Gender e Capitale

Su Il Covile ci siamo già occupati  a più riprese del Gender [1],  mettendo in luce alcuni nessi  funzionali fra questa teoria e l’esigenza dell’ipercapitalismo globalizzato di disporre di soggetti  deboli, senza identità perché privati di ogni aggancio sia con la propria storia personale (contesto ed educazione familiare), sia con quella sociale e di genere (maschile e femminile). Ogni contesto formativo passato è considerato pernicioso perché sarebbe un fattore di  coartazione della libertà individuale, come afferma esplicitamente il ministro francese Peillon[2].  Soggetto debole, abbiamo più volte sottolineato,  significa soggetto spaesato, deidentificato, malleabile,  manipolabile facilmente con le tecniche del marketing, disponbile a tentare disperatamente di trovare una qualsiasi identità negli oggetti scintillanti che la falsa cornucopia del capitalismo gli mette teoricamente a disposizione in vetrine illuminate e continuamente rinnovate per stimolare continuamente desideri illimitati ma proprio per questo mai esaudibili compiutamente.  Soggetto insomma che, in quanto è nulla può essere anche  tutto, se opportunamente indirizzato e se gli si fa credere di essere interamente libero di autodeterminarsi.

 

Si potrebbe pensare, tuttavia, che quei nessi funzionali derivino da una convergenza di idee indipendenti l’una dall’altra, e che potrebbero esistere, nonché essere applicate socialmente,  anche separatamente.

Scopo di questo articolo è invece tentare di dimostrare che non è così.  La teoria del Gender si fonda su un processo filosofico del tutto analogo a quello del capitalismo;  ne è la forma aggiornata al suo sviluppo storico, forma estrema e ineluttabile perché identiche le premesse,  e  passaggio verso il transumano  come suo destino ultimo. Forma  estrema perché porta a compimento la radicale trasformazione antropologica dell’essere umano recidendo ogni legame col suo corpo biologico come esiste in natura, ineluttabile perché non è una possibilità fra le altre dell’evoluzione di quel modo di produzione, ma è insito ne (e coerente con) la sua ferrea logica interna.

E’, questa, un’affermazione forte e tutt’altro che scontata. Al contrario, trova molti nemici tanto a <destra> quanto a <sinistra>, seppure per ragioni diametralmente opposte. Il motivo è la parzialità di entrambi gli approcci all’analisi del capitale, ragione per cui non si riesce ad afferrarne l’unitarietà dei processi interni, economici, politici, sociali, culturali in senso lato. Accade allora che le critiche, sia pure centrate ed acute, a questo o quell’aspetto del capitalismo globalizzato (o mondializzato),  si rivelano   impotenti e non pienamente credibili. Che ciò sia avvenuto in passato non deve sorprendere. Esistevano fino a non moltissimi anni orsono, spazi nella vita individuale e sociale che rimanevano ancora fuori dalla presa del capitale, al suo lato. Funzionavano secondo una logica diversa e potevano quindi far pensare che, a partire da questi, si sarebbe potuto correggere quelle storture e quelle contraddizioni che pure si manifestavano. Sorprende invece che oggi, quando quegli spazi sono stati tendenzialmente eliminati o ridotti a puro simulacro, non ci si renda conto che si trattava di stadi parziali, transitori, destinati ad essere progressivamente sussunti sotto la logica del capitale .

Sul n. 797 de Il Covile abbiamo ripubblicato un bel passo di Marx[3] che era già disponibile da anni sulla rivista[4], e un passaggio dell’enciclica Centesimus Annus di Papa Giovanni Paolo II. Entrambi parlano del lavoro, con termini diversi ma convergenti. Il lavoro ha una dimensione sociale e di realizzazione individuale quando mette in relazione diretta gli individui soddisfacendone i bisogni, materiali dal lato dell’acquirente, in senso lato spirituali come coscienza di aver soddisfatto un bisogno altrui e quindi di sapersi <<confermato tanto nel tuo pensiero quanto nel tuo amore>> [5] da parte del produttore. L’essere umano, cioè, si realizza in quanto essere umano  in forza di legami e di rapporti personali di tipo comunitario.  Il lavoro, nelle società precapitalistiche,  è sempre, per questo,  lavoro concreto ed anche sessuato, come nota Ivan Illich [6]<<Una società industriale non può esistere se non impone certi presupposti unisex: il presupposto che entrambi i sessi siano fatti per lo stesso lavoro, percepiscano la stessa realtà e abbiano, a parte qualche trascurabile variante esteriore, gli stessi bisogni>>. Torneremo poi sulla questione del lavoro sessuato.

Intanto diciamo che  la novità  decisiva introdotta dal capitale è stata quella di separare il lavoratore, a)dalla proprietà dei mezzi di produzione,  b) dalla proprietà del prodotto del suo lavoro, ponendosi quindi,  c)come mediatore universale  e spersonalizzato fra il produttore e il consumatore.  Il lavoro, da concreto in quanto il suo prodotto è rivolto al soddisfacimento di un bisogno specifico di un individuo determinato  che lo ha commissionato, diventa astratto. Il capitalista acquista  dall’operaio forza lavoro <in generale> da utilizzare per una produzione in generale, che andrà anonimamente a soddisfare i bisogni di soggetti sconosciuti tramite la mediazione universale  del mercato e della legge di domanda e offerta. Sparisce  ogni preesistente legame comunitario di cui parlava Marx.  L’individuo viene così pensato anch’esso come individualità astratta,  preesistente ad ogni legame/relazione entro la quale si strutturi ed acquisisca identità.  Il legame sociale, date queste premesse,  è pensabile solo a posteriori,  solo in quanto mediato dallo scambio,  e solo come legame utile alla soddisfazione di bisogni/desideri individuali.

E’ questo processo di astrazione che produce il fenomeno dell’alienazione.

Tuttavia, per diversi secoli  il processo di estraniazione dell’uomo dal prodotto del suo lavoro è stato, appunto, limitato a questo campo, mentre nel resto della vita potevano sussistere spazi  ai quali  il capitale non estendeva la sua presa e nei quali il soggetto poteva pensarsi non come homo aeconomicus. In quegli spazi, relazionali e affettivi, di tempo libero e culturali, potevano sussistere principi (morali, etici)  estranei alla logica del mercato e dell’accumulazione, in una parola non utilitaristici. Ma non solo. Si poteva pur sempre pensare il sistema capitalistico come l’organizzazione tecnicamente  più razionale volta al fine di soddisfare bisogni reali. Il valore di scambio di un bene, cioè, aveva come suo presupposto l’esistenza di un suo valore d’uso e che tale valore d’uso fosse un dato oggettivo, corrispondesse cioè a un bisogno reale astorico e naturale.

Oggi la situazione è radicalmente mutata. Il mercato ha saturato ogni spazio sociale e individuale, la vita stessa, dall’origine alla sua fine, è entrata nella sua orbita fino a costituire tramite le biotecnologie e l’ingegneria genetica, la promessa di immensi profitti per le multinazionali che ne controllano i processi.  La sessualità, ovviamente, non poteva restarne fuori. Non che nel passato si fosse disinteressato al tema, ovviamente. Per Gramsci[7]  il capitalismo industriale esige un tipo d’uomo (operaio) la cui sessualità deve essere regolamentata con la repressione degli istinti oppure con l’introiezione di norme morali e costumi sessuali monogamici (famiglia), per renderlo psicologicamente adattabile al rigido sistema di fabbrica alla cui base era il taylorismo (segmentazione delle operazioni,  affidamento al singolo operaio di una unica mansione ripetitiva). Un contesto lavorativo rigido e disciplinato incompatibile con una sessualità libera, praticando la quale l’operaio difficilmente si sarebbe adattato.  Naturalmente è del tutto discutibile che siano state le esigenze del sistema industriale capitalistico ad avere   prodotto la famiglia monogamica e la regolamentazione della sessualità. Famiglia e norme sessuali sono ben più antiche di quel modo di produzione, e senza stare a discuterne qui l’ origine naturale o culturale/religiosa, è  vero invece che il sistema di fabbrica le ha recepite e adattate a se stesso in quanto, in quella fase, ad esso funzionali.

Il punto è che oggi la fabbrica  non rappresenta più lo snodo centrale dell’accumulazione capitalistica. Essa presupponeva una struttura, una forma precisa, anche nei suoi protagonisti umani. Tali erano il borghese e l’operaio intesi come classi, che pur fronteggiandosi in modo asperrimo sul terreno sociale, condividevano identiche concezioni antropologiche, tali per cui, ad esempio,  il concetto di famiglia, la paternità e la maternità,  il modo d’intendere la sessualità,  erano gli stessi per l’uno e per l’altro.  La trasgressione era riservata ad elites intellettuali  medio/alto borghesi, spesso come momento di passaggio giovanilistico  prima del ritorno a casa.

Oggi è la finanza globalizzata e per lo più anonima il motore dell’accumulazione. Spazio e tempo hanno perduto il loro significato tradizionale, lo spazio essendo ormai costituito dall’intero orbe terracqueo, e il tempo è sempre il momento istantaneo, quello necessario affinchè un capitale venga mosso di luogo senza muoversi e con quest’operazione venga moltiplicato istantaneamente. La forma solida  precedente, la struttura che  la caratterizzava, si è sfarinata dando luogo, secondo la celebre definizione di Zigmut Baumann, alla società liquida. Ad essa corrispondono aggregazioni umane altrettanto liquide, informi, provvisorie, senza direzione precisa ma per ciò capaci di ogni direzione allo stesso modo che il liquido è capace di assumere ogni forma in funzione del contenitore in cui giace.  Borghesia e proletariato, in quanto classi portatrici di valori e principi non interamente inscrivibili nella logica mercantile, sono state sostituite da un soggetto unico, il componente dello sciame, con identiche aspirazioni, identica concezione individualistica del mondo e della vita, identici desideri per quanto molto diversamente soddisfatti in funzione della ricchezza disponibile. Si è verificato con ciò un doppio movimento. La sparizione delle differenti concezioni sociali di borghesi e proletari e l’assunzione da parte di entrambi di una identica antropologia, quella del capitale.

<<Liberazione delle forze produttive, liberazione delle energie e della parola sessuale: stesso combattimento, stessa avanzata di una socializzazione sempre piu potente e differenziata […] La trafila della produzione porta dal lavoro al sesso, ma cambiando di binario: dall’economia politica al libidinale (ultima acquisizione del ‘68) vi e la sostituzione di un modello di socializzazione violento e arcaico (il lavoro) con un modello di socializzazione piu sottile, piu fluido, ad un tempo piu psichico e piu vicino al corpo (il sessuale e il libidinale). Metamorfosi e svolta dalla forza lavoro alla pulsione.>>[8], scriveva Baudrillard.  Parole che bene spiegano la metamorfosi del capitalismo in quanto a morale sessuale. Dalla sessualità eterosessuale, monogamica e regolare, a quella polimorfa, indifferentemente etero, omo o trans, magari cangiante e mai definibile una volta per tutte. Questo l’individuo ideale del capitale per asservire anche il sesso alla sua riproduzione allargata.

Il Gender si inscrive pienamente entro questo movimento, e per affermarsi come teoria “scientifica” ha dovuto compiere, portata alle sue conseguenze ultime, la stessa operazione filosofica che il capitale fece alle sue origini rispetto al lavoro.  Questi ebbe la necessità di separare il lavoratore dai suoi mezzi di produzione e dal prodotto del suo lavoro, e corrispondentemente, tramite i suoi filosofi, di astrarre il soggetto dal substrato comunitario che lo sostanziava,  per porlo come atomo autosufficiente a prescindere da ogni sua altra determinazione.

Si trattava però, di un’operazione parziale rimanendo, come già scritto, campi della vita ancora liberi dalla sua presa. I teorici e le teoriche (essendo in maggioranza donne e femministe) del Gender, stanno perfezionandola con un altro passaggio ancora più fondamentale: separare il soggetto dal suo corpo sessuato, reso ininfluente per la costituzione della sua identità personale, che rimane quindi sospesa, disancorata da ogni elemento reale, oggettivo, affidata unicamente alla percezione o al desiderio  soggettivi, nell’illusione che siano liberi e non sapientemente orientati. Da chi inutile dirlo. Questo movimento di separazione/astrazione corrisponde a quello per il quale, mentre in origine il valore di scambio sottintendeva il valore d’uso inteso come utilità oggettiva, successivamente si è autonomizzato , o meglio, come spiega sempre Baudrillard [9], è lo stesso capitale che crea il valore d’uso in funzione di quello si scambio.

<<ben lungi da una situazione in cui l’individuo esprime i suoi bisogni nel sistema economico, la situazione reale è caratterizzata dal fatto che è il sistema economico a indurre la funzione/individuo e la funzionalità simultanea degli oggetti e dei bisogni>>.

Emerge quindi con chiarezza che quella libertà dal corpo sessuato, quell’autodeterminazione dell’individuo fondata sui suoi desideri/bisogni/ percezioni di sé, predicata dai teorici del Gender,  è pura illusione. Come la libertà formale dell’operaio di fronte al capitalista dissimula la sua dipendenza sostanziale dal capitale, così la libertà di scegliersi il genere a prescindere dal sesso biologico maschera la sottomissione sostanziale proprio a quelle costruzioni culturali che si intende decostruire, ed in forma infinitamente più stretta. I concetti di maschilità e femminilità infatti, per quanto ovviamente influenzati dalle culture, si ergono pur sempre su un dato oggettivo e non eliminabile. Il soggetto astratto, disancorato da ogni determinazione reale e oggettiva, lungi dal poter esprimere bisogni e desideri autentici e genuini, è influenzato pesantemente dal mainstream costruito dal potere per fini suoi.  Non ci sono dubbi su quali siano, e nessuno degli innumerevoli Gender Studies, per quanto si arrampichi sugli specchi e usi termini e concetti apparentemente sofisticati, riesce a negare questa verità.

Uno dei tanti paradossi di cui è costellata la modernità capitalistica è che si può tranquillamente usare uno dei vati del libertarismo, Michel Foucault, per ritorcere contro i libertari  i loro stessi argomenti. Per il filosofo francese, contrariamente a quanto avveniva nelle società che lo precedono, il potere capitalistico non è strutturato in modo verticistico e gerarchico, bensì disperso e diffuso capillarmente nell’intera società, insediato nello stesso processo di produzione. Per ottenere il suo scopo non deve terrorizzare i corpi e le menti ma addomesticarli per adattarli: <<il potere si è addentrato nel corpo, esso si trova esposto nel corpo stesso>>[10].  Se prima del capitalismo il potere doveva  sorvegliare e punire, ora, sostiene Foucault,  può limitarsi  a rimodellare e plasmare i corpi in modo che i soggetti interiorizzino i suoi canoni culturali e li vivano come naturali, quindi legittimi. E’ cioè divenuto biopotere, e sono le sue istituzioni totali, panoptiche (dove il guardiano osserva la totalità dei sorvegliati senza poter essere a sua volta osservato) ed eterotopiche (luoghi ove si plasma la soggettività per conformarla al potere), quali la fabbrica, la caserma e la clinica (psichiatrica), a fornire il modello per le carceri tradizionali, e non viceversa. L’esistenza di queste ultime serve solo a dissimulare la realtà delle prime e illudere i suoi abitanti di essere liberi. Foucault scriveva negli anni 70 del secolo scorso; oggi nell’occidente moderno gli ospedali psichiatrici sono stati chiusi, la coscrizione obbligatoria soppressa e la produzione di fabbrica è modellata ad <<isole>> piuttosto che a catena di montaggio, ma il capitalismo non solo è ancora vivo ma può presentarsi al mondo come, in pratica, forma sociale universale. Ciò significa solo che il biopotere ha inventato altri modi, ancora più sottili,  di affermarsi. In conformità al passaggio dalla fase industriale, che implica pesantezza e staticità,  a quella finanziaria che al contrario implica leggerezza e mobilità estrema, anche i corpi devono conformarsi al nuovo modo di produrre plusvalore. L’antica icona pesante dell’operaio munito di chiave inglese, viene sostituita da quella leggera dell’androgino, maschio e femmina allo stesso tempo o meglio né maschio né femmina, e questa sostituzione della figura maschile è altamente simbolica a significare soprattutto l’incipiente inutilità dell’identità maschile tradizionale per il neocapitalismo finanziarizzato, anzi il costituire un ostacolo al suo definitivo trionfo. Nella sua guerra contro gli elementi residuali di una fase superata del capitalismo il Gender svolge una doppia funzione. Da un lato nasconde la reale posta in gioco e crea l’illusione che la sua sia una battaglia di libertà. Dall’altra, sollevando il soggetto dalla pesantezza e dalla staticità della determinazione biologica dell’identità, si fa strumento attivo di questo passaggio, decisivo ma sempre passaggio verso un nuovo oltre.

Un oltre il cui punto d’approdo sarà il transumanesimo, la nuova umanità determinata dalla contaminazione fra l’essere umano e la tecnologia. Non solo la distinzione fra i sessi sarebbe un fattore di costrizione, ma lo stesso gender, in quanto comunque iscritto in una distinzione binaria maschile/femminile, finirebbe per perpetuare <<la metafisica distinzione dualistica tra i sessi>>[11].

Per superare quel dualismo, e uscire così sia dalla Gender Tehory sia dalla differenza sessuale, occorre affidarsi alla tecnologia come fonte di nuove identità, fatte di <connessioni rapide e discontinue>. L’alterità radicale al <fallo-logocentrismo> non sarebbe più, oggi, la donna, che in quanto categorizzata come donna è essa stessa discriminatoria verso l’esterno e al suo interno perché attraversata da dinamiche di potere, di derivazione maschile e introiettate nel tempo dal femminile, bensì la macchina tecnologica. <<<Crolla il vecchio mondo, con il crollo del patriarcato, alla fine del secolo crolla la frontiera fra umano e inorganico. L’artefatto, il simulacro, lo spazio virtuale sono parametri della nuova soggettività>>[12].  Può sembrare il delirio  di un folle, ma non sarei così sicuro, e non solo perché in mezzo a tanti crolli rovinosi, delle classi, delle razze, dei sessi, dei generi, in pratica di tutto ciò che ha nutrito finora la storia dell’umanità, l’unico elemento che rimarrebbe inalterato e indiscusso è la forma capitalistica. Dissimulato dietro un linguaggio apparentemente progressista appare il fantasma della regressione psichica nell’indistinzione originaria, dell’omologazione culturale. Che, d’altra parte, è lo stesso obbiettivo che si propone il capitale per potersi espandere universalmente.  Non poco e non male per chi era partito dandosi l’obbiettivo di abbatterlo.

 

[1] Il Covile n. 764, 768, 788, disponibili su www.ilcovile.it

[2] ≪L’obiettivo e permettere ad ogni allievo di emanciparsi,

perche il punto di partenza della laicita e il rispetto assoluto

della liberta di coscienza. Per dare la liberta di scelta, bisogna

essere capaci di strappare l’allievo da tutti i determinismi,

familiari, etnici, sociali, intellettuali, perche possa poi

fare una scelta≫. Vedi Il Covile n° 734, gennaio 2013.

[3] Karl Marx, <<Appunti su James Mill>>, in Scritti inediti di economia politica.

[4] Stefano Borselli, <<Difesa del lavoro>>, in Raccolta, edizione del Covile, 2001, p. 115. Disponibile a www.ilcovile.it

[5] K.M. op. cit.

[6] Ivan Illich, <<Il genere e il sesso>>, Mondadori, 1982.

[7] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, (Note sul Machiavelli, Americanismo e fordismo), Einaudi, 1974, pag. 323/335

[8] Jean Baudrillard, Dimenticare Foucault.

[9] Jean Baudrillard, Per una critica dell’economia politica del

segno, Mazzotta editore, Milano, 1974

[10] Michel Foucault, Microfisica del potere, a cura di A. Fontana, Einaudi, Torino, 1977

[11] http://www.tmcrew.org/femm/cyberfemm/gender.htm

[12] ibidem

Fonte: Il Covile n. 799 del 6 giugno 2014

http://www.ilcovile.it/scritti/COVILE_799_Ermini_Gender.pdf

4 commenti per “Gender e Capitale

  1. Animus
    4 gennaio 2016 at 15:39

    Altro grande articolo, completo.

  2. 5 gennaio 2016 at 16:47

    Molto informativo ed utile! Mette in evidenza dei punti chiave di tale teoria che fa compagnia al capitalismo.

  3. Enrico Ascalone
    2 aprile 2019 at 9:46

    Potrei sapere di chi é il dipinto che introduce l’articolo?
    Grazie

  4. armando
    3 aprile 2019 at 16:48

    Sinceramente non lo so. Nel mio articolo non c’erano immagini, e nemmeno su http://www.ilcovile.it la rivista on line su cui è stato pubblicato prima ancora che su L’interferenza. L’immagine è stata messa dalla redazione, ho fatto qualche ricerca su internet e benchè appia spesso non sono riuscito a trovarne l’autore.

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