediata disponibilità al lavoro”, frequentare – se disoccupati – corsi formativi finalizzati all’inserimento (o al reinserimento) lavorativo e mettersi a disposizione dei Comuni di residenza per non più di otto ore settimanali partecipando “a progetti utili alla collettività, in ambito culturale, sociale, artistico, ambientale, formativo e di tutela dei beni comuni”. Detti obblighi non gravano sui pensionati, sugli studenti, sui disabili, su chi già lavor(icchi)a nonché su chi risulta occupato nella cura di bimbi fino a tre anni o di familiari gravemente disabili o non autosufficienti; per gli altri scatta l’obbligo di “accettare almeno una di tre offerte di lavoro congrue” (co. 8, lett. b) n. 5). Sul concetto di «congruità» torneremo tra poco, perché il termine ci pare adoperato in maniera quantomeno impropria; per quanto concerne le sanzioni – draconiane – che dovrebbero scoraggiare comportamenti opportunistici rinviamo il lettore interessato all’articolo 7 del decreto: basti anticipare che i “furbetti del Rdc” rischiano, se scoperti, fino a 6 anni di carcere (pena un tantino eccessiva: il sospetto è che l’esibizione della “faccia feroce” serva a mascherare i dubbi nutriti dallo stesso legislatore sull’efficacia dei controlli/monitoraggi) oltre all’obbligo di restituzione delle somme indebitamente ricevute.

E’ tempo di tirare le somme, evidenziando sia gli aspetti positivi che quelli negativi della misura appena introdotta e ricordando che, come ha tenuto a sottolineare Salvini [7] in persona, essa va ascritta per intero a merito (o demerito) del M5stelle. Sotto il primo profilo notiamo che, per la prima volta in questo nuovo millennio, una forza politica di governo registra la diffusione della povertà nella popolazione italiana (quasi 1/10 della quale sopravvive in stato di indigenza) e si fa carico del problema, proponendo un rimedio non settoriale o episodico. Con tutti i suoi molti limiti (anche “ideologici”) il Rdc non è la mancetta preelettorale del sig. Renzi. Anche taluni difetti di coordinamento con altre discipline paiono facilmente rimediabili: con riferimento all’imposta sui redditi, ad esempio, la soglia massima di 9.360 euro potrebbe venir utilizzata per delimitare la c.d. no tax area, attualmente fissata a 8 mila per i lavoratori dipendenti[1]. Venendo alle singole previsioni, piace a chi scrive l’attenzione rivolta ai pensionati poveri, che sono tanti e a cui il benefit garantirà, nell’inverno dell’esistenza, un tenore di vita decente. Certo, ad avvantaggiarsi della Pensione di cittadinanza saranno anche alcuni soggetti, per lo più lavoratori autonomi, che – senza mai davvero conoscere la miseria – hanno semplicemente fatto scelte contributive di corto respiro, ma si tratta di una minoranza, e nel suo complesso la norma è pregevole. Egualmente va salutata con favore la sottrazione degli inabili al lavoro al rispetto degli obblighi connessi all’erogazione del beneficio: l’attuazione dell’articolo 38 della Costituzione è un obbligo, non un suggerimento, ma com’è noto il legislatore si distrae di frequente… Reputo assennata e opportuna la decisione di far prestare ai percettori del Rdc fino a 8 ore di lavoro settimanale a beneficio dei Comuni di residenza, cioè della rispettiva comunità: sfibrati da anni di tagli indiscriminati e divieti assunzionali gli enti acquisiranno preziose risorse suppletive che, affiancandosi allo sparuto personale in servizio, dovrebbero consentire un potenziamento dei servizi resi alla popolazione (è una soluzione tampone, ma intelligente). Da ultimo lo strumento della carta Rdc prepagata, se non innovativo, appare coerente con la logica keynesiana che ispira la misura: vista l’impossibilità oggettiva di risparmiare (il credito rimasto a fine mese va infatti perduto), il “cittadino” sarà obbligato a spendere l’intero reddito – e questo permetterà l’accesso al consumo da parte di fasce popolari che, in precedenza, ne erano sostanzialmente escluse. Che poi il moltiplicatore effettivamente si attivi è tutto da dimostrare, ma la direzione – in una società che permane capitalista – è quella giusta.

Fin qui le virtù dell’intervento, perlomeno dal punto di vista di chi scrive. I vizi però non mancano, e taluni di essi mi sembrano davvero capitali. Di alcuni i proponenti non sono affatto responsabili, discendendo da situazioni pregresse o vincoli esterni: l’inadeguatezza dei centri per l’impiego è un retaggio del passato, cui buone intenzioni di riforma non possono supplire in quattro e quattr’otto (i propositi di nuove assunzioni sono in ogni caso lodevoli), mentre la palese insufficienza delle risorse stanziate – che si traduce nella cennata penalizzazione ai danni delle famiglie numerose – è figlia del compromesso con la tecnocrazia iperliberista beffardamente definita “Europa”.

Altre storture sono però senza dubbio imputabili a chi ha ideato il meccanismo, e a parer mio portano a una valutazione complessivamente negativa. Scarsa equità, una «congruità» che pochissimo ha di congruo e, infine, un eccesso di attenzioni rivolte agli imprenditori degradano il Reddito di cittadinanza a promessa (scientemente?) non mantenuta. Esaminiamo le questioni una per volta.

Nel primo tema ci siamo già imbattuti cammin facendo: se un reddito mensile di 500 euro – al netto del bonus affitto – può essere ritenuto (appena) sufficiente per un individuo, il raddoppio della somma neanche lontanamente soddisfa le esigenze basilari di una famiglia di cinque o più persone. Anche coniuge, figli ecc. hanno bisogno di cibo, vestiti, scarpe, tessere del bus ecc. Dal punto di vista dell’equità e persino della ragionevolezza la scelta normativa appare censurabile, anche perché se il “povero” che vive per conto suo usufruisce spesso di forme di supporto esterno (in genere prestato dai genitori), le famiglie numerose sono di regola abbandonate a se stesse, non avendo in terra santi cui votarsi. Stravagante dunque che il legislatore abbia invertito le priorità, assegnando ai più bisognosi un beffardo premio di consolazione – dico beffardo perché parlare, a queste condizioni, di “povertà sconfitta” equivale a farsi gioco di centinaia di migliaia di italiani. Capisco che le risorse erano poche, ma spartirle con maggior raziocinio non era impresa impossibile…

Quella descritta è la prima pecca, ma non certo la più grave. La «congruità» così come definita dall’art. 4, co. 9, è un bizzarro nonsenso. Quand’è che un’offerta di lavoro può a ragione considerarsi congrua? Al ricorrere di due presupposti, uno qualitativo e l’altro quantitativo/economico. In sostanza: una proposta è congrua se risulta coerente con il titolo di studio e le competenze acquisite dal candidato nel corso della sua vita lavorativa. E’ assurdo pretendere che un laureato accetti un lavoro da spazzino, così come sarebbe insensato offrire un ruolo dirigenziale a chi ha la scuola dell’obbligo[2] – tralasciando gli esempi limite deve sussistere una certa equivalenza tra vecchio e nuovo lavoro. Non basta: se una persona, per potersi impiegare, acconsente a un trasferimento a centinaia di chilometri da casa anche la retribuzione deve essere adeguata, in modo da assicurarle “un’esistenza libera e dignitosa (art. 36 Cost.)”. Bisognava insomma fissare un limite minimo netto che tenesse conto, tra i fattori, anche della lontananza dal precedente luogo di residenza: partire da mille euro – cioè dal doppio del Rdc – poteva avere un senso, se non altro perché è logico che all’inserimento nel mercato del lavoro corrisponda un miglioramento della condizione economica. Di questi ragionamenti nel decreto non v’è purtroppo traccia: la congruità in versione caricaturale si riduce a una distanza chilometrica – nei primi dodici mesi il beneficiario dovrà prendere in considerazione una prima offerta entro cento km da casa sua, ma se ne arriva una seconda il raggio si espande sino a 250 km. Qualora poi si ottenga il rinnovo del beneficio (o anche entro il primo anno, una volta rifiutate due proposte) toccherà accettare la prima offerta proveniente da qualsiasi parte del territorio nazionale, anche se economicamente e professionalmente poco vantaggiosa: la proroga trimestrale dell’assegno graziosamente concessa a chi accetta “a titolo di compensazione per le spese di trasferimento sostenute (co. 10)” sarà ben magra consolazione per quanti dovranno emigrare dal Mezzogiorno a Milano o in Veneto. Teniamo conto che la maggioranza dei beneficiari del Rdc saranno ex lavoratori scarsamente specializzati: facile preconizzare che per costoro al perdurare della miseria (il fenomeno dei working poors è sempre più diffuso nell’opulento Occidente) si aggiungerà la pena dello sradicamento.

Non finisce qui: la rubrica dell’articolo 8 recita “Incentivi per l’impresa e per il lavoratore”. Chi vuole avviare una propria attività è effettivamente incoraggiato a farlo (co. 4), ma agli aspiranti prestatori va molto peggio. E’ forse un’opzione realistica, ancorché poco promettente, quella di affidarsi alle famigerate agenzie di lavoro interinale, considerata l’attuale inaffidabilità dei centri per l’impiego (art. 8, co. 12), ma tutt’altro che condivisibile mi appare la scelta di “trasferire”, in caso di assunzione, l’assegno mensile dal percettore originario al nuovo datore di lavoro, che intascherà, sotto forma di sgravio contributivo, un importo pari alla differenza tra 18 mensilità di RdC e quello già goduto dal beneficiario stesso, “non superiore a 780 euro mensili[3] e non inferiore a 5 mensilità” (se l’avviamento è stato fatto da un’agenzia, le “spoglie” saranno equamente suddivise tra i due soggetti imprenditoriali). L’agevolazione è subordinata alla realizzazione di un incremento netto del numero di dipendenti a tempo pieno e indeterminato, a meno che attraverso tali assunzioni si provveda alla sostituzione di lavoratori cessati dal servizio per pensionamento: minimo sindacale, verrebbe da chiosare, ma a suscitare scandalo è (cioè: dovrebbe essere) la seconda condizione imposta all’imprenditore, vale a dire il divieto di licenziamento del beneficiario nei primi 24 mesi, senza giusta causa o giustificato motivo. Mi spiego: dopo la cancellazione de facto dell’articolo 18 (che i 5stelle avevano proclamato di voler reintrodurre… chi l’ha rivisto?) l’impiego del licenziamento per giustificato motivo oggettivo è assurto a solida, “accettabile” prassi, ma anche a prescindere da ciò siamo al cospetto dell’introduzione di una nuova fattispecie di rapporto a tempo determinato di durata biennale, eventualmente rinnovabile a capriccio dell’imprenditore, sul quale non grava in sostanza nessun vincolo. A suo tempo avevo ottimisticamente immaginato che il Rdc fosse stato concepito come antidoto a forme smaccate di sfruttamento (riders, operatori di call-center, raccoglitori di pomodoro ecc.), togliendo a queste schifezze qualsiasi “attrattiva”, ma la norma che sanziona le dimissioni volontarie e soprattutto quella dianzi tratteggiata dipingono un quadro differente e fosco: la convenienza ad assumere i percettori del Rdc potrebbe avere un effetto depressivo sui salari in generale, nel senso che i lavoratori “normali”, per poter essere competitivi, dovranno accontentarsi di retribuzioni più basse. Insomma, il Rdc muta fisionomia in corso d’opera, e così facendo svela la sua natura autentica di sussidio di disoccupazione (almeno nella maggior parte dei casi) che aspira ad essere al contempo incentivo alle assunzioni: dubito che questo raddoppio fittizio degli stanziamenti possa produrre risultati positivi, se non altro perché, in passato, la moltiplicazione delle risorse (nel caso di specie: pani e pesci) è riuscita ad un individuo soltanto…

Come tramutare – in sede di conversione – questo pastrocchio in un Reddito di cittadinanza come si deve? In parte l’ho già detto: anzitutto sarebbe doveroso modificare i parametri della scala di equivalenza, portandolo da 0,4 (per i maggiorenni) e 0,2 (per i minori) a 0,5 per tutti: in tal modo un nucleo familiare composto da 5 persone porterebbe a casa 1.500 euro al mese. In secondo luogo bisognerebbe rivedere il concetto di «congruità», restituendogli un contenuto degno di questo nome; le distanze chilometriche andrebbero inoltre accorciate sensibilmente. Si conservino pure le tre offerte, ma stabilendo che la prima deve riguardare un impiego nella località di residenza, per la seconda prendendo a riferimento il territorio provinciale e per la terza quello regionale, fino a una distanza massima di 250 km: questo anche per evitare la completa desertificazione produttiva di zone già depresse. Infine sarebbe opportuno individuare un minimo salariale (da estendere a tutti i prestatori) ovvero, in alternativa, riservare al lavoratore neoassunto una quota residua di Rdc in maniera da consentirgli un tenore di vita dignitoso: il resto vada pure all’imprenditore, a condizione che si impegni a non licenziare (se non per giusta causa o giustificato motivo soggettivo) per almeno un lustro.

Inutile nutrire illusioni: diventando legge il Rdc potrà solamente peggiorare (è accaduto lo stesso con il c.d. Decreto Dignità). Già la sua attuale impostazione ci rivela però una verità nascosta: il costrutto normativo è sintomatico di un atteggiamento di sfiducia e sospetto nei confronti dei “poveri” che è abbastanza tipico dell’ideologia neoliberale, di cui anche i pentastellati – malgrado le loro velleità (pseudo)rivoluzionarie – risultano permeati. La cosa non sbalordisce: non basta la buona volontà per sottrarsi a quello che chiamano lo “Spirito dei tempi”. Un tanto non implica alcuna automatica equiparazione tra il M5S e gli zelanti partiti di regime: dopo anni di provvedimenti spietatamente classisti i grillini stanno tentando, fra mille difficoltà, di fare qualcosa di vantaggioso per gli ultimi. Con loro dovremo necessariamente dialogare, sia pur partendo da posizioni critiche: anzi, la critica (non preconcetta, però: costruttiva) è essa stessa una forma di dialogo, forse al momento l’unica possibile.

La pretesa di umanizzare il sistema capitalistico è però utopica: pur ammantandosi di buonismo ipocrita esso rispetta soltanto le ragioni della forza.

 

[1] Le dichiarate necessità e urgenza dell’intervento normativo consistono – per il reddito-bandiera dei 5stelle – nel “prevedere una misura di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale volta a garantire il diritto al lavoro e a favorire il diritto all’informazione, all’istruzione, alla formazione, alla cultura mediante politiche finalizzate al sostegno economico e all’inserimento dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro” e – per quota 100 – nel “dare attuazione a interventi in materia pensionistica finalizzati all’introduzione di ulteriori modalità di pensionamento anticipato e misure per incentivare l’assunzione di lavoratori giovani”.

[2] https://www.pensionioggi.it/download/decreto-quota-100.pdf

[3] Idem dicasi per Forza Italia, che perlomeno non occulta la propria identità di centrodestra, e di cui il Partito Democratico è oramai una brutta copia.

[4] A me tutto sommato cari, dal momento che ho letto Oblomov…

[5] Oltre che inderogabile da parte del legislatore regionale, rientrando tra i LEP (livelli essenziali delle prestazioni) che l’articolo 117, 1° comma, lett. m) assegna alla competenza esclusiva dello Stato.

[6] Nella versione spacciata per “definitiva” il 18 gennaio bastavano due anni di meno, cioè 65.

[7] Che del governo impersona l’anima di destra: si vedano le recenti dichiarazioni contro il Presidente Maduro, grondanti servilismo nei confronti del padrone americano.

[8] Nella prima stesura c.d. definitiva ci si era persino dimenticati che, al di sopra di una certa soglia, il Rdc rileva ai fini IRPEF; nell’ultima leggiamo la seguente, opportuna integrazione all’art. 3, co. 4: “Il beneficio economico di cui al comma 1 è esente dal pagamento dell’IRPEF ai sensi dell’articolo 34, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 601.”

[9] Questa mia considerazione potrebbe riuscire sgradita a certa sinistra astrattamente egualitaria o parere a certuni una pretesa eccessiva: c’è crisi, bisogna accontentarsi…? Rispondo che una Repubblica democratica fondata sul lavoro ha il dovere di salvaguardare la dignità di ogni singolo lavoratore, e lo compie solamente se valorizza i talenti e le legittime aspirazioni di ciascuno.

[10] Il bonus locazione è dunque compreso!

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Fonte foto: Guida Fisco (da Google)

12 commenti per “Reddito di cittadinanza: dalle mirabolanti promesse al varo di un sussidio “bifronte”

  1. Giovanni
    26 gennaio 2019 at 18:11


    1) lavoratori autonomi, che – senza mai davvero conoscere la miseria – hanno semplicemente fatto scelte contributive di corto respiro

    2) Reputo assennata e opportuna la decisione di far prestare ai percettori del Rdc fino a 8 ore di lavoro settimanale a beneficio dei Comuni di residenza

    3) lo strumento della carta Rdc prepagata

    4) l “cittadino” sarà obbligato a spendere l’intero reddito – e questo permetterà l’accesso al consumo

    (fin qui Fragiacomo)

    Mettere le tre cose precedenti fra le virtù mi pare davvero eccessivo. Se il lavoratore autonomo di trova nell’anzianità a rientrare nei criteri di povertà estrema stringenti previsti da questa misura è un povero come gli altri, questa precisazione moralistica che Fragiacomo sente l’esigenza di fare è solamente squallida, te lo dice uno che è lavoratore dipendente da più generazioni. Per la (2) un tempo si sarebbe combattuta l’idea di far lavorare le persone al di fuori di un contratto collettivo adesso invece è una cosa positiva, ha ragione Marco Rizzo al riguardo quando lo chiama sfruttamento. La (3) e (4) poi sono proprio oscene, non solo non gli danno soldi contanti ma una carta perfettamente tracciabile e che li rende riconoscibili, ma anche l’obbligo di spendere. Che un “obbligo” addirittura “permette” mi pare poi un controsenso, avrebbero pure potuto accedere ai consumi senza l’obbligo, cosìè che permette l’obbligo non si capisce.

    E tutte queste sarebbero da annoverare fra le cose positive?

    In realtà molte delle cose negative servono proprio ad intrappolare le forze sociali nella solita battaglia gradualista tesa a diminuirne le asprezze, trappola nella quale Fragiacomo è già caduto.

    Che la reazione delle parti avverse sia addirittura un referendum contro questa misura è la grottesca reazione che di forza politiche che nutrono da sempre un odio sociale per i poveri ma non rende questa misura accettabile neppure tatticamente. Non aggiungo altro avendo già commentato estesamente riguardo ai criteri di povertà e sull’isee come cavalli di troia.

    Da quello che leggo in giro però c’è una sola conclusione possibile: non c’è più nessuna speranza.

    • Giovanni
      26 gennaio 2019 at 18:14

      “lavoratore dipendente da più generazioni”

      Ma attualmente disoccupato (e pure altamente formato, con buona pace del Fragiacomo che vede solo sofferenze fra i poco formati), prima che qualcuno si metta a far commenti strani.

    • Fabrizio Marchi
      27 gennaio 2019 at 4:32

      Francamente sono io che trovo squallido il tuo commento, Giovanni, proprio tu che sei sempre molto equilibrato. Ti dico la verità, proprio perché frequenti da tempo questo sito, ho pubblicato il tuo commento senza leggerlo. Se lo avessi letto non lo avrei pubblicato. Perché definire “squallide” le posizioni di Norberto Fragiacomo è del tutto gratuito, privo di ogni fondamento e offensivo.
      Ha pienamente ragione Norberto nel non volerti rispondere. Si può condividere in toto, poco o per nulla, ma il suo articolo è estremamente dettagliato e puntuale (e per quanto mi riguarda anche condivisibile). E in ogni caso, come ripeto, non c’è nessuna ragione per definirlo squallido…
      Ti invito quindi , caldamente, a scusarti con lui e anche con tutti noi.
      Ammettere i propri errori è un segno di forza.

      • Giovanni
        27 gennaio 2019 at 11:02

        Fai come ti pare. Trova pure tu un aggettivo adatto a chi fa i conti tasca ad un qualcuno che caduto in povertà come sta facendo lui ed accettando di fatto il lavoro interinale come un meno peggio da poter migliorare dall’interno.

        Forse ho sbagliato a frequentare a lungo questo sito.

        • Giovanni
          27 gennaio 2019 at 11:21

          Se preferisci puoi sostituire il periodo “solamente squallida” con la parola “semplicemente inaccettabile”. Il senso resta uguale.

          • Fabrizio Marchi
            27 gennaio 2019 at 13:52

            Converrai che “inaccettabile” non è “squallido”.
            Nessuno di quelli che pubblica articoli qui è un “ratto nemico del popolo da deportare in un gulag o da additare al pubblico disprezzo”, quindi anche il nostro modo di confrontarci e di relazionarci deve essere appropriato. Ripeto, l’articolo di Norberto può essere condiviso o meno ma definirlo “squallido” è appunto inaccettabile…
            E sono sicuro che se ci rifletti sei d’accordo anche tu…

  2. Norberto
    26 gennaio 2019 at 21:05

    Le obiezioni sono sempre gradite, se fondate ed espresse in tono urbano: queste a parer mio non lo sono, come testimoniano parole quali squallore ecc. Su un tema come questo andrebbe aperto un dibattito, ma l’avvio è deprimente, davvero. Si può non essere d’accordo con me, ma bisognerebbe rispettare chi ha preso in mano un testo e si è sforzato di interpretarlo – e il rispetto non è condivisione.

  3. Filippo
    27 gennaio 2019 at 16:17

    “Da ultimo lo strumento della carta Rdc prepagata, se non innovativo, appare coerente con la logica keynesiana che ispira la misura: vista l’impossibilità oggettiva di risparmiare (il credito rimasto a fine mese va infatti perduto), il “cittadino” sarà obbligato a spendere l’intero reddito – e questo permetterà l’accesso al consumo da parte di fasce popolari che, in precedenza, ne erano sostanzialmente escluse. ”
    Trovo che questo aspetto evidenzi invece la logica neo-liberista che ispira la misura, Intanto perchè ancora una volta i fornitori del servizio saranno le banche/poste (che uno può anche storgere il naso e fregarsene), poi perchè non capisco proprio dal punto di vista ideologico che interesse dovrebbe avere il povero ad accedere al consumo.Si, ovvio, se non mangio dovrò pur consumare per mangiare, questo è banale. Ma lo spendere l’intero “reddito” è molto più utile per sostenere il sistema (che ricordiamolo si base esclusivamente su produttività e consumo, anche delle fasce sociali che non possono permetterselo). Piccolo esempio: per quale motivo a me, povero, dovrebbe essere preclusa la possibilità di mettermi da parte due spiccioli per quando il reddito scadrà, o per situazioni di emergenza? La risposta per me è semplice, al sistema non interessa la mia situazione, ma solo che io continui a consumare NONOSTANTE la mia condizione.
    Altro aspetto: posso prelevare solo 100€ al mese in contanti, e questo ancora va nella direzione della società senza contante tanto auspicata dai padroni del vapore (provate a chiedere ad una persona normale se pensa che eliminando il contante si possa eliminare la corruzione, questo dovrebbe darvi una misura della situazione e del “disegno”), di chiara matrice finanziaria, e quindi neoliberista.
    In sostanza è proprio questo per me uno degli aspetti più gravi sul lungo periodo di questo provvedimento. Lo vedo come un test: come reagisce il popolo ad un assistenzialismo che in realtà è sostegno ad un sistema che non deve essere cambiato? Come reagisce alla spesa imposta, free cash, e obbligata? Se reagisce bene il futuro in cui le macchine lavorano e noi saremo costretti al consumo obbligato per vivere ( e non solo dei beni primari, sia chiaro)sarà più semplice da raggiungere.
    Saluti
    Ps, ci sono anche altri problemi, sempre legati al neoliberismo: disponibilità al trasferimento su lunghe distanze, a lavori socialmente utili che potrebbero invece essere non il requisito per avere assistenza, ma una vera e propria forma di lavoro. Un po come le scuole superiori che forniscono “manodopera gratuita” per fare da guida turistica, rubando di fatto “clienti” a chi con questo lavoro ci campa.

    • gino
      27 gennaio 2019 at 20:59

      le tue posizioni mi sembrano non vetero-… bensi´archeo-.
      1) se metti soldi da parte allora non sei esattamente povero, quindi il rdc non lo meriti, o non interamente
      2) tu sei povero e non vuoi rdc perché in finale sostiene il sistema bruttocattivo? non ti iscrivi al programma. credo che gli altri poveri non la pensino come te

      • Filippo
        28 gennaio 2019 at 11:01

        Io infatti non mi iscriverò al programma, per libera scelta, e a mio scapito.
        Ma qui non si parla di me, si parla della popolazione, e del sistema.
        Per quanto riguarda la prima domanda che domanda è mi scusi: io avrei diritto al RDC anche se non fossi un povero in canna, anche se fossi un semplice cittadino con necessità di un aiuto da parte dello stato. E comunque era solo un esempio, perchè precludermi la possibilità di poter accumulare due spiccioli o comunque gestire un aiuto che lo stato mi garantisce come diritto (e per il quale PAGO in termini di tassazione, di corsi di formazione e lavori socialmente utili)? Io ci vedo solo una risposta

  4. Alessandro
    28 gennaio 2019 at 12:40

    L’articolo è assai valido, dettagliato ed equilibrato. C’è un punto che però non è sato affrontato e che spiega la “svolta destrorsa” del reddito, ossia il fatto che il provvedimento non ha ricevuto nè in partenza nè durante il dibattito che lo ha portato a definizione nessun sostegno a sinistra. Ciò è dovuto essenzialmente al fatto che a sinistra ci si è sentiti scavalcati dal provvedimento( un’area politica che ha sempre propagandato la necessità d’intervenire a beneficio degli ultimi non poteva tollerare che un partito di “incompetenti” andasse in quella direzione sostenzialmente erodendogli il bacino elettorale) e anzi ha spinto perchè il provvedimento avesse un’anima sempre più “di destra” invece di offrire una sponda ai 5S sul tema, anteponendo quindi i propri interessi particolari, di bottega, a quelli dei più bisognosi.
    D’altronde ciò che è in ballo con questo provvedimento non è cosa da poco: il suo fallimento decreterebbe l’inesorabile declino del movimento fondato da Grillo, un suo successo provocherebbe non solo un suo rafforzamento, ma addirittura avrebbe come ricaduta l’ulteriore marginalizzazione dal dibattito politico della “sinistra”, intesa come liberal e radical. Inoltre, un successo del provvedimento dimostrerebbe che il paradigma neoliberista, da cui comunque questo provvedimento inizia a prendere le distanze, non è un destino a cui è impossibile sottrarsi ( il provvedimento s’inscrive in uno scenario chiaramente capitalistico, ma non neoliberista in senso stretto; solo quanto scritto sopra a propostito della sinistra può spingere a contestare questo).
    Ora, dal momento che non ritengo ci sia da aspettarsi molto da codesta sinistra, mi auguro che il provvedimento abbia successo, così da gettare le basi per un dibattito politico che non sia del tutto incentrato sul mantra neoliberista, come invece è accaduto dalla caduta del muro in poi.

  5. Norberto
    29 gennaio 2019 at 20:14

    Malgrado gli eccessi polemici che ravviso in taluni interventi mi rincuora che sul Rdc si sia aperto un vivace dibattito: a tre giorni dalla pubblicazione dell’articolo leggo già una decina di commenti. Il tema (quello della crescente povertà) è insomma sentito, perché evidentemente rilevante: è questa la ragione per cui ho esaminato e chiosato il testo del decreto, senza manco la certezza di avere tra le mani quello “definitivo”.

    Non voglio tornare sull’argomento, ma solamente fare una precisazione: come ho scritto (mi pare) con sufficiente chiarezza quella di prevedere un reddito di cittadinanza – anche fatto assai meglio di quello esaminato – non è per il sottoscritto la soluzione ottimale. In fondo ho parlato di “paternalismo”, e non è certo questo un complimento. Io avrei optato per un piano straordinario di assunzioni, magari nella PA (che non è una “mangiatoia”: sono anzitutto ospedali, scuole, comuni, cioè chi rende basilari servizi al cittadino… servizi sempre più rarefatti), ma non è il sottoscritto a decidere le politiche nazionali.

    Quanto alle valutazioni positive che mi vengono rimproverate tralascio qualche nota accusatoria di poco rilievo e rimando al mio testo: ho affermato che l’intervento normativo rientra comunque in una logica di sistema, e che su questo presupposto va valutato. Che la carta prepagata sia o meno di mio gusto poco importa: se lo scopo dichiarato era rilanciare i consumi in un’ottica keynesiana (mica socialista!) la carta Rdc così come concepita è più idonea a raggiungere l’obiettivo di un’elargizione mensile di denaro, perché non incentiva il risparmio. Tutto qua: che poi le risorse stanziate siano insufficienti è un altro discorso, su cui mi sono brevemente soffermato.

    L’accusa di “esaltare il consumo” è poi abbastanza bizzarra (basta leggere miei scritti precedenti per rendersene conto): una cosa è il consumismo capitalista che invoglia ad effettuare acquisti inutili e superflui, altro è il consumo di sussistenza, che va garantito a tutti. Indipendentemente dall’ideologia professata, tutti abbiamo bisogno di mangiare, bere ecc.

    E questo è quanto.

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