Sinistra è conservazione?

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E’ noto che la sinistra, spiazzata nei suoi riferimenti ideologici dalla crisi, pressoché contemporanea, del comunismo e della socialdemocrazia classica, abbia maturato un rapporto tormentato e sostanzialmente insoluto rispetto alla modernità del pensiero unico che si è imposta negli ultimi trent’anni. Anche semanticamente, termini come “riformismo” e “progressismo”, che sembravano essere nel DNA stesso della sinistra, sono divenuti il grimaldello con il quale l’avversario storico ha smantellato il capitalismo welfaristico dei Trenta Gloriosi.

Questo spinge molti a riflettere sul nesso fra la ricostruzione/riaffermazione dei valori e del radicamento sociale della sinistra in termini di difesa, o possibilmente ricostituzione, del sistema di tutele e di diritti che, seppur in forte destrutturazione già a partire dalla metà degli anni Ottanta nei Paesi anglosassoni(e nel nostro Paese in realtà sin dai primi anni Ottanta, con il regresso e l’indebolimento del movimento sindacale conseguente allo shock petrolifero del 1980) è sprofondato definitivamente con il riordino neoliberista susseguente alla crisi del 2008.

Il ragionamento più definito in tal senso l’ho ascoltato, recentissimamente, in un convegno cui ho partecipato. Il succo è questo: il processo di ristrutturazione neoliberista degli ultimi trent’anni ha devastato i riferimenti sociali tradizionali cui la sinistra si rivolgeva. La classe operaia ha perso il suo ruolo propulsivo, irretita da nuove organizzazioni del lavoro che da un lato la precarizzano, riducendo il legame di classe con i mezzi di produzione, e dall’altro ne spezzano l’unitarietà, ed infine le conferiscono valori tipici della borghesia (i criteri del kai zen e del toyotismo, come anche la variabilizzazione del salario legata alla compartecipazione agli utili aziendali, spesso presente nelle grandi imprese di fatto, producono collaborazione di classe ed introiezione di valori come la competizione, l’efficienza, la partecipazione attiva al miglioramento continuo).

D’altro lato, il ceto medio impiegatizio sprofonda nella precarietà e nell’impoverimento, dividendosi fra mito dell’autoimprenditorialità conferitogli dal capitalismo e rancore politicamente miope tipico del sottoproletariato (finendo in pasto ai populismi). Rimane solo un piccolo segmento di classe media altamente istruita e non di rado professionalmente fortemente integrata, e quindi di fatto pienamente inserita dentro i meccanismi di riordino del capitalismo, ad esprimere una adesione ad un concetto “soft” di sinistra lungo le stesse direttrici ideologiche del capitalismo stesso. Crisi ambientale e sociale vengono quindi declinate come necessità di “sviluppo ecosostenibile” e “diritti individuali e civili”, il pacifismo e la tradizione socialista di cooperazione internazionale e di solidarietà fra popoli finiscono per puntellare la globalizzazione neoliberista in nome di una utopistica ed innocua richiesta di “governo” della mondializzazione, priva di strumenti per essere esercitata. Il popolo che in Italia dà il 2-3% di consenso alle microscopiche organizzazioni di sinistra.

Quindi, sostengono i fautori della sinistra come “conservazione” (e riporto qui esattamente i termini con i quali l’ho ascoltato al convegno di cui sopra) i riferimenti sociali della sinistra sono macerie. Residui. Proprio così sono stati definiti. Residui. E la sinistra avrebbe il ruolo, diciamo così infermieristico, di prendersi cura di questi residui. Come una crocerossina che accudisce i soldati mutilati sul campo di battaglia. Offrendo loro una prospettiva di difesa di quel poco che rimane delle costruzioni sociali, politiche ed istituzionali del Ventesimo secolo, e un sogno in cui sognare una possibile, chissà mai quando, ricostruzione di ciò che è stato distrutto. Insomma, occorre che la sinistra sia “conservatrice”, in contrasto al “riformismo” neoliberista. Riecheggia in queste posizioni una profonda, triste, corda: la corda della sconfitta storica, di una malinconica presa d’atto di un tempo che è passato, per cui si può tutt’al più cercare di puntellarlo, mantenendo le macerie in stato di conservazione accettabile, mettendo le impalcature sui pochi muri ancora in piedi, peraltro muri separati l’uno dall’altro.

E’ interessante notare come il conservatorismo sia un atteggiamento che tende a risorgere proprio sui crinali di grandi cambiamenti storici. Il termine “conservatorismo” fu ideato da  François de Chateaubriand, nel 1818, ovvero in piena restaurazione dell’ordine pre-rivoluzionario conseguente alla sconfitta di Napoleone ed al Congresso di Vienna. Un tentativo neo-feudale che sarà spazzato via in pochi anni dall’affermazione definitiva del nuovo ordine borghese e liberale emerso dalla Rivoluzione industriale. Il conservatorismo di Churchill si sviluppa nella fase in cui l’imperialismo coloniale della prima metà del Novecento inizia a sgretolarsi.

Con questo non intendo dire che non occorra puntellare i muri ancora in piedi, che non occorra difendere ciò che ancora resiste. Evidentemente, il cambiamento delle forme sociali del capitalismo non modifica in niente i valori di fondo, di eguaglianza, solidarietà, pacifismo, giustizia e liberazione (non ho detto libertà, ho detto liberazione, i due concetti sono diversi) che sono alla base del pensiero di sinistra. Ed è quindi evidente che, quando tali valori sono minacciati dal “riformismo” borghese, vada fatta una battaglia assoluta di difesa di questi valori. Come nel caso, attuale, del referendum costituzionale, in cui votare No significa tutelare i valori profondi che la sinistra deve custodire, per non diventare vuoto social-liberismo.

Intendo dire che una retorica più vicina ad una Sovrintendenza per i beni archeologici che ad un partito politico che ha l’ambizione di inserirsi attivamente dentro la società è insufficiente. Non basta puntellare i muri, questa è solo la condizione necessaria. Bisogna costruire la casa. La casa si costruisce con i materiali che la realtà, in un dato momento storico, fornisce. Certe miniere di materiali da costruzione sono esaurite. Altre si aprono, ed occorre vedere i segnali deboli, inizialmente poco percepibili, della loro apertura. Ed usare la nostra storia ed i nostri riferimenti culturali, maturati per oltre due secoli, per valorizzare le nuove miniere.

In altri termini, più espliciti: non si può eludere una fase faticosissima di analisi delle condizioni di classe e delle possibili evoluzioni di tali condizioni, cavandosela a buon mercato con la difesa dei “residui” della fase oramai chiusa del capitalismo welfaristico e socialdemocratico. Non parlo nemmeno di coloro che se la cavano ancor più a buon mercato, ipotizzando un fronte unico fra mondo del lavoro e sottoproletariato, ignorando l’elementare lezione marxista della “classe propulsiva” ovvero della classe centrale che con la sua azione trascina dietro anche le altre, irretite da scarsa cultura politica o da egemonia culturale borghese. Occorre piegarsi a guardare dove stia rinascendo una classe emarginata emergente. Che evidentemente inizialmente appare un fenomeno limitato, piccolo. Ma che cresce, fino a diventare modello per la ristrutturazione dell’intero mondo del lavoro. Guardate che il proletariato industriale, che è stato la base sociale propulsiva della sinistra del Novecento, non è mica disceso dall’alto dei cieli già formato e numericamente e culturalmente egemone. Marx lo spiega benissimo nel capitolo 24 del Capitale: la formazione del proletariato industriale inglese inizia solo nei primi anni del Sedicesimo secolo, con la progressiva usurpazione dei terreni dei piccoli contadini indipendenti, e con la rivoluzione agricola. Un processo che dura più di un secolo, prima di avere una classe operaia in senso capitalistico di rilevanti dimensioni, in grado di essere la base per una sinistra egemonica.

Noi oggi ci troviamo in una fase di ristrutturazione del capitalismo, iniziata da poco meno di cinquant’anni, sotto diverse spinte: una spinta geopolitica, data dall’irrompere sullo scenario mondiale di economie emergenti sorte dalla decolonizzazione e dall’indebolimento dell’ordine mondiale di USA e URSS, e poi dall’impossibilità per gli USA di divenire l’unico custode dell’ordine mondiale dopo la caduta del muro, con l’emergere di uno scenario multipolare, che mette in crisi i tradizionali modelli keynesiani ad economia chiusa ma anche la concezione liberale occidentale da “esportazione di democrazia” resa impossibile dalla risorgenza di tradizionalismi etnici e religiosi, una spinta economica, data dalla fine di Bretton Woods e dal parallelo irrompere di un capitalismo sempre più finanziarizzato, da una spinta tecnologica, in cui la rivoluzione informatica degli anni Ottanta ha fatto da battistrada per una più ampia rivoluzione industriale (che passa oggi sotto il nome di Industria 4.0) fatta della convergenza di piattaforme tecnologiche come l’informatica, l’elettronica, le comunicazioni, i trasporti, l’aerospaziale, la robotica, l’intelligenza artificiale, i nuovi materiali, la micromeccanica, la microbiologia e la genetica.

Questo gigantesco “remue-ménage” sta producendo fenomeni sociali enormi: liquefazione dei blocchi sociali tradizionali, nuove forme di organizzazione produttiva che trovano nel risorto neoliberismo ottocentesco una ideale sovrastruttura ideologica, nuovi assetti istituzionali che, sul modello russo, o quello ungherese, riducono gli spazi della democrazia e del parlamentarismo in nome di un semi-autoritarismo carismatico, e così via. Nel mondo del lavoro, dove sussiste l’analisi di classe, tali cambiamenti producono una destrutturazione complessiva dei riferimenti del lavoro ottocentesco. Si precarizzano i rapporti contrattuali, si liquefa il concetto di orario di lavoro e si cancella la differenza fra luogo di lavoro e luogo di vita (si veda anche la recente introduzione del “lavoro smart” nell’ordinamento giuslavoristico italiano) si sposta il valore aggiunto dal lavoro manuale e routinario (che in un futuro non lontano sarà svolto da macchine “istruite e cognitive”, perché le macchine “intelligenti” nel senso umano non esisteranno mai, con buona pace degli apologeti del pensiero cibernetico) a quello basato sulla produzione e manipolazione di informazioni e conoscenze. Si tratta di fenomeni che riguardano ancora una minoranza di lavoratori (neanche troppo piccola, secondo uno studio Assolombarda il lavoro cognitivo, ad esempio, coinvolge circa il 42% degli addetti nell’economia lombarda), ma che si estendono sempre più ad una velocità impressionante, che sono maggioritari fra le nuove leve del mercato del lavoro, cioè fra i giovani, e che, francamente, la sinistra non ha la forza di impedire. Con enorme sforzo e con un consenso molto più ampio di quello che si ha oggi, tali fenomeni si possono tutt’al più rallentare. Ma le condizioni attuali della sinistra, non solo italiana, difficilmente possono anche solo rallentare il processo.

Allora, va benissimo puntellare i muri, votiamo in massa No al referendum, lottiamo per contrastare le riforme del mercato del lavoro, ma precarizzazione, superamento della barriera fra tempi e luoghi di vita e di lavoro, alienazione cognitiva e creativa del lavoro sono i tratti tipici di una classe emergente, una classe che con tutti i Jobs Act e gli Hartz del mondo sta divenendo un paradigma per l’intero mondo del lavoro.

Una classe di invisibili nella rappresentanza politico-sindacale. Perché sono loro a fornire il consenso ai populismi grillini, per reazione all’assenza di una rappresentanza nei partiti e nei sindacati tradizionali.

Una classe cui viene negata un idea di futuro, proprio come per gli operai delle filature inglesi ottocentesche.

Classe abbandonata ad una cultura dell’autoimprenditorialità e della meritocrazia per un motivo molto semplice: abbandonata dalla sinistra e dal sindacato, è stata alimentata spiritualmente dal capitalismo. Ma proprio l’esempio di Sanders, che i suoi consensi li ottiene soprattutto dai millennials, tipicamente invasi in massa da queste nuove forme di lavoro, offrendo loro ciò che tradizionalmente la sinistra offre (sanità pubblica, casa, sicurezza del reddito) senza omogeneizzarli all’antico proletariato, ma anzi valorizzandone le specificità (la richiesta di autorealizzazione individuale, l’esigenza di trovare forme e luoghi di espressione della propria personalità) ci dice che è lì che dobbiamo andare.

Questa classe emergente la chiamo precariato del general intellect, si può chiamare precariato cognitivo, la possiamo chiamare anche sarchiapone. L’importante è capire che non è semplicisticamente un residuo del crollo dei ceti medi. E’ qualcosa di nuovo, che, se ascoltato, avanza una domanda sociale assimilabile all’offerta tradizionale di sinistra: vogliono stabilità reddituale fra un incarico e l’altro, vogliono ferie e congedi parentali, vogliono la pensione che sanno di non poter avere, vogliono casa ed assistenza sanitaria, e scuola. Un qualcosa che vuole cioè un nuovo welfare pubblico su sua dimensione (come ad esempio il reddito di inserimento/reinserimento), ma che avanza anche istanze di merito, di impegno professionale e civile, di realizzazione personale, che sarebbe sciocco ignorare o disprezzare. In fondo, il sentimento anti-Kasta non è altro che la degenerazione, utile per i poteri forti che hanno bisogno di fare ricambio di classi dirigenti, di un desiderio di sbloccare, per i più bravi, un meccanismo sociale che, paradossalmente, la retorica liberista dell’individuo nonfa altro che cristallizzare.

Mutatis mutandis, un discorso analogo vale per la battaglia referendaria. Siamo poi così sicuri che basti il No per reinsediarci nei presidi della società? Che non serva anche, dopo il No, una idea di riforma costituzionale di sinistra, basata sul vincolo proporzionalistico e quindi sulla connessa possibilità di Governi di minoranza e di sfiducia costruttiva, sulla costituzionalizzazione dell’intoccabilità dei beni comuni o della cogestione aziendale, oppure sulla costituzionalizzazione del principio del deficit spending nelle fasi recessive?

Stiamo attenti. O stiamo nel mondo con una nostra proposta che guarda alle sue storture reali e propone nuove soluzioni, o ci chiudiamo in modo crepuscolare nel mondo che ci piacerebbe tenere in vita. Facendo la fine dei Sioux in riserva, cui la possibilità di evadere con i fumi del whisky non viene mai negata. E chi scrive ha 46 anni, non è giovane e nemmeno giovanilista (anzi, credo che i giovani attuali siano pure piuttosto mediocri, in media).

Fonte: http://bentornatabandierarossa.blogspot.it/2016/11/sinistra-e-conservazione-di-riccardo.html

2 commenti per “Sinistra è conservazione?

  1. Alessandro
    16 novembre 2016 at 16:32

    Articolo di grande pregio.

    “Classe abbandonata ad una cultura dell’autoimprenditorialità e della meritocrazia per un motivo molto semplice: abbandonata dalla sinistra e dal sindacato, è stata alimentata spiritualmente dal capitalismo.”

    Circa una decina di anni fa partecipai a un corso breve di formazione destinato a neolaureati delle più svariate discipline. A parlare del mondo del lavoro una dirigente di spicco di un’importante azienda: una celebrazione del nuovo lavoratore senza diritti, del tutto piegato al volere del “padrone”. Niente di strano, ciò che mi stupì furono gli applausi scroscianti dell’uditorio al termine della relazione della dirigente e la fila al termine del corso per cercare d’ingraziarsela. Stiamo parlando di giovani acculturati, di varia provenienza sociale, figli anche di operai, ma già completamente “alimentati dal capitalismo”.
    La proposta della Sinistra è debole, una minestrina appena più abbondante di quella offerta dai “padroni del vapore”, e per di più comunicata male. D’altronde una sinistra imbevuta di polticamente corretto, che ha sostituito l’operaio con la donna in carriera da sostenere in qualsiasi modo, non può ovviamente fare molto di più e forse è giusto così.

  2. armando
    17 novembre 2016 at 15:06

    articolo senza dubbio interessante e stimolante. Provo a fare qualche osservazione per alimentare la discussione.
    La nuova “classe” emarginata che emerge dalli processi di ristrutturazione capitalistica è in sé profondamente diversa dalla vecchia classe operaia. L’articolo lo evidenzia bene: ” Si precarizzano i rapporti contrattuali, si liquefa il concetto di orario di lavoro e si cancella la differenza fra luogo di lavoro e luogo di vita (si veda anche la recente introduzione del “lavoro smart” nell’ordinamento giuslavoristico italiano) si sposta il valore aggiunto dal lavoro manuale e routinario (che in un futuro non lontano sarà svolto da macchine “istruite e cognitive”, perché le macchine “intelligenti” nel senso umano non esisteranno mai, con buona pace degli apologeti del pensiero cibernetico) a quello basato sulla produzione e manipolazione di informazioni e conoscenze” .
    – La vecchia classe operaia aveva la fabbrica come luogo fisico di aggregazione e organizzazione, la nuova classe emarginata no, e non è poca cosa, perché non bastano le istanze elencate per farne una classe e soprattutto “la” classe propulsiva per eccellenza. Quelle istanze sono una necessità, ma anche il vecchio sottoproletariato, anch’esso parcellizzato e segmentato, aveva le sue senza per questo potersi porre come momento propulsore. E non per caso è stato spesso preda di fascismi e populismi. come ora la nuova coi grillini etc. etc.
    Ne discende che, secondo me, non è esatto imputare alla sinistra (che di imputazioni vere ne ha un visibilio ed anche di più) di non riuscire a porsi come elemento aggregante di un agglomerato sociale che non può definirsi classe vera e propria alla marxiana maniera. Voglio dire che il tramonto delle rivoluzioni proletarie novecentesche si fonda su un dato oggettivo e non soggettivo (sbagli, carenze o tradimenti della sx), dovuto al processo di ristrutturazione capitalistica.
    – negli anni sessanta l’operaismo italiano tentò una lettura di Marx indubbiamente stimolante. Il capitalismo non ha nessuna contraddizione interna insuperabile; l’unica contraddizione insuperabile e che egli stesso produce (era questa la tesi e mi scuso se la riferisco malamente) era la classe operaia. Quindi era una contraddizione politica, non economica. La classe, conquistando l’assoluta autonomia politica, quindi rifiutando ogni problema di compatibilità generale col sistema, e organizzandosi in fabbrica, sarebbe stata l’unico vero agente rivoluzionario in quanto unica contraddizione insuperabile. Non discuto qui se quell’analisi era completa o corretta: a mio avviso aveva il difetto di sfociare, sia pur non volendolo, nell’economicismo, e tramite la parola d’ordine di “rifiuto del lavoro” non coniugata con una weltanschaung alternativa a quella del capitale, era destinata ad essere da questa fagocitata (si vedano gli esisti e il significato dei così detti “espropri proletari”). Tuttavia aveva il pregio, sostenendo che il capitale è capace di superare le sue contraddizioni interne, a porre all’ordine del giorno un, anzi “il ” problema cruciale. Lo risolveva, appunto, con l’autonomia operaia, ma ora che la classe operaia non c’è più (nei termini di allora), come la mettiamo? Non credo proprio che basti farsi alfieri di quelle, beninteso sacrosante, istanze dei nuovi ceti emarginati per risolvere il problema, che è epocale e interroga anche Marx.
    Sono d’accordo nel dire che siamo ancora agli albori di un’analisi soddisfacente del nuovo capitalismo. A me sembra ad esempio velleitario sostenere che la continua sostituzione di “lavoro vivo” con “lavoro morto” crea le condizioni oggettive di passaggio al “comunismo” (che sembra inteso come una sorta di bengodi) e che, per questo, occorre guardare con “favore” ai processi di ristrutturazione capitalistici (il Negri di Impero, etc).
    Dicevo che la questione interroga anche Marx perché mi sembra di poter dire che il suo materialismo storico da cui deriva la concezione del rapporto struttura/sovrastruttura mostri la corda. Forse, visto che non sono venute meno le contraddizioni generate dal capitalismo ma anzi si sono ampliate nella misura in cui è diventato “totale” ossia ha sussunto ogni aspetto della vita umana fino alla vita stessa, il bandolo della intricata matassa va cercato anche altrove, là dove il marxismo, anche quello niente affatto volgare o economicista di Gramsci, ha mai osato.

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