Il sessantotto

Proseguiamo la riflessione sul ’68 che abbiamo iniziato alcuni giorni fa in seguito alla pubblicazione di una breve ma significativa testimonianza del compianto filosofo marxista Stefano Garroni,  con questo interessante contributo  di  Armando Ermini che riportiamo di seguito.

Si tratta di un argomento molto controverso in grado di suscitare ancora, a distanza di tanti anni, un vivace e accesissimo dibattito. Saremo ovviamente felici di ospitare i contributi di tutti coloro che volessero esprimere la loro opinione sul tema. 

“Ripensare quel periodo della nostra storia non solo è legittimo ma anche doveroso. Oggi, lontano dal fuoco della lotta di quegli anni, lo possiamo fare con più razionalità e realismo, solo che  si abbia la volontà e la lucidità necessarie.   Proprio quello che la grande maggioranza di chi a quel movimento partecipò si rifiuta  di fare fino in fondo.  Non si tratta  di nostalgia per i giovanili anni ruggenti, né di fare i cantori  dell’immobilismo ideologico.  Il cambiamento,  nello sforzo di capire la realtà che ci circonda, anche per trasformarla,  è  non solo normale ma anche inevitabile. Non si tratta nemmeno di rinnegare alcunchè, di fare abiure del passato o simili penose pratiche. Si tratta “solo” di  tentare di capire se, dove e perché sbagliavamo; non nel desiderare astrattamente un mondo diverso, ma nel come realizzarlo concretamente.  Non sto pensando, ovviamente,   a quei figli dell’alta/media borghesia in “libera uscita”,  passati in breve tempo con la nonchalance degli snob, dai gruppi dirigenti duri e puri  di Potere Operaio o Lotta Continua al board di una Società per azioni. E nemmeno a coloro i quali,  bloccati in ferree e malintese armature ideologiche, sono sconfinati nella follia terroristica scambiandola per lotta di classe. Sto invece pensando alla massa di studenti di estrazione piccolo borghese diventati il nucleo forte dell’intellighenzia,  nei giornali, nelle TV, nelle case editrici , nella scuola e nell’università, insomma in tutti quei luoghi dove si forma il consenso. Essi si ostinano a  credere di aver fatto qualcosa di grande e di rivoluzionario, magari non concluso causa il destino cinico e baro, ma comunque nel flusso di una trasformazione sociale positiva e rivolta ad una più ampia libertà.

Ammettono la sconfitta  sul piano politico  attribuendola popolo bue che ha creduto  ad Andreotti o a D’Alema o anche all’arcinemico Berlusconi,   ma   credono ancora di aver ottenuto importanti seppur parziali vittorie su quello culturale. Approdati  infine all’area  progressista del PD o a  Sel, sono fermamente convinti di stare proseguendo  la loro battaglia progressista contro l’oscurantismo.

Ora, poichè che nessun soggetto sano di mente può sostenere che oggi vige  maggior giustizia sociale di quarant’anni or sono, se la misuriamo non  in termini di telefonini ma di precariato o  di disoccupazione, di pensioni o di prospettive di vita per sé e per le generazioni future o di divario fra i redditi più alti e quelli più bassi, i  parametri  classici di chi si pensa di sinistra, l’attenzione si deve allora  spostare su cosa significa rivendicare  vittorie  sul piano culturale.

Fabrizio Marchi dice che il sessantotto si tradusse in sostanza in un rinnovamento ideologico della borghesia per sostituire il vecchio sistema valoriale (Dio, Patria, Famiglia), con un altro più funzionale alle nuove esigenze del capitalismo. Dal canto suo Garroni parla di  “tipiche ideologie del decadentismo borghese (aborto, femminismo, droga, omosessualità)…. con l’opportuno intervento dietro le quinte –ma neanche tanto- delle grandi multinazionali..”

I due concetti non sono identici ma sono affini, quindi compatibili, e colgono un aspetto importante della verità di quegli anni: la necessità del nuovo capitalismo che da industriale si avviava a divenire finanziario e globalizzato,  di sbarazzarsi delle vecchie ideologie, ma ancor più in profondità delle vecchie concezioni antropologiche,  che lo avevano fino a quel momento supportato o che, almeno, non erano incompatibili con esso. Tuttavia, a mio parere, contengono entrambi un errore. Marchi parla di rinnovamento della borghesia, Garroni di appropriazione da parte del capitale delle ideologie del decadentismo borghese;  entrambi cioè fanno riferimento al capitale e alla borghesia come fossero entità interscambiabili. Circa Garroni è da osservare che il decadentismo è si l’altra faccia della borghesia, quindi un suo prodotto, ma riservato ad alcune circoscritte “elite” che il corpaccione maggioritario della classe poteva tranquillamente sopportare, rappresentando anzi una valvola di sfogo per i suoi figli “ribelli”. Certamente non ne era il fulcro, rappresentato meglio, piuttosto,  da quei valori di cui parla Marchi; con la precisazione che si trattava in realtà più di Patria e di Famiglia che di Dio, essendo le rivoluzioni borghesi  anticlericali e in particolare anticattoliche, legate  al positivismo scientifico e al rifiuto di ogni idea di trascendenza.  Le norme religiose erano  utili per molti aspetti (si veda il Gramsci di Americanismo e fordismo), ma più per controllo sociale che per contiguità o identità ideologica.

E’ però un fatto inoppugnabile che quei valori  definiti “borghesi” erano, come riconosceva Pier Paolo Pasolini,  radicati  nel popolo col loro portato di tradizioni, usi, costumi.  Il proletariato si contrapponeva alla borghesia sul terreno sociale, economico e politico ed anche su quello religioso nella misura in cui il clero si poneva come stampella dell’ordine economico capitalistico, ma non su quello antropologico.  Temi quali aborto, omosessualismo, femminismo erano quanto di più lontano dalla mentalità popolare, e del resto sappiamo bene che quando si trattò di scegliere fra Patria  e Internazionalismo,  i proletariati europei  scelsero, all’alba del primo conflitto mondiale,  la prima. Si potrebbe spiegare questo fatto  seguendo il filo  di ragionamento di Gramsci, secondo il quale le idee della classe dominante divengono quasi automaticamente le idee dominanti, ma:  a) proprio per questo,  se l’ideologia borghese tipica viene spazzata via ad opera del capitale, magari utilizzando le concezioni  di una sua parte minoritaria, ciò significa che si è prodotta una forte rottura  culturale nella classe e della classe, e b) si dovrebbe riflettere maggiormente su quanto avvenne in Urss. Stalin,  dopo venticinque anni di socialismo, per vincere la Grande Guerra Patriottica dovette fare appello, appunto, alla Patria russa ed anche alla fede popolare, allorchè riaprì le chiese al culto e concluse accordi col Patriarcato ortodosso . Quanto poi alla famiglia, dopo l’iniziale fervore distruttivo rivoluzionario, i sovietici dovettero tornare sui loro passi, pena la perdita di coesione sociale della Russia, e il pericolo di dissoluzione dall’interno.

 

Insieme ad una fortissima contrapposizione di classe, fra borghesia e proletariato esisteva insomma  un comune terreno antropologico che mi sembra sbagliato attribuire sic et simpliciter all’egemonia  culturale che la borghesia dominante avrebbe esercitato sulle classi subalterne.

Se quanto sopra è vero, anche solo in parte, ciò significa che il capitale come rapporto sociale di produzione è “indipendente” dagli attori nei quali tale rapporto si incarna, e che esiste potenzialmente la possibilità  di una  loro trasformazione storica, peraltro già intravista da Marx ed Engels al loro tempo, e precisamente nelle conseguenze, allora ancora molto relative,  del passaggio dell’impresa individuale in società per azioni. Queste  si distinguono dalla prima per la separazione fra la funzione e la proprietà del capitale,  per  la  “trasformazione del capitalista realmente operante in semplice dirigente, amministratore di capitali altrui, e dei proprietari di capitale in puri e semplici proprietari, puri e semplici capitalisti monetari”[1]    Questa trasformazione, descritta così sempre nel Terzo Libro ; “Questo significa la soppressione del modo di produzione capitalistico nell’ambito dello stesso modo di produzione capitalistico stesso”,  ha alimentato la discussione sul fatto che volesse significare  l’effettivo superamento del capitalismo sulla base di un processo tutto interno al capitale. Esula dagli scopi di questo lavoro l’approfondimento di questa discussione, limitandomi ad affermare l’inconsistenza di questa tesi sulla base del fatto che tutto ciò non mette in discussione il concetto di capitale come rapporto sociale di produzione, quindi come funzione distinta dagli attori che lo impersonificano.  Semmai, per Marx, quel processo di socializzazione della produzione creava le condizioni oggettive per il superamento, non il superamento in quanto tale.   Oggi  che quei processi si sono accentuati al massimo grado, vediamo che non è così, e che qualsiasi prospettiva di transizione al comunismo non è all’ordine del giorno in nessuna parte del mondo,  nondimeno è però di grande interesse per quello di cui scriviamo.  A questo proposito vale riportare quanto scrive Engels  sui trust e sul processo di concentrazione  in un numero sempre minore di soggetti della proprietà dei mezzi di produzione:  “ tutte le funzioni sociali del capitalista sono ora compiute da impiegati salariati”, e tutto ciò “dimostra che la borghesia è diventata superflua”[2] [corsivo mio].

Se operai e capitalisti sono “estremi di un rapporto di produzione”, come  scrive Marx nei

Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica (Grundrisse) cioè “agenti, rappresentanti, sociali, depositari, personificazioni” di funzioni sociali collegate al processo di produzione capitalistico , e se “il capitale  è costituito non soltanto dai prodotti dei lavoratori trasformati in potenze autonome, dei prodotti come dominatori e compratori dei loro produttori, ma anche dalle forze sociali” (Il Capitale III),  Engels prefigura  dal canto suo  un capitalismo senza borghesia, cioè senza un suo proprio specifico agente sociale;  un capitalismo che non necessita più di  mediazione culturale e politica in quanto in grado di rappresentarsi da solo tramite suoi funzionari. Il venir meno della necessità di mediazione culturale per affermare la propria logica, significa però  che il capitale  è riuscito a saturare ogni spazio della vita sociale e individuale,  culturale e politica, tanto che ciascun soggetto, qualsiasi posto occupi nella scala sociale è indotto a pensarsi solo nelle sue coordinate o, come scrive Camatte, come comunità capitale.

 

Se dunque borghesia e proletariato sono ora culturalmente unificati sotto il segno del capitale, tanto che si può parlare come fa Costanzo Preve,  di Capitalismo Assoluto, se borghesia e proletariato hanno perduto la loro perseità, dovrebbe essere evidente che si pone anche il problema delle forme in cui la lotta di classe possa e debba esprimersi per manifestare quell’antagonismo irriducibile che l’aveva contraddistinta in passato. Si pone anzi, qui, un problema in più a cui accennerò soltanto di sfuggita, non essendo questo l’argomento vero e proprio dell’articolo.

Se la sfera della sovrastruttura diventa  di  importanza almeno pari a quella strutturale per determinare i rapporti di potere,  se in questa sfera il Capitale ha dissolto le due classi antagoniste per unificarle sotto l’egemonia  culturale della forma merce e della sua circolazione illimitata che esige la rimozione di qualsiasi ostacolo materiale (globalizzazione economica e giuridica),  e valoriale (attacco alla religione,  alla famiglia,  alla differenza sessuale stessa in nome dell’omologazione del Gender, del femminismo e dell’omosessualismo), allora un problema si pone anche riguardo alla definizione del concetto di classe, ossia circa la distinzione fra classe in sé e classe per sé,  e addirittura circa la natura stessa del modo di produzione capitalistico come lo si è sempre inteso.

In ogni caso il cambiamento qualitativo, il vero e proprio salto di paradigma attuato dal capitale, sposta tutti i termini della discussione, non per ultimo quello della rappresentanza politica delle classi e delle sue forme,  quindi anche del partito leninista e del rapporto fra avanguardie e classe.

Tornando  quindi al sessantotto, credo che ciò che non si capì allora, e forse non era ancora possibile farlo, fu proprio quel salto di paradigma,  e continuammo in realtà a identificare la lotta contro l’ideologia borghese con la lotta contro il capitale, mentre questo aveva già preso altre strade.  Avvenne non solo per il movimento giovanile nel suo  complesso, che giustamente Garroni connota come “politicamente immaturo e ignorantissimo”.  Fra partentesi quì mi sento di dire  che è in parziale difetto quando scrive  che né i partiti riformisti né il movimento giovanile seppero reggere l’urto della classe capitalistica che fece crescente ricorso ai fascisti. Non perché il ricorso allo squadrismo non sia stato vero, ma perché anch’esso fu usato (e  incentivato)  spregiudicatamente dallo Stato e dal capitale (la teoria degli opposti estremismi),  per porsi come l’unico fattore si stabilizzazione democratica contro il pericolo fascista o comunista,  e come unica possibilità di riformare culturalmente il sistema in senso vagamente progressista (Compromesso storico) .  D’altronde quel movimento politicamente immaturo  si muoveva, lo vedremo, non tanto su un piano direttamente politico quanto su un’esigenza di rinnovamento dei costumi e degli stili di vita (beat generation, fenomeno hippy), e non troppo si poteva pretendere da esso.  Il fatto è, piuttosto, che quell’errore  teorico di identificare il capitale col suo agente storico tradizionale (borghesia) fu compiuto anche da chi si autoproclamava avanguardia, ossia da quei gruppi collocati alla sinistra del PCI che volevano porsi a capo della sommossa giovanile.  Questi possono essere grosso modo suddivisi in due filoni principali, con caratteri  molto diversi. Da una parte l’area, genericamente definita marxista-leninista (di cui facevo parte), contrassegnata da rigidità ideologica, che applicava scolasticamente i paradigmi del marxismo della Terza Internazionale, e che  guardava allo stalinismo ed al maoismo come corpi dottrinari i cui principi trasferire pedissequamente nelle società occidentali sviluppate.  Se la rigidità ideologica preservò quest’area dal libertarismo e da quei caratteri che Garroni definisce di decandentismo borghese, dall’altro rese questi gruppi assai sclerotici e minoritari, alle volte attraversati anche da venature moralistiche. In sostanza incapaci di aggregare consensi ma capaci in teoria di esistere in eterno continuando ad recitare le solite giaculatorie.  Dall’altra parte possiamo collocare quei gruppi che, per comodità e con molta approssimazione, definiremo  in generale “operaisti”, come Potere Operaio e soprattutto Lotta Continua, il più numeroso ed anche il più duttile, innovativo e aperto alle  istanze libertarie, peraltro già  presenti come filone minoritario di un marxismo letto in chiave anarchicheggiante (Daniel Guerin).   In essi il richiamo alla dottrina era molto più generico e metodologico piuttosto che analitico, mentre il riferimento a Luxemburg ne connotava lo spirito movimentista più che di partito rigidamente leninista.  Sta di fatto che dopo un tormentato dibattito LC si sciolse come vera e propria organizzazione politica nel  nome della parola d’ordine “il personale è politico”, assumendo in pieno le istanze del femminismo e del libertarismo antiborghesi, scambiandoli per autentico anticapitalismo. Non può essere un caso che da  LC siano transitati Emma Bonino, Mario Mieli (fondatore del F.U.O.R.I – Fronte unito omosessuali rivoluzionari italiani) e soprattutto che ne fosse leader carismatico Adriano Sofri,  che su Repubblica è diventato uno dei maggiori corifei del femminismo e dell’interventismo militare occidentale nel mondo in nome dei diritti umani e dell’esportazione della democrazia. A metà fra queste due aree possiamo collocare il gruppo de Il Manifesto, del quale basti dire che la linea culturale del quotidiano che porta lo stesso nome costituisce lo sviluppo coerente di ciò che già era in fieri alla sua nascita.

Il sessantotto fu quindi un periodo temporale complesso in cui si intrecciarono più istanze. Le necessità di ammodernamento capitalistico (produttivo e culturale),  le istanze di ribellione giovanile verso i vecchi valori della società industriale diventati improvvisamente superati e anacronistici, culture politiche  dotate di categorie interpretative della realtà obsolete ma che alla luce della quali quella ribellione poteva sembrare un prodromo rivoluzionario. E’ come se la scena di un film fosse percepita in un modo dagli attori che la girano, ma in tutt’altro modo da uno spettatore che vi assistesse dall’esterno e, conoscendo le intenzioni e le idee del regista,  ne avesse una visione d’insieme diversa.  E’ questo, credo, il motivo per cui siamo ancora a parlare di quel tempo senza trovarsi d’accordo sul suo senso, per il quale occorre tuttavia prescindere dalle buone intenzioni soggettive, che c’erano ed erano generose ed entusiaste,  per valutarlo  dai suoi esiti.

 

In poche parole: oggi il capitalismo è più debole o più forte di ieri? Il sistema di valori  sui quali si fonda è stato davvero intaccato o si è invece esteso a tutto il corpo sociale? Quelle “libertà” che sembrammo aver conquistato sono libertà  strappate al capitale o “libertà” che il capitale  concede perchè funzionali alla sua riproduzione allargata?

 

Vorrei chiudere questo intervento con un richiamo storico, perché se la storia non si presenta mai due volte in modo identico, tuttavia certe analogie dovrebbero indurre a riflettere.  Ho accennato sopra alla beat generation ed agli hippy, antesignani statunitensi di ciò che avvenne in Europa in modo  più politicizzato e con l’ambizione non solo di modernizzazione culturale ma anche di rovesciamento economico-politico. Valgono, per USA ed Europa, le domande che ho posto sopra, ma quello sessantottino non fu il primo movimento antiborghese  e antiautoritario della storia.  Voglio ricordare  l’esperienza anarchicheggiante della repubblica del Carnaro a cavallo fra il 1919  e il 1920, cui parteciparono  “nazionalisti e internazionalisti, monarchici e repubblicani, conservatori e sindacalisti, clericali e anarchici, imperialisti e comunisti”, secondo la descrizione dello storico  Leone Kocknitzky (1892-1965) nel suo La quinta stagione o i centauri di Fiume. A  Fiume “il piacere diventa prerogativa di tutti coloro che sono convenuti alla festa della rivoluzione. Godimenti senza limiti, divertimenti, libero fluire dei desideri, comportamenti disinibiti, privi di moralismo: tali sono i caratteri che di quest’esperienza collettiva, sostanzialmente liberatoria, ci tramandano cronache e memorie” , afferma Claudia Salaris nel suo saggio, Alla festa della Rivoluzione.

“Vogliamo liberare l’Italia dal papato, dalla monarchia, dal Senato, dal matrimonio, dal Parlamento. Vogliamo un governo tecnico senza parlamento, vivificato da un consiglio o eccitatorio di giovanissimi. Vogliamo l’abolizione degli eserciti permanenti, dei tribunali, delle polizie e dei carceri, perché la nostra razza di geniali possa sviluppare la maggior quantità possibile di individui liberissimi,forti, laboriosi, novatori, veloci” . Potrebbe tranquillamente essere una dichiarazione d’intenti del movimento del sessantotto, ma è invece un testo di  Filippo Tommaso Marinetti “Al di là del comunismo”, pubblicato sul giornale dei legionari fiumani La testa di ferro. Marinetti è noto, aderì poco tempo dopo  al fascismo.

 

 

Da parte loro, i Wandervogel[3],  movimento giovanile tedesco  nato a cavallo fra il XIX e il XX secolo, presentano forti analogie con gli Hippy.  Antiautoritarismo, ribellione contro l’ipocrisia e la rigidità  della società guglielmina, disprezzo del “pantano borghese e dell’associazionismo”, dei sistemi pedagogici del mondo dei “vecchi”, ecologismo ante-litteram, pacifismo, culto della natura e del corpo,  amore per la musica, ne furono i caratteri principali.  I Wandervogel aggregarono molti giovani tedeschi di entrambi i sessi.    Ebbene, finirono per confluire nella gioventù hitleriana.

Nei movimenti antiborghesi,  e tali furono quelli che ho ricordato sopra, esiste sempre una componente non razionale,  inconscia, direi quasi un’eccedenza che alla fine li spinge verso esiti del tutto estranei alle loro originari intenzioni.  Ne scrisse C.G. Jung  nel 1936 nel saggio  Wotan, a proposito della nascita del nazismo in Germania. Wotan è il Dio guerriero e passionale, incantatore e illusionista, inquieto e in perenne movimento, il cui spirito è da sempre presente, seppure “in sonno” per lunghi periodi, nell’inconscio collettivo del popolo tedesco. I caratteri archetipici di Wotan sono rintracciabili sia nei Wandervogel, come Jung stesso accenna nel saggio quando parla dei giovani biondi armati di chitarra e zaino che errano liberamente sulle strade d’Europa, sia nelle inquiete istanze libertarie che animarono gli entusiasti protagonisti del Carnaro, ma anche nel movimento libertario del sessantotto. Diventa allora importante capire il senso del risveglio del Dio capace di “afferrare” e “possedere” un intero popolo, e non soltanto quello tedesco. Senso che Erich Neumann sintetizza così : “il wotanismo, col suo abbandono estatico e con le sue tempeste di emozioni guerresche, è privo dell’occhioluce della conoscenza superiore […] L’oscuro tipo wotanico del cacciatore selvaggio e dell’Olandese volante appartiene al seguito della Grande Madre. Dietro la loro inquietudine spirituale si nasconde sempre l’antica brama uroborica, la volontà di morte dell’incesto uroborico, che sembra così profondamente radicata nel mondo germanico” [4]

 

Credo che ci sia molto su cui riflettere, perché le analogie col movimento del sessantotto esistono, non tanto nei gruppi politici che nacquero da quell’esperienza o che tentarono di inserirvisi, quanto nello spirito e nei sentimenti che animavano chi lo visse come grande momento di liberazione, personale e politica. Non si tratta di distribuire condanne o assoluzioni, e nemmeno di negare  ogni validità alle istanze che allora ci mossero. Alcuni, e credo a ragione, hanno definito quel movimento come una rivolta contro il principio d’autorità e contro il padre che da sempre lo incarna. Ecco, anche da questo punto di vista credo si sia commesso un errore, analogo ma simmetrico,  a quello che ha portato a identificare borghesia e capitale; si è identificato  il padre tout court col padre borghese, ed invece di ribellarsi contro il secondo per liberare e recuperare il primo, si è voluto distruggerlo completamente, aprendo  un’autostrada all’avversario. Ciò che personalmente mi sgomenta  non sono gli errori del passato, ma il fatto che ancora oggi non si vedano (o non si voglia farlo), e che si pensi anzi di accelerare ulteriormente nella stessa direzione. Il Capitale ringrazia!

[1]Karl Marx. Il Capitale, libro III

[2]F. Engels, Il socialismo dall’utopia alla scienza, Roma 1970

[3]Si veda, anche per l’esperienza fiumana, http://www.ilcovile.it/raccolte/RACCOLTA_COVILE__2_Romano_Guardini_e_i_movimenti_moderni.pdf

[4]E.N. Storia delle origini della coscienza, Astrolabio, Roma 1972

8 commenti per “Il sessantotto

  1. michele
    12 gennaio 2016 at 12:45

    Un po confusionario perché non sono uno storico, nemmeno un filosofo. Non abituato a scrivere.
    Nel 1968 avevo 13 anni, il primo anno di liceo scientifico. Figlio di umili schiavi, vittime della borghesia terriera.
    “il padrone lo ha chiamato per sapere se era impazzito per mandare il figlio al liceo.”

    Il 68 è stato la rivolta “individuale” di massa contro i privilegi, l’ingiustizia e la conquista dei diritti negati.
    Essere comunisti significava lottare per garantire i diritti fondamentali di ognuno.
    Una “lotta continua” perché le masse avessero il necessario per soddisfare i loro bisogni e la ricchezza sottratta al capitale usata per lo stato sociale.
    Era dunque una lotta al capitale e all’accumulo e anche alla borghesia e ai fascisti perché servi ed usati contro le nostri ambizioni.
    Possiamo considerare il 68 come l’inizio della conquista dello stato sociale, la costruzione dello stato socialista, la lotta dei socialisti per il socialismo.
    la risposta a quali sono gli errori del 68 è che oggi non è più il 68 perché la lotta è finita quando il capitalismo ha ceduto parte della sua ricchezza per riempirci le tasche e sedare la rivolta.
    Oggi si è ripreso tutto.
    le domande allora sono; non esistono più i socialisti per gli errori del 68?
    Perché non scendiamo più in strada per garantire a tutti la scuola, la salute, il lavoro e il diritto dei lavoratori?
    Forse pensiamo che è possibile creare uno stato socialista nelle urne?
    Che esiste uno stato socialista da prendere come modello?

    Lo stato socialista( lo stato degli uguali) è una utopia, e per la stessa definizione non esiste, nella realtà esistono i comunisti solo quando lottano giorno per giorno contro il capitale per usare la ricchezza per la giustizia sociale.
    Non può esistere lo stato socialista perché non sarebbe più un’utopia. (Sono ripetitivo).
    Esiste al contrario nella pratica quotidiana la lotta per il sociale che non è di classe ma di tutti che diventano socialisti, di coloro che hanno scelto di sottrarre dall’accumulo la ricchezza prodotta dal lavoro e dai lavoratori per ridistribuirla.
    Saltano gli schemi del passato e si pongono i germogli nell’essere i comunisti del futuro. Enrico aveva intuito questo, ma.
    Dopo il 68 nessuno ha seguito la strada segnata.

    Con la conquista del diritto allo studio e la scolarizzazione di massa il 68 è stato una rivoluzione culturale “individuale” di massa che ha determinato la rivolta contro gli schemi di pensiero del passato e le dottrine ideologiche anche se qualcuno ancora non ha capito e continua a “marchiarsi” con un simbolo che indica l’appartenenza ad un gruppo e le diverse responsabilità degli altri.
    Il 68 è stato anche la capacità di dare uno sguardo oltre i confini ed essere parte di quel fermento che attraversava l’europa.
    È stata la rivolta di ognuno per il cambiamento e la libertà di se stesso, diventata collettiva perché era il bisogno di tutti i singoli e lottare insieme era funzionale al raggiungimento degli obbiettivi comuni, unita’ sorretta dalla sola ideologia dell’uguaglianza e perché il nemico era per tutti lo stato borghese, funzionale e servo del capitale.
    Può sembrare assurdo ma il 68 non è stato una lotta di classe, ma il superamento delle classi, è stata la lotta di tutti contro il capitale e lo stato per la ridistribuzione della ricchezza.

    Garantirmi la possibilità di frequentare l’università senza averne le risorse finanziare e per raggiungere questo obiettivo bisognava garantire a tutti il diritto allo studio, la ribellione è diventata di massa.( non solo degli studenti ma anche degli operai per garantire questo diritto ai propri figli).
    Vale per l’operaio che per raggiungere i suoi obiettivi ha dovuto lottare insieme a tutti i lavoratori e agli studenti che traevano vantaggio dalle migliori condizioni economiche dei loro padri.
    Era come se tutti anarchici( perché nessuno conosceva veramente Marx e Lenin e nessuno sognava l’unione sovietica e i partiti erano assenti) fossimo diventati “comunisti” superando la stessa ideologia marxista-leninista delle classi, ponendo le basi per il socialismo reale, “la lotta di massa e non di classe. Questa è stata la rivoluzione del 68.
    Il non capire ciò, ha determinato il fallimento attuale della sn italiana persa dietro le ideologie e le mille divisioni. La fine della lotta, quindi dei socialisti, consente il trionfo del capitalismo in tutte le sue espressioni.
    L’errore è stato di chi dopo il 68 si è seduto sugli allori senza capire che la “lotta continua” perché appena finisci tornerai ad essere schiavo e loro si prenderanno tutto, anche la tua vita e quella dei tuoi figli.
    bisogna guardare al presente e aggregare le masse per attaccare la ricchezza, sottrarla dalle loro mani e ridistribuirla in maniera equa rendendo innocui i loro servi.
    Esiste il capitalismo e i servi del capitalismo.
    La lotta al capitale e ai servi del capitale.
    Allora la domanda è…dove stiamo sbagliando?
    Costruire il partito della sn o aggregare le masse e lottare.?
    Fare Il partito della sn o ritornare in piazza a lottare ed essere comunisti?

  2. armando
    20 gennaio 2016 at 14:59

    Michele, forse vale la pena riflettere su alcune cose.Di per sé, il capitalismo 1)non è affatto ideologicamente contrario alla redistribuzione della ricchezza, 2)non è affatto ideologicamente contrario all’uguaglianza delle condizioni di partenza, 3)non è affatto contrario alla libertà individuale.
    1)Il welfare State è un prodotto del capitalismo, e certo ha rappresentato un momento di redistribuzione di ricchezza alle classi subalterne. Lo fa quando gli conviene (alzare il livello dei consumi mediante politiche keinesiane è stata un’ottima politica per aumentare anche la massa dei profitti), non lo fa in fase di ristrutturazioni dovute a processi economici mondiali. In queste fasi le tutele vengono ristrette o eliminate, ma nulla vieta , in teoria, che vengano in un futuro ripristinate. E così come il Welfare, su cui non sputo affatto) non prefigurava affatto né il comunismo né il socialismo , così la lotta sindacale per la redistribuzione, in sé cosa buona, non è lotta “politica” per la costruzione di una società diversa, tanto meno comunista. 2)L’uguaglianza ai nastri di partenza sarebbe l’ideale di un capitalismo puro. Nessun privilegio personale di nascita, razza, classe, censo, sesso, e i più bravi vadano avanti. Ma, a parte la discutibilità di tale concetto e di quello di “merito” che vi è connesso, si tratta di teoria purissima. La mano invisibile del mercato che farebbe in modo che tutto funzioni al meglio sia per gli individui che per la società, è un’utopia non meno del comunismo realizzato. Perché non tiene conto dell’essere umano, che tende a cristallizzare, fissare, e trasmettere i privilegi che ha ottenuto (sia pure ammesso e non concesso che siano frutto solo di “merito” e di bravura personale) ai propri figli/parenti/amici, e perché se guardiamo alla realtà, la concorrenza perfetta evolve sempre in oligopoli o monopoli. 3)la libertà individuale sganciata da riferimenti etici e comunitari, è appunto l’obbiettivo del capitale, il concetto tramite il quale contrabbanda la sua concezione del mondo individualista e del soggetto atomizzato e sradicato dalle appartenenze sociali.
    Ne discende che la lotta per la lotta, quantunque fatta dalle “masse” non prefigura affatto nessun comunismo, ma solo l’istanza di partecipare alle (false) promesse di ricchezza che il capitale fa balenare agli occhi delle persone. Negli anni postsessantotto andavano di moda i cosìdetti espropri proletari. Gruppetti di sedicenti rivoluzionari saccheggiavano negozi di oggetti alla moda “riappropriandosi” di quella ricchezza a cui ritenevano di avere diritto e che sarebbe stata loro estorta dai capitalisti. Aimè, costoro erano pienamente dentro la weltanschaug del capitale, ed anche se avessero espropriato tutti i negozi del mondo non avrebbero affatto costruito nessun comunismo.
    Io non disdegno affatto il miglioramento delle condizioni di vita, al contrario ciò è necessario e per questo sono necessarie le mobilitazioni, sia chiaro. Tutto questo può accadere restando dentro il capitalismo, ma quello che poni tu, quando ti riferisci all’utopia irrealizzabile del comunismo, mette in evidenza un punto importante. Ossia: oggi il punto focale non è più la lotta di classe intesa come ieri fra proletari e borghesi (domani chissà), ma fra economie di tipo capitalistico diverse. Quelle che vogliono sottoporre i meccanismi economici alle decisioni della politica e strutturare la società non solo sull’economia e sul mercato ma anche su riferimenti etici e valoriali di tipo, diciamo così, tradizionale (io direi meglio etico) , e quelle per le quali, invece, l’economia è tutto e tutto deve esserle subordinato. E questa, può forse essere anche la strada per concepire una società fondata su principi diversi e su un diverso modello di relazioni umane, ma che non voglia rinunciare all’efficienza.

  3. rodolfo granafei
    22 febbraio 2016 at 15:52

    rispetto alla vulgata indigeribile sul 68 e ismi, il vostro approccio è meritorio, anche perché il problema di non far confusione ce l’hanno solo disciplinati, disciplinari etc. – con l’ovvia riserva del disaccordo su…ciò su cui uno non è d’accordo etc.
    Rodolfo granafei

  4. rodolfo granafei
    1 febbraio 2017 at 15:41

    UN ANNO DOPO rileggendo, vorrei proporre prima di tutto una domanda: – è assolutamente sicuro che il 68 sia stato sconfitto? so bene che la vulgata è questa anche per chi tenta una riflessione non omologata. tuttavia non credo che ci siano domande vietate, quindi mi chiedo se questa “sconfitta” ci sia stata. la vulgata, della quale ho partecipato anch’io, non solo non mi soddisfa ma, da tempo, mi sembra che faccia parte dell’ideologia sessantottista. allora la mia tesi è che non solo il 68 ha vinto, ma che fino ad oggi è la più vittoriosa delle rivoluzioni – non esiste da nessuna parte un pensiero antisessantottino degno di questo nome. soprattutto, non esiste un’opposizione, ancor oggi, a questa rivoluzione. neanche un’opposizione musicale – le cose andarono diversamente sia in Francia che in Russia. direi allora che 1)il 68 è una rivoluzione vittoriosa 2)quasi nessuno tenta di dare un giudizio storico sul fenomeno perché ancora ci siamo dentro, non è finito 3)basta spostarsi da un’ottica politica a una antropologica, e si vede a occhio che si tratta di un’inaudita vittoria. ovviamente: quale vittoria? quale rivoluzione? credo che Augusto Del Noce abbia visto profeticamente nel lontanissimo 1971 che si trattava di una rivoluzione sessuale e surrealista, che in accordo con la tecnoscienza avrebbe prodotto un nuovo totalitarismo, soft perciò peggiore dei precedenti – lo vogliamo chiamare arendtianamente tirannide di nessuno? credo che LGBTQIGENDER sia una conferma smagliante di questo antico giudizio. sarei felice se si arrivasse a una vera discussione, saluti

  5. ARMANDO
    18 febbraio 2018 at 16:35

    Mi scuso per l’imperdonabile ritardo col quale prendo solo ora (non so come ma è così) conoscenza dello stimolante commento di Ridolfo Granafei, a cui devo una risposta, sia pure tardiva.
    1) Il sessantotto è stato sconfitto? Nel mio articolo intriducevo una distinzione, fra il piano politico e quello culturale. Sul primo, rispetto alle aspettative di allora,non ho dubbi che la sconfitta ci sia stata. Nessun mutamento radicale, nessuna rivoluzione su quel piano, bensì la cooptazioe più o meno mascherata dei partiti operai dentro il sistema, culminata dieci anni dopo con l’appoggio esterno del PCI ai governi a guida DC, che d’altra parte fu l’esito del “compromesso storico”. Sul piano culturale e antropologico, al contrario, concordo che quella fu una grande “vittoria”, del resto rivendicata anche da molti che di quegli anni furono protagonisti indiscussi.
    E quì c’è un punto fondamentale, e apparentemente paradossale. Affinchè ci fosse quella vittoria culturale, era necessaria la sconfitta politica. Una rivoluzione politica di tipo sovietico o cinese, sarebbe stata in contrasto con quella sul piano dei costumi. Del resto ,allora, anche il PCI era impregnato di una visione antropologica, diciamo così, di tipo tradizionale (ricordo solo la ritrosia con cui si approcciò a temi quali il divorzio e poi l’aborto). La sua trasformazione in “partito radicale di massa, (per dirla con Del Noce), e quindi la sua colonizzazione culturale ad opera del “libertarismo” sedicente di sinistra non era ancora compiuta, e quindi una sua ascesa diretta al potere, visto il consenso di cui godeva fra le masse popolari, avrebbe posto più problemi di quanti ne potesse risolvere dal punto di vista del “movimento” e degli umori che vi si respiravano, anzi che prevalevano al suo interno (quando parlo di movimento lo intendo in senso generico, con la sua miriade di collettivi, associazioni ecc., piuttosto che i gruppi politici strutturati che cercavano di riverndicarne la guida e che, come ho scritto, presentavano sostanziali diversità fra di loro).
    Il sessantotto fu quindi un grande sommovimento antiborghese, ma nella misura in cui le residue istanze culturali della borghesia erano diventate un ostacolo al pieno e libero dispiegarsi della presa del capitale su ogni aspetto della vita sociale e individuale, non fu affatto anticapitalistico in senso antropologico. Anzi, nonostante la patina di socialità di cui faceva sfoggio, fu la rivendicazione e attuazione delle più pure istanze “libertarie” e dissolutorie di ogni forma solida necessarie al pieno dispiegarsi del dominio mentale (prima ancora che sociale) del capitale. In tal senso fu fenomeno funzionalissimo alla modernizzazione capitalistica. Mario Tronti, allora filosofo di riferimento dell’operaismo italiano, ha scritto infatti, anche in senso autocritico, che quello fu un grande errore di quegli anni, dato che nulla può essere più moderno del capitalismo (e più “rivoluzionario”, mi permetto di aggiungere).
    Credo che la parabola di Lotta Continua sia paradigmatica sotto questo punto di vista. L.C. , dalle concezioni teoriche originarie, alle sue trasformazioni ed infine alla sua conclusione sotto la spinta del femminismo, del libertarismo dei costumi e della parola d’ordine “il personale è politico”, esemplifica alla perfezione tutto quanto sopra. Sul sessantotto e su una sua storia “nascosta”, mi permetto di indicare il libro di Danilo Fabbroni , “Il sessantotto, Magie, Veleni e Incantesimi Spa” (Solfanelli 2017). L’interesse del libro consiste nell’evidenziare gli inquietanti collegamenti fra la promozione della cultura “pop”, dell’ideologia dello sballo e della dissoluzione di ogni istanza antropologica e culturale tradizionale, proprie del Movimento (nonchè dei diversi personaggi che ne furono portatori idolatrati da tutti i media progressisti), con l’azione e i personaggi dei Servizi (della Cia in modo particolare). Non è necessario concordare al 100% con le conclusioni che ne trae, peraltro cautamente, per assumere dal libro importanti elementi di riflessione.
    Un altro punto focale toccato da Granafei è a mio avviso il seguente. Premetto che concordo in pieno sul fatto che a quei fenomeni culturali ci siamo ancora dentro (anzi, solo ora si dispiegano in tutte le loro potenzialità distruttive, mostrando quanto fossero pienamente affini all’ideologia del capitale merficante di ogni istanza della vita), che concordo che nella sue essenza il 68 fu una rivoluzione sessuale e surrealista di cui l’ideologia LGBTQIGENDER è conferma piena, e che quella non fu affatto una rivoluzione anticapitalista poichè sbagliò ad identificare il capitalismo con la borghesia ma la premessa all’attuale totalitarismo soft. Detto questo, rimane da chiedersi se il giudizio di Del Noce, richiamato nel commento, circa la trasformazione dei partiti comunisti in partiti radicali di massa come esito ineluttabile delle premesse filosofiche del marxismo (razionalismo e materialismo) e della sua (di Marx), incapacità ad andare oltre la pars destruens per inverarsi in quella construens come dimostra il fallimento dei socialismi reali, sia del tutto esatto. Non mi avventuro, per incapacità personale, in argomentazioni filosofiche, tanto più al cospetto di un grande filosofo quale fu Del Noce. Mi limito ad osservare, in proposito, che se la parabola tratteggiata da Del Noce coglie in pieno gli esiti della lettura, diciamo così, scolastica di Marx, sono esistite anche aree marxiste eretiche. Eretiche nel senso che, senza rinnegarlo ma anzi attingendo dal complesso delle sue opere e delle sue analisi senza trascurarne limiti e contraddizioni, hanno cercato e cercano di analizzare l’evoluzione del capitalismo attuale ben oltre quanto poteva fare un secolo e mezzo orsono lo stesso Marx, e quindi ragionare su un cambio di prospettiva nel cercare un mutamento sociale reale, che significa prima di tutto porsi fuori dall’antropologia del capitale. Ricordo solo, fra gli altri, Jacques Camatte e quell’area a lui collegata di cui fecero parte Gianni Collu (che il già citato Fabbroni ha ben conosciuto), e Giorgio Cesarano, nonchè Jean Baudrillard. Di tutto ciò abbiamo tentato di render conto su Il Covile (www.ilcovile.it), nei numeri dedicati ai “Marxisti antimoderni”, poi oggetto di una Raccolta anch’essa scaricabile, ed anche con un apposito recente seminario teorico dedicato al “Contributo di Marx alla comprensione del mondo moderno dal punto di vista della critica del valore, ed in particolare di Jacques Camatte” . Il che non esaurisce certo l’argomento, ma vuole essere solo un contributo ad una riflessione tanto più attuale quanto più ci troviamo di fronte alla crisi del mondo moderno che solo i ciechi e i sordi impongono a se stessi di non vedere e non sentire; riflessione che, come lo stesso Del Noce, scrisse, non può non confrontarsi anche con Marx .

    • rodolfo
      20 marzo 2018 at 17:05

      ringrazio Armando per la bella e stimolante risposta. la prima cosa che mi viene da dire indipendentemente dai contenuti, è che le possibilità di dialogo in senso non ideologico…resistono! credo che questa sia la cosa più importante di tutte: che gli umani escano dalle mille bolle blu tipo fb e ricomincino a parlarsi. ringrazio Armando perché è veramente da tempo che cerco una conversazione del genere nei più diversi ambienti senza riuscirci. la cosa più urgente credo che sia mettere in moto una qualche resistenza. Rispetto all’attività del Covile mi pare altamente meritoria – già, un covile di questi tempi…Rispetto ai marxisti eretici, che non conosco tutti, il più tragicamente importante mi sembra Débord – sempre w Il covile -che oltretutto aveva centrato l’essenziale: società dello spettacolo e spettacolo della società. applicabile al 68 come spettacolo della rivoluzione? quanto all’antimoderno invece avrei un’obiezione: già il tradizionalismo cattolico fu antimoderno, con gli esiti che conosciamo. in questo senso la proposta di Del Noce di un “attraversamento” più che di un antimoderno, mi sembra perfettamente attuale. come mi sembra pertinente – nella prospettiva dell’attraversamento – la riproposta di Vico che, tra l’altro, è assolutamente incompatibile con qualsiasi prospettiva LGBTQIGENDER. queste osservazioni sono sporadiche ma preferisco così per evitare che pensandoci troppo finisca per non scrivere. E quindi ringraziando ancora Armando, il mio più grande desiderio è che questo scambio, al di là dei miei limiti, funzioni secondo quella logica che Noventa individuava nei testi portatori di senso che. anche se a un certo punto presentano un punto però, silenziosamente, continuano. da ultimo, uno scherzo freudiano: se applichiamo al 68 la dialettica freudiana tra atto riuscito e atto mancato, che cosa succede?

  6. ARMANDO
    21 marzo 2018 at 18:56

    Intanto un grazie anche a te per questa discussione. Se ne sente un grande bisogno!
    Brevemente: lo scherzo freudiano su atto riuscito e mancato, secondo me ha una risposta duplice. In superficie, riferendosi quindi alla politica, fu un atto sicuramente mancato, dato che il “massimo” che ne scaturì, dieci anni dopo e per l’intervento del terrorismo, fu il compromesso storico. Nulla a che vedere con le aspettative di palingenesi. Ma sotto l’aspetto più profondo, del quale probabilmente non eravamo consapevoli neanche noi, quello più propriamente antropologico, fu un atto “riuscito”. Intendiamoci, non che riuscito significhi che anelassimo esattamente a questo. La nostra visione di allora non contemplava, nè poteva forse farlo, gli sviluppi che vediamo oggi, e se ce lo avessero chiesto allora li avremmo decisamente negati. Tuttavia fu riuscito nell’unico modo possibile per la sua inesorabile logica interna. Una volta poste certe premesse, gli esiti sono ineluttabili. Magari occorrono anni ma ci si arriva. Non solo i gruippi della sx extraprlamentare di allora, alcuni dei quali già ben avviati su quella strada, ma lo stesso PCI che era refrattario, hanno compiuto la loro evoluzione nell’unico senso possibile.
    Sul tradizionalismo cattolico: è un fenomeno anch’esso molto contraddittorio al suo interno. Accade anche che certo antimodernismo in termini di “valori non negoziabili”, si sposi poi con l’esaltazione dello sviluppo economco fine a se stesso, della tecnica, o addiriuttura del capitalismo d’antan (quello antico, della borghesia ancora portatrice di “valori”), come se il tutto fosse compatibile con la realtà e, ancora, con la logica interna di certi processi. Insomma, l’Occidente non si difende contrio un nemico esterno ma interno. Non è l’Oriente , non è l’Islam, che lo mina e lo minaccia, ma si è minato da solo. Sono d’accordo con te che quello di Del Noce non fu un antimodernismo “reazionario” (per intenderci), ma la “proposta” di ripensare una modernità possibile, quindi non nichilista e distruttiva di ogni forma, a partire dal momento in cui si verificò la divaricazione fra pensiero filosofico e teologico, considerati cose diverse e per molti aspetti incompatibili. Insomma da quando il razionalismo sfociò nell’ateismo, e l’ateismo toccò il suo momento invalicabile ma anche il puù logico in Marx. Mi fermo quì perchè non sono un filosofo e mastico certi concetti con difficoltà (anche dello stesso Del Noce)..
    L’antimodernismo a cui faccio riferimento significa il rifiuto di considerare l’uomo come essere interamente culturale o storico (che sono la sessa cosa), il che rende anche infinatamente malleabile, ma intessuto di caratteri non effimeri, non transitori. Che poi essi siano quelli voluti da Dio, o facciano parte della sua natura immanente, è altro discorso, assai difficile. A me , almeno per ora, basta si concordi su questo, il che, di questi tempi. è già moltissimo.

    • rodolfo granafei
      5 aprile 2018 at 15:49

      caro Armando, grazie per la continuazione del dialogo. sono completamente d’accordo col “rifiuto di considerare l’uomo come essere interamente culturale o storico”. il mio riferimento a Vico va in questa direzione: diventa sempre più frequente per me l’esperienza di bambini ai quali vengono negate le fiabe perché sarebbero reazionarie oppure gli vengono riciclate in senso gender. mi sembra un attacco diretto alle facoltà mitopoietiche dell’essere umano….

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