Tre errori prospettici: sinistra, destra e sinistra radicale

La reductio ad unum del panorama politico nazionale, questo magma indistinto portato a esempio della salute di cui ancora godrebbero le democrazie liberali, orgoglioso del proprio pluripartitismo fittizio, ha una genesi non solo riconducibile alla ramificazione dell’ideologia neoliberale che ha irradiato le proprie parole d’ordine in ogni terreno di discussione, ma anche collegabile a errori d’interpretazione da parte degli schieramenti politici sulla reale natura di quell’ideologia. La rivoluzione neoliberale è stata tanto dirompente da mutare sostanzialmente i connotati degli stati costituzionali i quali tendevano a governare società salariali e la conflittualità di classe attraverso una forte presenza dello Stato. In particolare.

 

La Sinistra

Il primo errore interpretativo lo commette la sinistra politica europea quando associa l’avvento del neoliberalismo a un ritorno di fiamma delle teorie care al liberalismo classico. L’equivoco nasce durante il governo Thatcher e la presidenza Regan. La celebre frase pronunciata dalla lady di ferro “la società non esiste”, le sue raccomandazioni sulla responsabilizzazione individuale, insomma l’idea che i diritti dovessero essere d’ora in poi meritati e che l’indigenza dipendesse in buona sostanza da colpe personali, hanno convinto l’opposizione di trovarsi di fronte a un rinnovamento della concezione ottocentesca sullo Stato Minimo.

 

La realizzazione politica delle teorie sviluppate dagli economisti austro-americani che egemonizzarono l’azione della destra determinò nella critica la convinzione illusoria di una riedizione dei dogmi imperanti nel periodo del liberalismo delle origini. Lo Stato non doveva intervenire nel campo economico poiché la consapevolezza degli agenti di mercato riconduceva – attraverso il pacificante equilibrio tra domanda e offerta – l’intero sistema sociale a una naturale giustizia e il mercato era un ordine naturale. Ma, nonostante qualcuno ancor’oggi finga di non capire, la teoria neoliberale aveva da tempo superato sia il dogma della naturalità del mercato sia la prospettiva di eguaglianza portata dall’equilibrio commerciale di cui lo Stato aveva il dovere di disinteressarsi. Era stata progettata una nuova visone del sistema mercantilistico, incentrata su due assi portanti.

 

La prima riguarda il motore del mercato, ormai riconducibile al principio di concorrenza e non all’equilibrio portato dall’azione di reciprocità degli agenti economici. La sfida competitiva rende il mercato in continua evoluzione e per osmosi anche l’essere umano progredisce rispettando quei meccanismi di funzionamento. La concorrenza quindi presuppone la diseguaglianza e un continuo disequilibrio tra chi vince la sfida concorrenziale e chi la perde. Cade quindi l’immagine del mercato del villaggio beato in trasposizione arcadica. La seconda poggia le basi su una ricostruzione grottesca della Realtà. Il mercato non è più un ordine naturale ma non si configura neanche come un ordine artificiale. Si disegna una terza via, quella dell’ordine spontaneo. L’individuo aderisce alla vita plasmata sul rischio d’impresa con un atto di volontà.

 

Ma la commistione tra il principio di concorrenza e della spontaneità della vita di mercato non permetteva allo Stato di lasciar andare l’economia per conto proprio. Occorreva un nuovo sistema preso in prestito dal comunitarismo. I governi dovranno intervenire minuziosamente sul mercato e sulla società, ma con compiti differenti da quelli di tipo keynesiano o socialdemocratico. In primo luogo elevando il principio di concorrenza a norma ultra-costituzionale. La legislazione doveva comporre un quadro immutabile, quindi sottratto alla dialettica politica, che ordinasse l’azione di qualsiasi ente, privato o pubblico, alla pratica concorrenziale. In secondo luogo doveva operare in maniera pedagogica nei confronti dell’individuo, per una sua “spontanea” adesione alle logiche d’impresa. Il nuovo interventismo liberale quindi appariva particolarmente invasivo poiché si prefigurava il compito di legiferare sulla condotta e sulla mentalità individuale.

 

La sinistra dalla metà degli anni ’80 in poi, a cominciare dai socialisti francesi per poi proseguire con i teorici della terza via blairiana, pensando di combattere in questo modo il vecchio laissez faire del liberalismo classico, non ha fatto altro che ingigantire i dispositivi di comando dell’ortodossia neoliberale e posto le basi per una sua costituzionalizzazione attraverso una pervicace azione statale. Con le legislazioni che hanno reso flessibile e mobile il lavoro, generose sugli incentivi alle varie forme di imprenditoria, desiderose di accattivare gli investimenti di capitali esteri, di adesione alla sovrastruttura europea perfettamente modellata sui programmi mercantilistici, il nuovo corso progressista ha rispettato alla lettera i proponimenti degli economisti o degli ideologi neoliberali con l’illusione di agire in loro contrapposizione.

 

Essenziale è stato il sodalizio con l’impostazione meritocratica della società e con la concezione della politica come buona amministrazione. Due gli snodi cruciali ai quali la sinistra europea ha dato manforte. Da un lato la verticalizzazione del sistema politico con l’abbattimento della centralità parlamentare o assembleare. Si è fortificata così l’idea che la dialettica politica non dovesse vertere sul conflitto capitale/lavoro ma semplicemente su una razionalizzazione economica e amministrativa – il pilota automatico insomma –  che ha reso ininfluenti i corpi intermedi. Dall’altro le riforme sul lavoro, sulle pensioni e sul welfare sono andate a toccare i pilastri sociali faticosamente conquistati grazie alle lotte delle classi popolari e alla conflittualità dei lavoratori. Perché il tutto fosse reso digeribile si è evocato uno spirito di comunanza europea per la costruzione di un mercato comune.

 

L’edificazione di un Leviatano della tecnica economica pronto a intervenire con minuziose legislazioni per imporre un modello di sviluppo a senso unico, incontrovertibile e non condizionabile dagli indirizzi politici, un recinto rigido nel quale solo certe opinioni avrebbero potuto trovare dignità di parola, un’etica d’impresa che assottigliasse la possibilità di organizzazione delle forze del lavoro, una spinta all’immedesimazione dell’individuo con i valori imprenditoriali e una dimensione esistenziale e sociale impostata sul debito e sulla colpa per il fallimento personale. La sinistra quindi con la sua terza via pensando di rinnovare la socialdemocrazia, per mitigare l’avanzata neoliberale, non ha fatto altro che istituzionalizzarla e renderla “opinione corrente” o “buona amministrazione”. Lasciando vivere formalmente le istituzioni della democrazia formale ma soppiantando la vita democratica sostanziale.

 

La Destra

Il secondo errore prospettico appartiene alla destra classica, oggi rinnovata in un contesto neopopulista, quindi a partiti o a movimenti che si richiamano a tradizioni conservatrici e nostalgiche o all’ondata di neo-tradizionalismo americano legato a doppio filo con le molteplici articolazioni del settarismo cristiano e puritano e con l’immagine dell’individualismo della frontiera, che eleva la libertà personale del piccolo proprietario a forma sacralizzata. Questa ondata poggia le sue basi culturali in un certo anticapitalismo di destra, da sempre refrattario tanto all’intervento dello Stato quanto all’espansione tirannica del grande capitale e della finanza, fenomeni da mettere in contrapposizione all’eticità del piccolo borgo composto da singoli produttori, unico baluardo rimasto a difesa della proprietà privata.

 

Il condimento di tale visione è ancorato a una enfatizzazione dei valori tradizionali – l’etica di Dio, Patria e Famiglia – e a una visione imperniata sul protezionismo economico. Ma contemporaneamente questo conservatorismo arcaico è strettamente connesso alla difesa della libertà individuale promossa dal libero mercato e dalla sua eticità. In questa connessione si forma il cortocircuito logico della destra contemporanea apparentemente critica nei confronti della società libero-scambista. Difatti mentre contesta alcune conseguenze del mondo ordinato dalla globalizzazione dei mercati ne approva la premessa logica e portante, la difesa del mercato e del sistema capitalista.

 

Anche in questo caso non si vuole cogliere la portata dell’ideologia neoliberale e il mutamento d’indirizzo culturale che ha impresso al capitalismo. Trapassata l’era della famiglia Buddenbrook, sono proprio i meccanismi di riproduzione del capitalismo a disgregare i contenuti del tradizionalismo conservatore, i valori della piccole comunità familistiche,  l’eticità del sogno individualista dei pionieri. La destra non vuole vedere che l’espansione illimitata del capitale, la sua versione finanziaria rappresenta la finalità ultima del capitalismo stesso. Sono quegli scopi a produrre pericoli economici per i piccoli produttori i quali si dovranno continuamente reinventare. Difatti il nuovo individuo educato a pane e libero mercato si compiace della società aperta nella quale l’uniformazione sociale si nutre dell’abbattimento di vincoli morali che ostacolano la completa mercificazione di beni, servizi e costumi, del relativismo culturale, di un mondo imperniato sulla dissoluzione dell’etica religiosa in quanto gli unici imperativi morali si dovranno basare sull’utilità di calcolo.

 

Si ricorda un capitalismo primordiale senza considerare che l’ideologia capitalista muta a seconda delle proprie convenienze di profitto. Non è un’ideologia rigida ma camaleontica poiché promuove i costumi sociali più utili, in quel determinato contesto storico, alla propria egemonia. La volontà di creare un mercato mondiale illimitato ha reso omogenea la morale del consumo a debito che ha soppiantato quella del risparmio; la concentrazione di potere nelle mani dei grandi monopoli privati e globali ha ridotto al lumicino la capacità di porre argini alla libera circolazione dei capitali o alla possibilità delle piccole comunità di contrapporre valori legati alla terra d’origine.

 

Per ovviare a questa contraddizione la nuova destra sposta le cause della dissoluzione dell’etica tradizionale nel campo del complotto, della macchinazione ordita da pochi privilegiati, definiti sempre “padroni del mondo”. Ma è un modo per non affrontare quello che è un vero e proprio collasso interpretativo. Il capitalismo da lei difeso produce l’annientamento dei valori a lei cari. Ai valori della terra, del ciclo della natura, del buon padre di famiglia si contrappone la dissoluzione sociale provocata dal denaro che tutto ingloba nel nome della modernità. L’individualismo di destra difatti è protettivo, pertinente alla visione del padrone della propria terra che con il fucile tra le braccia impedisce qualsiasi intromissione nei propri affari. Ma è pur sempre individualismo.

 

Anche questo equivoco nasce negli anni ’80. Fu Ronald Regan difatti a mischiare la componente tradizionalista con quella ideata e snocciolata nei ricchi Think Tank neoliberali, finanziati da miliardari cosmopoliti. Quell’insieme col tempo ha prodotto due tendenze precise. Un’egemonia culturale che vede l’avvento di teorie economiche classiste e neo-darwiniste ma spruzzate di morale progressista. Dove lo sviluppo personale si compie dentro la costruzione mercantile che per funzionare dovrà ispirarsi alla tolleranza, all’accoglienza, all’apertura mentale perché il mercato abbracci ogni interstizio delle umane virtù. Difficile insomma erigere barricate contro l’utero in affitto se si difende la supremazia del libero mercato, presupposto della completa commercializzazione di ogni aspetto dell’esistenza.

 

La Sinistra Radicale

Il limite della sinistra radicale affonda le radici nel medesimo errore prospettico della destra ma visto dall’altra riva del fiume. Se la destra ancora pensa che il capitalismo abbia un seme tradizionalista e conservatore, i radicali di sinistra pensano che quel potere abbia ancora oggi una sua concretezza reazionaria e oscurantista. In realtà non si interroga più sui reali meccanismi di riproduzione del capitalismo ma resta ferma nella critica alla vecchia morale borghese gerarchica e piccina, burocratica e bottegaia. In questo modo si pone all’opposizione di un vincolo autoritario che non esiste più e prende ancora a proprio vangelo quella che Boltanski e Chiappello hanno definito la critica artistica sul soggetto alienato dal capitalismo fordista della catena di montaggio.

 

Anche qui non si affrontano lucidamente le coordinate ideologiche del neoliberalismo. La società dei mercati difatti non immagina un essere umano alienato dalla produzione meccanicista che risolve la propria assuefazione al sistema con la mera propensione al consumo o con l’aspirazione all’accumulazione di beni trasformati in segni distintivi della propria crescita sociale. Quel capitalismo che sfoderava autoritarismo in fabbrica ma concedeva una vita privata rassicurante in linea con i proponimenti del sogno americano si è dissolto. L’adesione al capitalismo non si risolve con imperativi espliciti o grazie alle luci al neon della civiltà dei prodotti. Quel mondo manteneva ampi spazi di conflittualità anche perché – come ha ben sottolineato Clouscard – sia il proletariato che la borghesia non accedevano con convinzione alla società dei consumi. Gli operai erano ancora legati a un’economia della mancanza, mentre i borghesi erano refrattari allo sperpero per fortificare la produzione.  Gli Stati, per disinnescare l’attrazione delle masse per il modello socialista, erano costretti a concedere riforme sociali e protezione salariale.

 

È la creatività del singolo, la sua capacità di mostrarsi ricco di idee innovative, a diventare elemento sostanziale dell’integrazione individuale nei meccanismi di riproduzione del capitale. Il Capitalismo prende a prestito la contestazione giovanile sessantottina e la successiva rivoluzione anarchica della Rete, per immaginare una nuova azienda, antigerarchica e de-burocratizzata. Nella quale il lavoratore si trasforma in creatore. Lo slogan “la fantasia al potere” assurge a modello esistenziale. Con il lavoro si vende la propria personalità, il proprio capitale sociale. La gerarchia si trasforma in collaborazione. Il conflitto così come la repressione diventano superflui. L’individuo/artista si fonde con l’imprenditore ma non si confonde con il popolo.

 

La chiave dell’esercizio del potere diventa persuasiva e permissiva. Ogni individuo è un capitalista. Libero di immaginare sviluppi illimitati per sé in una dimensione de-territorializzata e slegato dall’oppressione di vincoli lavorativi duraturi, dai recinti routinari delle organizzazioni politiche e sindacali. La contrattazione del singolo soggetto con il padrone avviene da pari a pari, la subordinazione è un progetto. In questo modo si emancipano le voglie di liberazione dei piaceri, intimo movente dei  ragazzi del Sessantotto, la prima vera categoria sociale attratta dalla società dello spettacolo, in seguito definitivamente affrancata dallo spirito di concorrenza imprenditoriale concepito dall’ideologia neoliberale. Il consumo non è più una ricompensa bensì un investimento.

 

Non avendo attentamente analizzato questo aspetto del neo-liberalismo la sinistra radicale si trova ad esaltare il principio di liberazione personale dato dalla società dei mercati, partecipando alla sua esaltazione, sollecitato dalla propaganda del liberismo dei costumi. Il conservatorismo diventa un’etichetta che si vuole appiccicare tanto a una immaginifica destra autoritaria quanto a quegli stati che non aderiscono alle regole formali della democrazia liberale né sono in prima linea nella protezione dei diritti delle minoranze. Ma supporre che la presupposta libertarietà del capitalismo della concorrenza abbia come conseguenza nefasta solo il non rispetto di diritti interclassisti, a scapito di specifici gruppi di persone, tende a giustificare la legittimità di tutto l’impianto ideologico e delle sue volontà di sfruttamento, nascoste  ma ancor più feroci. Si pensi alle condizioni di lavoro nei campi recintati della New Economy, nei quali tra induzione all’autocontrollo e algoritmi valutativi si consuma la più disumana oppressione di classe.

 

Ma questo capitalismo, secondo le coordinate di ragionamento del radicalismo di sinistra, alla fin fine si presenterebbe più creativo e più civile del vecchio Stato burocratico, seppur esso riconoscesse l’esistenza delle diseguaglianze di classe, oggi negate e censurate. Sta di fatto che la platea di militanti e di sostenitori della sinistra radicale è composta da quel piccolo mondo élitario che ha assimilato del tutto i propositi libertari del neoliberismo connessi alla creazione artistica e all’imprenditoria di sé. Che considera il soggetto l’unica forza in grado di rompere il patto sociale con le proprie capacità d’innovazione.

 

La radice di questa impostazione va ricercata nelle considerazioni originarie di Raniero Panzieri, il precursore di quella deriva critica che attraverso lo strumento sociologico della ricerca contribuì a formare gli spunti ideologici poi assimilati dalla contestazione avanguardista degli anni ’60 e ’70. In particolare Panzieri vide nel Capitalismo dei suoi tempi, quello della produzione burocratizzata e fordista ma anche del patto keynesiano o socialdemocratico,  il tentativo del capitale di trovare una sua sistemazione definitiva e immutabile. Lo scenario con la complicità degli apparati statali era militarizzato e gerarchizzato e fortificava le proprie istituzioni attraverso l’illusione dell’allargamento dei consumi.

 

Panzieri pensò che quello fosse un momento di avanzamento delle forme di dominio capitalista e non un compromesso al ribasso realizzato grazie alla forza dei partiti di massa che politicizzarono le classi popolari e per la presenza del blocco socialista ad est. Per giustificare questo impianto di pensiero Panzieri stravolse la finalità ultima del capitalismo stesso che non si indirizzava – a suo dire – verso l’obiettivo del massimo profitto ma verso una fortificazione sic et simpliciter delle proprie strutture di potere. Assegnava al Capitalismo quindi una forma rigida, solida, razionale. Preconizzava difatti l’impossibilità di un ritorno al capitalismo della concorrenza. Questo seme di critica è rimasto intatto nei vari gruppi della sinistra radicale. Sempre attenti nel ricercare forme di autoritarismo sparse per il mondo ma incapaci di scovare le forme del totalitarismo persuasivo dei nostri tempi. Impossibilitati nel cogliere che al contrario è proprio il capitalismo della concorrenza a forgiare i comportamenti umani per renderli compatibili con la prassi imprenditoriale. Nuova tecnica di assimilazione per rendere l’individuo ancor più alienato. Alienato e addomesticato ma progressista.

 

 

Per concludere i tre raggruppamenti politici analizzati negano tre caratteristiche essenziali del neo-liberalismo. L’idea di uno Stato interventista e non disinteressato al corso naturale del mercato, che impone la propria costituzione economica e le proprie regole pedagogiche nei confronti dell’individuo attraverso l’opera di un mastodontico apparato sovranazionale. La sua etica progressista in linea con la forza evolutiva dei mercati che spingono necessariamente verso un progresso illimitato fondato sul relativismo culturale. La sua dinamica persuasiva e non repressiva che lascia all’imprenditore di sé stesso libertà di azione all’interno delle regole di concorrenza purché sia capace di creare il proprio capitale sociale e dove l’alienazione esistenziale viene costruita sulla performance resiliente e sottomessa.

L'altra faccia del Leviatano. Hobbes tra “spazio pubblico e trascendenza” -  Benvenuti su gazzettafilosofica!

 

1 commento per “Tre errori prospettici: sinistra, destra e sinistra radicale

  1. Aliquis
    6 giugno 2021 at 12:14

    Vero.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Dichiaro di essere al corrente che i commenti agli articoli della testata devono rispettare il principio di continenza verbale, ovvero l'assenza di espressioni offensive o lesive dell'altrui dignità, e di assumermi la piena responsabilità di ciò che scrivo.