Schiavismo libertario

Si fa un gran parlare dei valori occidentali. Della loro difesa di fronte all’avanzare delle autarchie. Questo chiacchiericcio assordante dimentica la sostanza della democrazia. Si prenda a modello la foto ormai virale della manager di Twitter, raggomitolata in un sacco a pelo intenta a dormire sul pavimento del proprio ufficio. E in particolare si ragioni sui commenti entusiasti del pubblico quando ha scoperto le ragioni di quel ristoro. “Si fa di tutto per rispettare una scadenza”.
La superclass manageriale si è dotata di un universo simbolico molto più penetrante rispetto a quello dei vecchi padroncini industriali. I codici di comportamento richiesti per l’impiegabilità non rispondono a logiche di manifesta burocratizzazione relazionale. Riproduzione autentica della subordinazione militare. Quella gerarchizzazione è capovolta dall’immaginario della scelta. Della libera scelta. Ogni individuo è proprietario di un capitale sociale che rivende nel mercato. E lo impreziosisce nella contrattazione privata.
Questa finzione scenica ha permesso di ridefinire il concetto di libertà. Sono scomparsi dal contesto di quel principio due postulati essenziali in grado di concatenarlo con la democrazia. La libertà dalla paura e dal bisogno. La libertà si riduce allo sviluppo spasmodico della propria personalità all’interno di logiche concorrenziali. Punto d’incontro tra merito e darwinismo. Sino alle conseguenze più parossistiche dell’auto-sfruttamento. Nascosto dalla rappresentazione della libera iniziativa personale, scintilla creativa che abita i cuori dei meritevoli.
Questa mentalità, nel suo raggiro libertario, ha ammaestrato una determinata classe sociale. Non maggioritaria ma capace di spargere egemonia. Perché detentrice delle chiavi discorsive sulla pedagogia del buon cittadino. Formatasi nei corsi inanimati delle facoltà universitarie ormai sopraffatte dal modello utilitaristico della cultura occupa quello spazio un tempo monopolizzato dal ceto medio riflessivo. Capace allora di sviluppare un senso comune capitalista reazionario, oggi rovesciato in proponimenti progressisti. L’abnegazione lavorativa è costruzione di sé evoluzionistica. Chi perde potrà trovare sempre ristoro nella psicologia medicalizzata. Per poi rigenerarsi nella confessione della propria inadeguatezza.
Ma se si dovesse ammettere, in un impeto di arresa attrazione per un’inconfessabile verità, di vivere in una società capitalista, ecco che cadono d’incanto tutti i presupposti narrativi sulla democrazia. A seguito di quella presa di coscienza dovremmo accettare la relazione fondante della dialettica democratica nel sistema del massimo profitto privato. Quella tra capitale e lavoro. Che non può sopravvivere in termini di giustizia se non corredata dalla concretezza del conflitto. Qualora, al contrario, l’emancipazione fosse affidata alla caparbietà del singolo, immiserito a mistico resiliente, ecco che l’affabulazione democratica scivolerebbe nello schiavismo. Libertario sì. Ma pur sempre schiavismo.

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