Femminismo e Capitale

Scrivere di femminismo non è semplice perché non è un fenomeno lineare ed univoco. In realtà si dovrebbe parlare di femminismi,  uniti da un minimo comune denominatore ma divisi su molte cose.  Scopo di questo articolo non è scriverne l’ennesima storia,  sulla  quale chi è interessato può trovare molto materiale cartaceo e sul web.

Ci interessa invece tentare di metterne in luce i legami, talvolta espliciti,  altre impliciti  quantunque ignorati o negati,  col capitalismo; nel senso della funzionalità  a questo  sistema economico, ma anche e soprattutto  come funzionalità  o identità nelle concezioni  filosofiche e antropologiche, in senso lato culturali, che ne sono alla base anche quando non esplicitate.

Possiamo intanto partire da una prima constatazione. Per esplicita e ripetuta ammissione di importanti esponenti femministe (ad esempio Muraro e Dominijanni),  il Patriarcato[1] è ormai  al tramonto e viviamo già in epoca post patriarcale. Cosa vuol dire allora il fatto che, al contrario,  il capitalismo è vivo e vegeto e ha ormai sconfitto  il suo avversario storico, o almeno ciò che si proponeva come tale,  diventando l’ordine economico/sociale di riferimento,  non solo per quanto riguarda i rapporti sociali ma anche e soprattutto per il modo di pensare e di rapportarsi alla realtà che ci circonda?  Ora, la fine del Patriarcato implica, necessariamente, anche la fine del suo sistema simbolico, compreso il linguaggio, ma sappiamo dalla fisica   che  ogni vuoto tende ad essere riempito, occupato. Da cosa lo vedremo.

Senza stabilire rapporti necessari di causa/effetto ma vedendone  piuttosto le influenze reciproche,  esiste una non smentibile contemporaneità fra tre fenomeni:  

1) L’affermazione e l’estensione a livello planetario  del  sistema capitalistico.

2) L’ evaporazione del padre e del suo simbolismo.

3) La nascita e la crescente influenza politica e culturale  del femminismo.

Si possono fare tutti i distinguo che vogliamo, ma da tali fatti emerge che Capitalismo e Patriarcato sono fenomeni diversi, non sempre compatibili, in particolare quando il capitalismo  dispiega pienamente la sua logica per diventare assoluto [2].    Il capitalismo dispiegato nel suo begriff è incompatibile col patriarcato, ovvero con la legge del padre, mentre al contrario è compatibile, quando non direttamente connesso,  col femminismo e con le sue concettualizzazioni.
Il minimo comune denominatore  dei femminismi  a cui accennavo sopra è la convinzione che le donne sono sempre state una categoria oppressa, quale che ne sia la ragione,  mentre lo scopo è renderle finalmente “libere”, quantunque il termine libertà sia declinato in modo assai diverso. Esso può essere inteso  in senso materiale o legislativo, ma anche in senso psicologico di autonomia dal maschile, nel senso di autodeterminazione sociale o individuale in un rapporto di sorellanza fra donne che escluda i maschi, di liberazione delle donne dal giogo patriarcale a sua volta inteso come strettamente connesso al capitalismo o come sistema di genere oppressivo ma solo in parte parallelo al capitalismo, oppure ancora come la premessa per liberazione universale di tutti gli esseri umani, anche degli stessi uomini che avrebbero molto da guadagnare da una società in cui il patriarcato fosse completamente superato, ed infine come liberazione da ogni determinazione naturalistica dell’individuo.

Scusandomi  per l’estrema sommarietà, credo  sia utile  partire  tracciando una brevissima mappa classificatoria del femminismo per poi  cercare di analizzarne i fondamentali, per quanto possibile nello spazio di un articolo.

Rispetto alla sua fase iniziale, quando le prime suffragette rivendicavano il riconoscimento alle donne dei medesimi diritti sociali degli uomini, essenzialmente il diritto di voto attivo e passivo, il femminismo si è diviso in due grandi filoni fondamentali: Il femminismo dell’uguaglianza e quello della differenza.  Occorre avvertire che tale classificazione è utile per orientarsi ma non deve essere intesa in senso rigido perché, come già detto,  esistono similitudini strette di analisi e quindi  obbiettivi comuni,  anche se motivati in modo diverso.

Femminismo dell’uguaglianza

Si può suddividere  a sua volta, nel filone liberale/individualista e in quello di classe di ispirazione marxista.

Entrambi i filoni condividono la concezione che rifiuta il legame fra psiche e corpo, e pongono l’accento esclusivamente sulla costruzione sociale delle identità, maschili  e femminili. Si parla perciò di generi (gender) piuttosto che di sessi. Tale concezione, nata e sviluppata in particolare negli USA, è stata fatta propria dall’ONU, dall’UE e dalle relative ONG che la propagandano in ogni loro documento come fosse una verità indiscutibile e si adoperano in ogni modo affinchè diventi la base educativa dei programmi scolastici, come ha già documentato Il Covile [3]. In particolare nel n. 799 della rivista, a cui rimandiamo,  ci siamo concentrati sui nessi interni fra la logica del Capitale e la Gender Theory, fino ai suoi esiti più estremi del trans umanesimo.

Ora, se quelle connessioni non disturbano affatto il femminismo liberal, pongono invece qualche problema a quello che abbiamo definito per brevità, benché con approssimazione, di classe.

Uguaglianza o uniformità nel femminismo liberal.

I legami del femminismo liberal  coi poteri forti, cioè con i governi occidentali, con le Organizzazioni Internazionali,  con le grandi fondazioni statunitensi e colle multinazionali, sono evidenti e documentati.  Ne scrive a lungo  Alessandra Nucci[4]. La sua tesi è che questo tipo di femminismo è stato elaborato a tavolino da un’elite intellettuale, e non si propone affatto di conoscere e favorire la volontà femminile, bensì di influenzarla e incanalarla per scopi non sempre corrispondenti all’interesse delle donne, e qualche volta addirittura contrari. Le donne sarebbero strumentalizzate per, leggiamo nell’abstract del libro, <<promuovere una società pianificabile, fatta di una moltitudine atomizzata di persone poco interessate ad appartenersi l’una all’altro e dunque poco interessate a riprodursi.>> L’antagonismo di classe viene sostituito  con quello fra i sessi, e la storia viene riscritta come storia dell’oppressione maschile verso le donna. In questa visione il Patriarcato è un sistema di relazione oppressiva maschi/femmine  presente in ogni epoca storica e in ogni cultura, indipendente dai sistemi economici.   Induce quelli che vengono definiti  gli stereotipi di genere,  mentre si assume  invece  come concetto che non necessita di dimostrazione  che maschi e femmine avrebbero gusti, inclinazioni, passioni e predisposizioni  identiche, che solo la cultura patriarcale e sessista non farebbe emergere. Non interessa la pari dignità di uomini e donne e non basta neanche la parità assoluta in fatto di diritti,  che nei paesi occidentali è già stata ampiamente ottenuta (e oltrepassata) sul piano legislativo ed anche in larga parta nella società civile.  Si punta invece alla costruzione di individui omologati e de identificati  partendo dalla convinzione che il sesso biologico non abbia alcun ruolo oggettivo nella definizione di ciò che è maschile o femminile,  che sarebbero solo costruzioni culturali (Gender theory).  Abbiamo già visto trattando la questione [5],  che l’individuo neutro è funzionale alla nuova fase del capitalismo finanziarizzato e mondializzato.  La Nucci  non manca di sottolineare come per arrivare a questo obbiettivo si debba necessariamente contrastare ogni credenza tradizionale.

Così descrive l’azione culturale del femminismo di genere: <<Il conseguente assalto alla cultura popolare ha preso sostanzialmente cinque direzioni: delegittimare la normalità (stereotipi), far diventare norma l’eccezione (culto della diversità), inculcare motivi di risentimento e accusa (vittimismo), delegittimare su questa base la religione cristiana e in particolare la gerarchia cattolica (patriarcato), sacralizzare con intento risarcitorio il femminile (neopaganesimo)>>[6].  La sacralizzazione del femminile in una generica spiritualità di tipo panteistico (New Age), l’attribuzione alle donne (e solo a loro) del diritto insindacabile di decretare la vita o la morte dei nascituri (diritto all’aborto libero dissimulato sotto la definizione di diritto alla salute riproduttiva), e  la corrispondente << svalutazione di tutto quanto attiene al maschile>>  in quanto ostacolo all’affermazione del mainstream di genere, fino a decretarne l’inutilità[7], sono congrui con gli scopi dei poteri forti, economici, finanziari e politici,  che puntano alla denatalizzazione, alla costruzione di individualità deboli e malleabili utili all’instaurazione di un Nuovo Ordine Mondiale sotto il loro controllo.

Sul  piano sociale  questo tipo di femminismo pone l’accento esclusivamente sulla discriminazione sessista e patriarcale che   vorrebbe  le donne confinate nel tradizionale ruolo di angeli del focolare.  Si disinteressa perciò  alle differenze (di censo,  di classe) all’interno del mondo femminile e  osteggia   ogni provvedimento di legge teso a  proteggerle,  comprese le tutele alla maternità, come residuo patriarcale e paternalista. In coerenza con l’assunto che il genere è un costrutto culturale,  lotta incessantemente contro ogni differenza ovunque si manifesti, e punta, anche mediante discriminazioni positive,   a promuovere la piena parità maschi/femmine in ogni campo della vita sociale ed economica e identiche possibilità di affermazione personale.

<<Il motore di questa trasformazione è psicologico>>[8], prosegue la Nucci, e si attua attraverso l’indignazione e il vittimismo tesi a riscrivere completamente la storia come storia dell’oppressione maschile verso le donne.  E’ ciò che Rino  Della Vecchia [9] chiama la Grande Narrazione Femminista, mediante la quale il femminismo ha assunto , è ancora la Nucci che  scrive  <<il controllo dell’etica, ovvero della possibilità di stabilire ciò che è giusto, e annullando al contempo il senso di appartenenza a qualunque struttura capace di suggerire un’etica diversa>>[10]. Le elites femministe, che non sono composte solo da donne, si sono insediate ai vertici delle istituzioni internazionali è da lì conducono la loro guerra con armi incruente  ma non meno micidiali. Si tratta, per Della Vecchia, di una guerra condotta nell’ambito dell’Etosfera, , il luogo del buono e del cattivo, del bello e del brutto, del bene e del male. Uno spazio in cui <<non si ragione, non si conosce, si sente>>, dove  non vale il principio di verità  o di logica, ma solo quello di utilità. E’ vero ciò che è sentito come utile, è falso tutto il resto, e vi  possono  coesistere concetti  ed elementi del tutto contraddittori, che però non solo non sono percepiti come tali, ma sono anzi utilizzati insieme se utili alla causa per la quale ci si batte.  Non importa che la GNF non regga ad un confronto coi fatti, dai quali sarebbe ben difficile dedurre che i maschi, cui da sempre sono stati affidati i compiti più duri e rischiosi (dal lavoro alle guerre) e che da sempre hanno protetto le donne considerando la loro vita più importante della propria, sono dei sadici oppressori col gusto di sottomettere l’altra metà del cielo. Ciò che conta è che la percezione di un’oppressione eterna e violenta diventi luogo comune per stimolare la guerra fra i sessi. In questo processo, afferma Fabrizio Marchi, [11] le donne sono state gratificate attribuendo loro un grande potere (sessuale) sugli uomini, a prezzo, però, di una mercificazione generale di ogni aspetto della vita. Mercificazione che, le donne hanno accettato, inconsapevolmente o meno poco importa,  introiettando  i canoni culturali del capitalismo e rendendosi ampiamente ad esso funzionali, tanto da essersi trasformate da elemento di rottura, come si proponevano alle origini del femminismo, nel suo principale supporto.

Il femminismo di classe  o di sinistra

Facile immaginarsi che il femminismo liberal  di ascendenza Usa, peraltro maggioritario tanto da essere considerato spesso  come il femminismo per antonomasia, abbia suscitato più di una critica, in specie in quelle correnti che si richiamano, in modo più o meno stretto, al marxismo.

Particolarmente netta  è stata  Nancy Fraser che nel 2013, sul Guardian,  ha pubblicato un articolo dal significativo titolo “Come il femminismo divenne ancella del capitalismo, e come riscattarlo”. La Fraser sostiene che la critica del sessismo è diventata una giustificazione a nuove forme di disuguaglianza e sfruttamento. <<Mentre una volta le femministe criticavano una società che promuoveva il carrierismo, ora consigliano alle donne di darci dentro. Un movimento che una volta promoveva la solidarietà sociale, ora celebra le donne imprenditrici. Una prospettiva che una volta valorizzava la cura e l’interdipendenza, ora incoraggia il successo individuale e la meritocrazia>>. Il femminismo che criticava il capitalismo organizzato di Stato, è diventato ancella del nuovo capitalismo <disorganizzato>, globalista e neoliberista.  E non perché le donne sono state vittime passive delle seduzioni neoliberiste, bensì per alcune scelte precise: 1) La critica al salario familiare in nome dell’emancipazione femminile  e del diritto al lavoro , che ha finito per legittimare il capitalismo flessibile.  Esso può avvalersi così di una massa di  manodopera a più  basso costo, più flessibile  e con minori livelli di sicurezza (insomma l’esercito industriale di riserva come teorizzato da Marx). 2)L’accento posto esclusivamente sulle questioni di genere(sessismo, critica della violenza)  piuttosto che su quelle sociali, che ha finito per fare dimenticare le prime, e 3) La critica al paternalismo dello Stato sociale, che si è coincisa con l’abbandono  da parte degli stati dei programmi macro-strutturali  orientati  a combattere la povertà.

In sostanza, le istanze del femminismo , che in origine avevano  per la Fraser una loro ragione  d’essere,  sono andate nella stessa direzione, e per questo strumentalizzate, dell’evoluzione in senso neoliberista del capitalismo.

Le problematiche sollevate dalla Fraser hanno suscitato, era prevedibile, un dibattito intenso nel femminismo di ispirazione di sinistra  intorno al rapporto fra patriarcato e capitalismo, ovvero sulla possibilità che esista un capitalismo non patriarcalista e non sessista.  Prenderò come esempio, perché mi sembra il più significativo e denso d’implicazioni, un articolo di Cinzia Arruzza sul  web [12].  L’autrice ammette, e oggi sarebbe difficile negarlo, che la struttura logica del capitale è intrinsecamente indifferente  alle differenze di sesso o di razza, ma solo ad un livello di astrazione così elevato che non può  trovare  mai riscontro nella pratica e nella storia. <<Ciò che è possibile su un piano meramente analitico e astratto e ciò che è storicamente possibile sono due cose completamente diverse>>. Nel suo funzionamento concreto il capitalismo ha come conseguenza necessaria e naturale la riproduzione costante, in forme diverse, dell’oppressione di genere.  Femminilizzazione e defemminilizzazione del  lavoro, riconfigurazione continua dei  rapporti familiari,  creano comunque nuove forme di oppressione fondate sul genere, e così come le conquiste dei  ceti subalterni  non significano che il capitalismo potrebbe fare a meno dello sfruttamento e dell’estrazione di plusvalore,  così le conquiste delle donne non prefigurano la possibilità di un capitalismo in cui non esista l’oppressione di genere.

C’è una prima obiezione  di principio da muovere a questa tesi. Qualunque giudizio se ne dia,  un capitalismo in cui non esista la separazione dei produttori dai mezzi di produzione  non è concepibile neanche teoricamente;  al contrario,  se è concepibile sul piano analitico e teorico un capitalismo non sessista o razzista, la sua realizzazione concreta dipenderà dal contesto storico,  che può ovviamente cambiare nel tempo e nello spazio, ma non può essere esclusa in linea di principio. Così fosse la enunciazione teorica  risulterebbe  immediatamente falsa.  E d’altra parte ciò che accade oggi è proprio la dimostrazione di quanto sopra. Emerge infatti con la massima limpidità che   il capitale, lasciate al loro destino  la morale e l’etica  borghesi o religiose, persegue  un solo fine: la sua riproduzione allargata. Tutto il resto viene piegato a questo scopo.  Discriminazioni, sessismi, razzismo, uso politico delle religioni,  possono essere esercitati in qualunque direzione purchè siano  funzionale allo scopo, oppure  essere osteggiati sempre per lo stesso motivo.  Pensare il contrario significa essersi fissati su una fase superata, combattere, e nemmeno con sempre buone ragioni,  un avversario immaginario, che ha già abbandonato quella trincea per spostarsi altrove.

La Arruzza intende dimostrare la sua tesi con un esempio:

<<Mettiamo che a un livello meramente astratto […] gravidanze e parti potrebbero essere interamente meccanizzati, che l’intera sfera delle relazioni emotive potrebbe essere mercificata ed espletata attraverso servizi a pagamento. Insomma, mettiamo tutto questo. Si tratta di una visione credibile sui piano storico? L’oppressione di genere può essere sostituita così facilmente da altre forme di gerarchia che abbiano la stessa presa, appaiano altrettanto naturali, siano altrettanto radicate nella psiche e nei processi di formazione soggettiva?  Qualche dubbio è più che legittimo>>.

Capitalismo e oppressione di  genere sarebbero perciò inscindibili, ma  ciò che in realtà risulta da questo esempio è  non è l’origine sociale delle discriminazioni di genere.  Fra queste sarebbero infatti le gravidanze e i  parti, di cui si auspica la  meccanizzazione. Allo stesso modo  la mercificazione e la sostituzione con lavori a pagamento delle relazioni emotive (penso voglia dire quelle che implicano un lavoro di cura, come la maternità o l’assistenza agli anziani, cioè attività tipicamente o esclusivamente femminili), non è giudicata sbagliata o inumana,  ma  semplicemente non credibile in una società capitalista. Per usare le parole, un tempo di moda, del Presidente Mao Tze Tung, la Arruzza solleva una pietra che le ricade sui piedi. L’origine dell’oppressione  consisterebbe infatti nella naturale costituzione organica femminile, dal momento che gravidanze maschili sono difficilmente immaginabili. L’emancipazione delle donne consisterebbe, semplicemente, nel superamento della natura e nella disumanizzazione della sfera emotiva.  La critica al capitalismo si riduce così al rimprovero per non riuscire in questo compito, ossia alla sua inefficienza, superabile, forse,  in un altro tipo di struttura sociale. Il femminismo di origine marxista finisce così per saldarsi con l’altro filone che, partendo dalla negazione del dato naturale, la corrispondenza fra corpo e psiche, approda infine, ossessionato dalle differenze,  al  transumanesimo.  In realtà l’Arruzza sottovaluta semplicemente le capacità del capitalismo di ottenere quelle che lei considera come conquiste.

Non si fanno invece troppi problemi le autrici della storia del femminismo del sito Leonardo.it [13]. Vi si inneggia senza riserve  al fatto che, depurati dalle scorie delle pretese rivoluzionarie ben presto appannatesi,  gli anni della rivoluzione giovanile e femminile hanno innescato una vera  rivoluzione antropologica sull’onda dello sviluppo capitalistico in senso edonistico e consumista.

<<La liberazione della donna ha mutato la società. Dal 1972 è nata un’altra donna e tutte le altre conquiste che avverranno sono legate a questa mutazione antropologica di questi anni, dove e soprattutto e innanzi tutto non solo la donna ha mutato il suo carattere, ma ha fatto parallelamente mutare carattere anche all’uomo. Col ’72, infatti, si sono spente le ultime manifestazioni della contestazione, ed è calata anche la spavalderia, l’arroganza e l’egocentrica opinione che l’uomo aveva di se stesso. Le donne diventarono sempre più belle, sicure, attraenti, eleganti, e se voleva l’uomo  competere doveva adeguarsi agli stessi canoni. Il medioevo era finito>>,  mentre <<Sulla ribalta salgono Versace, Valentino, Trussardi, Ferrè, Litrico, Cardin e tanti altri. E iniziano le modelle. E’ inziata una nuova era (più gradevole).>> Insomma l’era della Milano da bere. Neocapitalismo consumistico  e femminismo  dell’eguaglianza finiscono  per supportarsi l’un l’altro, in analogia con quanto  accade quando la critica  al capitalismo, anziché incidere, o almeno tentare di farlo, sui rapporti di produzione,   si limita a criticarne gli aspetti sovrastrutturali , la sua produzione “ideologica”,  scambiati per il  suo fondamento.  Accade così un curioso fenomeno di simmetria.    La destra liberista, e non tutta,  intende difendere gli antichi valori borghesi e religiosi, ma  risulta perdente perché non capisce  che  sono ormai incompatibili con gli assetti economici del moderno capitalismo globalizzato, di cui è paladina.  La  sinistra liberal e progressista intende  decostruire  quei valori, ma così facendo  si pone come pienamente funzionale  al  capitale che necessita di   liberarsi di quelle scorie  ormai obsolete e inservibili . Lo dimostra oltre ogni ragionevole dubbio la parabola dei partiti ex marxisti, che hanno finito per accettarne pienamente la logica e la weltanschaung , diventando anzi il volto moderno, gradevole, democratico e politicamente corretto del capitalismo. Idem per il femminismo,  o almeno per questo femminismo.

Il femminismo della differenza

La negazione di  ogni differenza ontologica e  di ogni determinazione corporea dei sessi, conduce  il femminismo dell’uguaglianza, al di là di ogni intenzione originaria, a collocarsi nel campo del capitale, come abbiamo tentato di dimostrare.

Si finisce per bloccarsi su definizioni ed analisi di tipo esclusivamente sociologico, ma con ciò si rimane alle soglie del problema, rinunciando ad indagare l’universo simbolico originario del maschile e del femminile,  l’unico atto a render conto in modo non superficiale della storia del rapporto maschi/femmine,  e a partire dal quale poter anche indagare  come quegli universi simbolici si sono espressi  in concreto  nei sistemi socioeconomici che l’umanità si è data.

A questa problematica ha tentato invece di dare risposta il femminismo della differenza.

Anche questo femminismo è attraversato da differenze importanti.  Ne esiste infatti una versione, diciamo così dozzinale nonché  inconsistente sul piano teorici e pratico,  che legge la differenza  nel senso di gerarchia etica e morale, nonché di capacità razionale, ossia d’intelligenza. Le donne sarebbero  predisposte alla non violenza, alla solidarietà, alla cooperazione anziché alla competizione, alla pace invece che alla guerra, all’accoglienza invece che all’esclusione.  E per di più il loro cervello funzionerebbe meglio, sarebbero cioè complessivamente più intelligenti degli uomini. Lo si sostiene, ad esempio, in alcune così dette ricerche scientifiche [14] , ed è ciò che il prof. Veronesi si incarica di propagandare ogni volta che ne ha occasione. Ne discende che un mondo governato dalle donne sarebbe una specie di novello Eden. Non vale la pena spendere  parole per  contestare queste idee paranoiche.  Sono semplicemente avulse dalla  realtà, indimostrabili  e indimostrate ma soprattutto  il frutto di un inedito razzismo di genere che imprime agli uomini uno stigma inemendabile.  Semmai è da sottolineare che grazie all’inesauribile lavoro di propaganda mediatica e culturale[15],  queste idee sono penetrate  in larga parte dell’universo femminile ma anche in quello maschile e, come sottolinea ancora Alessandra Nucci, utilizzate dai poteri forti per disgregare ogni spirito di solidarietà fra uomini e donne in vista del Nuovo Ordine Mondiale.

Esiste però anche un altro filone del femminismo della differenza che, benchè minoritario sul piano della diffusione,  ha dignità culturale e un importante spazio soprattutto in Francia ed in Italia.  Deve per ciò  essere preso in seria considerazione.  Lo faremo  discutendo  soprattutto  le tesi due autrici importanti, Luce Irigary e Luisa Muraro.

Questo femminismo non  entra , se non per accenni, nel merito specifico dei rapporti fra discriminazione delle donne e capitalismo. Benché quel rapporto possa essere dedotto, rimane quasi  sempre sotto traccia e raramente esplicitato. Il punto di partenza è la constatazione, in senso generale sicuramente condivisibile, che maschi e femmine sono diversi in quanto portatori di istanze, modi di essere, di pensare, di ragionare, non riducibili l’uno all’altro. Ma, si sostiene, tutto quanto è femminile, a iniziare dal sistema simbolico, è stato emarginato e soffocato dal patriarcato, sistema ben anteriore al capitalismo come noi lo conosciamo , che ne sarebbe solo una variante.  Per  iniziare a far emergere la trama delle idee del femminismo della differenza  possiamo usare le parole di Luisa Muraro, ,  importante esponente della Libreria delle donne di Milano e membro della comunità filosofica femminile Diotima [16].  Parlando del libro Diotima, Potere e politica non sono la stessa cosa (Liguori, Napoli 2009), di cui firma la prefazione insieme a Chiara Zamboni, afferma  proposito degli effetti del femminismo in epoca post-patriarcale che <<tra privato e pubblico c’è osmosi, le tecniche del potere si sostituiscono all’autorità tradizionale delle donne nel lavoro di cura, i media fanno entrare la soggettività più intima nella visibilità pubblica..>>. Dunque  l’irruzione delle tecniche di potere nel lavoro di cura, ossia la loro mercificazione e l’ingresso nel mercato sarebbe un esito positivo della caduta del patriarcato? E l’insopportabile chiacchericcio del gossip mediatico che mischia vita privata e politica sarebbe anch’esso un effetto positivo del femminismo? Giudichino i lettori, ma l’assonanza con quanto scrive la Arruzzi è evidente.

Altre femministe, sia pure in modo contraddittorio, hanno invece una qualche consapevolezza che la fine del patriarcato non significa di per sé una società migliore. Per Sartori Ghirardini[17], anch’essa esponente di Diotima, infatti,
<<…con la venuta meno del patriarcato viene meno anche il suo ordine, ma il risultato non è immediatamente un nuovo ordine, quanto piuttosto un aumento del disordine, e il ritorno a forme di
regolazione, concettualizzazione, azione, emozione, più arcaiche, sempre più spesso elementari e violente>> Si assiste infatti alla << liberazione di un immaginario patriarcale ormai non più regolato dall’ordine simbolico del padre>>.
C’è una evidente contraddizione logica nella proposizione per cui il patriarcato, per definizione fondato sulla legge del padre ossia su un sistema di regole e norme,  libererebbe morendo  il suo immaginario senza regole.  Per la Sartori Gherardini il suo posto è preso in un primo momento da forme di fratriarcato con conflittualità sregolata, per superare il quale occorre seppellire, dopo Dio e il padre che lo rappresentava in terra, anche la madre patriarcale, ossia quella <<madre spettrale dove si confondono le vecchie paure e le nuove, le tradizionali matrifobia e idealizzazione materna  e le più recenti fobie e nostalgie innescate dalla nuova libertà femminile>>.
Si tratterebbe dunque della necessità di tornare a un’origine ancora più arcaica, ancor più regressiva, luogo e tempo dell’Eden. A cosa corrisponde in termini psichici lo vedremo.

Tormando a Luisa  Muraro,  nell’intervento già citato  insiste su un concetto: nella politica delle donne,

<<il primo posto  viene dato alla pratica del partire da sè […] non facile da far intendere a chi non la conosce in prima persona. Il partire da sé è un pensare non in base ad una rappresentazione ma ad un rapporto vissuto personalmente fra sè e ciò che è in questione, esplicitandolo: io dove sono, che cosa desidero, che cosa m’interessa di questa faccenda. E’ come schiodarsi da una fissità di dentro e fuori, io e gli altri,  nel tentativo di situarsi non astrattamente>>; <<il personale è politico, non c’è separazione tra pubblico e privato>> .   Ancora nello stesso intervento leggiamo che  <<abbiamo concepito la politica come un agire che si avvale di relazione e scambi in cui le persone interessate portano l’energia dei propri desideri e la lucidità della verità soggettiva>>.

E continua  <<Se una è femminista, per lei è importante che ci sia libertà per ogni donna che viene al mondo, libertà di pensare e di agire in rispondenza ai propri desideri e, prima ancora, libertà di
desiderare senza misure stabilite da altri: che sia lei, la singola, l’interessata, a dire e decidere quello che la riguarda>>.  Sono parole importanti, da tenere in mente quando tratterremo dei caratteri del
capitalismo attuale.  Qui  è da sottolineare che della simmetrica libertà maschile non c’è traccia, come se questa fosse presupposta esserci da sempre e quindi la legge del padre implicasse norme e limiti per le sole donne, ma questo come vedremo con parole di altre femministe non è vero, oppure, come più probabile, e anche su questo ritorneremo, di tutto ciò che riguarda il maschile e il paterno alla Muraro non importa nulla, con tanti saluti alla pretesa di liberazione universale che il femminismo ama proporre come suo scopo.

Non può  sorprendere che la stessa Muraro, commentando il saggio di  “Genealogie femminili”, scriva  che queste genealogie sfuggano ad essere definite con precisione.

<<Questo tema si trova infatti sul confine fra dicibilità e indicibilità, come del resto molta parte, non sappiamo quanto grande, dell’esperienza femminile>>.[18]
Il femminile implica quindi per comune ammissione, un elevato grado di soggettività nell’approccio alla conoscenza. Si può dire che quel tipo di approccio è opposto a quello maschile, il cui sguardo, almeno intenzionalmente, si pone dall’esterno, con lo scopo di oggettivizzare la conoscenza, astrarla dal sentire personale, separarsi dall’oggetto, segmentarlo, dividerlo per poi ricomporlo alla fine completo dei nessi logici fra le sue parti, individuati ed esplicitati. E’, appunto,  quella differenza fra maschile e femminile  che Erich Neumann,[19] , così descrive:
<<La coscienza matriarcale che osserva non deve essere confusa […] con il distanziarsi della coscienza maschile che porta alla scienza e all’obbiettività; essa viene diretta da sentimenti e intuizioni concomitanti fondati su processi semi-consci, con il cui aiuto l’Io si orienta con una forte partecipazione di tendenze emotive. […] Si tratta di un tipo di percezione totale a cui prende parte tutta la psiche, nella quale l’Io ha il compito di condurre la libido verso l’evento vitale osservato e di rafforzarlo, più che astrarre da esso e giungere così ad un ampliamento della coscienza.>>  Si tratta insomma di una conoscenza che parte da un movimento esattamente inverso a quello maschile oggettivante, e che Jung paragonò a una gravidanza, a un render pregno.   <<Per la coscienza lunare [femminile. ndr] la conoscenza è al di là dell’affermazione, del resoconto e della testimonianza. E’ come un possesso interiore che si sottrae facilmente alla discussione poichè il processo conoscitivo interiore, entro il quale si trova questa conoscenza, non è esprimibile adeguatamente e può essere trasmesso molto male a qualcuno che non lo abbia sperimentato>> .   <<Le conoscenze della coscienza matriarcale non sono indipendenti dalla personalità che le sperimenta, non sono astratte e prive di emotività, poichè essa mantiene il legame con quelle zone dell’inconscio da cui quelle derivano. Quindi possono essere spesso in contrasto con il conoscere della coscienza maschile, fatto di contenuti consci, idealmente isolati ed astratti, privi di emotività, dotati di generale indipendenza dalla personalità>>. Quindi per Neumann   il conoscere femminile  è <<vitale di tipo generale […] appartiene al campo della saggezza e non della scienza>>. [20]
Ora, se la conoscenza femminile è,  per  esplicita ammissione delle stesse autrici del femminismo differenzialista, inscindibile dalla percezione soggettiva,  è  quanto meno incongruo che la Irigary, in polemica con Freud,  parli  del narcisismo come fenomeno maschile quando invece è evidente  il contrario. <<La descrizione freudiana dell’invidia del pene, nella donna, è guidata secondo la Irigary, dallo sguardo maschile: è l’uomo che non vede nella bambina niente di simile a sé e ne resta inorridito, per cui costruisce un parallelismo fra la paura maschile della castrazione e l’invidia femminile del pene;  ma è l’uomo a provare la paura della castrazione e a veder rispecchiata tale paura nella donna; se il rassicurante specchio femminile non rimandasse questa immagine, se non ci fosse, da parte femminile invidia del pene, la costruzione maschile narcisistica crollerebbe>>[21] .  Ma non tanto questo è importante , quanto  la necessità per le donne di parole, di un linguaggio, ossia di un simbolico conforme all’esperienza femminile, e che riesca a comprendere il linguaggio del corpo e quello gestuale.

La questione del simbolico materno/femminile  è cruciale anche  in Luisa Muraro, ma con una differenza importante rispetto alla Irigary. Mentre per questa, infatti, esistono <<due principi dell’essere e della simbolizzazione>>, l’uno paterno e maschile e l’altro materno e femminile, e si tratta di non sacrificare l’uno per l’altro ma di affiancarli e farli coesistere,  per Luisa Muraro << non c’è che un solo principio, quello materno, del quale sinora solo gli uomini hanno beneficiato, o si sono appropriati, persino dissimulando
e scartando le donne>> nota  Francoise Collin[22].
Per la Muraro, [23]  occorre costruire un ordine simbolico materno, quindi un complesso culturale, concettuale e linguistico, a partire dal fatto incontestabile,   che è anche il primo autentico momento della conoscenza,  della relazione con la madre.   Questa relazione primaria, cito da Wikipedia, è <<fatta di contatti,di  gesti, di parole, di reciproca comunicazione nella quale non si distingue il corpo dalla mente  e la mente dalla parola, è il luogo dell’immanenza, della presenza intera dell’essere. Saper amare la madre, l’esperienza di relazione  con la madre, dà così  il senso autentico dell’essere,  e il senso autentico dell’essere si manifesta nella coincidenza di avere senso ed essere vero. Saper amare la madre è dunque il principio della conoscenza, ma la rimozione culturale del nostro rapporto con la madre che si verifica con l’avvento della legge del patriarcato, la quale si sovrappone all’opera positiva della madre, ha l’effetto di scindere la logica dall’essere ed è causa del nostro perdere e riperdere il senso dell’essere >>.

Coerentemente con la concezione secondo cui il filo conduttore della storia sarebbe l’oppressione maschile sulle donne a partire dalla prevaricazione violenta del Patriarcato sul Matriarcato,  la Muraro delegittima e azzera  la cultura, da Platone e Aristotele fino a Cartesio e oltre, inclusi Freud e la psicanalisi, Jung e la psicologia analitica, ed anche, stavolta in accordo con la Irigary, le narrazioni mitiche della Grecia.  Di esse rifiuta la  complessa lettura metastorica, considerata una distorsione patriarcale, in favore di una lettura esclusivamente storica,  quasi letterale. Così, ad esempio, nell’Orestea  vede semplicemente l’instaurarsi violento e in senso sociologico della società patriarcale su quella matriarcale che la precedeva. Ogni altra interpretazione della dialettica patriarcato/matriarcato, ad esempio in senso psichico, non è presa in considerazione per il semplice motivo che  minerebbe il suo   impianto teorico.

Il simbolico materno si costruisce dunque col ritorno alle origini primigenie, ma per via esclusivamente femminile, attraverso la riappropriazione del rapporto d’amore madre/figlia che il patriarcato ha reciso.  Da questo punti di vista esiste una evidente asimmetria fra i sessi,  perchè il maschile necessita di un distacco del quale tuttavia si nutre perchè, secondo Freud, non è costretto a staccarsi dall’amore per l’altro sesso ma lo trasferisce su un’altra donna, elevandola a musa ispiratrice e interlocutrice, mentre la femmina, negando la madre, nega anche il proprio  sesso per poter rivolgersi all’altro.  E’ questa negazione dell’amore materno/filiale, imposta dal patriarcato, che la Muraro contesta per riappropriarsene e concettualizzare, appunto, l’ordine simbolico della madre.
In lei non c’è, come nella Irigary, la consapevolezza che l’amore fusionale   è un ostacolo  e non un aiuto anche per la donna,  perchè costringe a identificarsi tout court col materno, e pensarsi, come donne, tutte sorelle nell ‘utopia di una sorta di comunismo matriarcale primitivo, in cui ogni aggressività è rimossa.
Nella Muraro, non c’è posto per il padre.   In una intervista con Ida Dominijanni[24] esplicta chiaramente il concetto a partire dalla rivendicazione del privilegio di <<essere nata dello stesso sesso della madre>> . E il padre? << Quando nel libri compare, il padre è l’uomo che si affianca alla donna e alla sua maternità, e che lei indica ai suoi figli: questo è vostro padre. In altre parole io non trovo nessuna ragione per difendere la necessità del padre, della legge del padre, pur ammettendo che un uomo, gli uomini, possano invece avere questa necessità. Sono d’accordo con te che un simbolico materno che esclude ogni altro amore, ogni amore dell’altro, sarebbe gravemente difettoso, ma non penso che questo altro debba essere il padre>>.  Non avrebbe potuto essere più chiara nella subordinazione e nell’insignificanza della figura paterna, priva di uno statuto simbolico proprio e ridotta a puro ausilio della madre.

Nella stessa intervista la Muraro accenna anche  all’attuale <<ordine (o disordine) capitalistico>>, ma  come scrive un autore insospettabile, Massimo Recalcati[25],  << La condizione strutturale per accedere al desiderio implica un divieto di accedere al godimento assoluto della Cosa>>, e quindi la Legge del padre si configura non come pura interdizione ma <<come dono della facoltà del desiderio>>, mentre senza quella legge si afferma il  <<discorso del capitalista>>, che sfrutta la convinzione che <<il soggetto sia libero, senza limiti, senza vincoli, agitato solo dalla sua volontà di godimento>>, per illuderlo di poter trovare soddisfazione nel consumo avido di oggetti, quando in realtà, “liberato” dal limite imposto dalla Legge e perciò dal desiderio autentico, ciò che lo spinge è la ricerca della <<Cosa assoluta del godimento>> (l’incesto materno).  

Il rifiuto del padre e della sua legge, dunque, si inscrive di per sé nell’ordine logico e filosofico del capitalismo, regolato sul concetto di illimitatezza.

Si delinea così in modo chiaro la contiguità, anzi l’identità, anche del discorso del femminismo della differenza cogli assunti filosofici del capitalismo, che tuttavia deve essere ancora meglio esplicitata.  Se finora abbiamo visto il significato della negazione del padre, ora dobbiamo ragionare sul significato del ritorno alla madre, così come lo assumono la Muraro e la Sartori Ghirardini.

E’ da sottolineare, prima di tutto, che l’esistenza e la legittimità di un ordine simbolico materno/femminile non è mai stata messa in discussione in nessuna delle civiltà definite patriarcali.  Come nel mito di Demetra/Core così nell’Orestea,  il patriarcato non ha soppresso il simbolismo materno/femminile;   Core può tornare periodicamente alla madre, le Erinni diventano le Eumenidi. Stando all’attualità, per  lo psicanalista Franco Fornari l’affermarsi del codice affettivo  materno, il <<regno della madre>>,  è decisivo e insostituibile per la vita del bambino.  Gli dona sicurezza affettiva e materiale, appagamento di ogni bisogno. Ma al tempo stesso il rapporto madre/bambino è anche ambivalente perché intessuto di violenza. Durante il parto la madre oscilla tra il timore di morire e quello di far morire il figlio, il bambino sperimenta l’angoscia  della perdita della beatitudine onnipotente provata nella vita intrauterina.  E’ perciò necessario che la simbiosi positiva madre/bambino venga prolungata  temporaneamente oltre la nascita, ed a questo provvede il padre assumendo il compito di <<ammortizzatore e mallevadore dei pericoli che minacciano la nascita del figlio dell’uomo>>.  Il padre diventa così, in un primo momento il garante dell’affermazione del codice materno da lui definito autocentrico, ma in seguito anche l’operatore della separazione fra madre e figlio  la cui simbiosi proseguirebbe naturalmente fino a diventare regressiva e psichicamente mortifera senza l’instaurarsi del codice paterno eterocentrico.

Qui è il punto decisivo, perché  la dinamica individuale descritta da Fornari vale anche quando ci trasferiamo sul terreno transpersonsale.   Descrive gli stadi di sviluppo dell’umanità dalla situazione originaria di prevalenza dell’inconscio, dell’indistinzione fra l’io e il tu e fra l’uomo e il cosmo circostante, che Neumann chiama partecipation mistique,  a quella della emersione progressiva della coscienza egoica,  ossia in una parola della cultura. Se intendiamo con  Patriarcato e Matriarcato non tanto  una struttura sociologica di dominanza del gruppo maschile o femminile (fra l’altro di dubbia prova storica e comunque largamente inservibile per analizzare le strutture psichiche di una società, ben più complesse e intrecciate),  quanto invece come dominanza dell’archetipo paterno o materno, emerge allora che il patriarcato ha avuto una funzione emancipativa per l’umanità.  E qualsiasi eccesso a cui ha potuto dare luogo, qualsiasi inflazione del maschile/paterno ai danni del femminile/materno  si sia verificata, non inficia minimamente il fatto che, come il singolo  bambino (maschio e femmina anche se con modalità e difficoltà diverse che non possiamo qui analizzare)  si deve staccare dalla madre per diventare adulto, così l’umanità, per diventare adulta,  è dovuta passare dallo stadio psichico matriarcale a quello patriarcale.  Sul piano soggettivo ciò non significa  dover rinnegare il rapporto positivo con la madre che anzi rimane essenziale <<per poter diventare madre anche psicologicamente>>[26],  bensì distaccarsi dalla totalità originaria e sperimentare il lato della coscienza, che anche la donna vive come simbolicamente maschile.  Questo è il vero senso di  ciò che il femminismo definisce come negazione patriarcale del simbolismo materno. In assenza di tale distacco, mentre il maschio subirà una castrazione simbolica, la femmina potrà lo stesso  <<realizzarsi completamente  dal punto di vista femminile e naturale>>[27], tuttavia non sperimenterà lo spirito.

L’ordine simbolico della madre auspicato dalla Muraro, in assenza di un ordine simbolico del padre, significherebbe né più né meno che la regressione all’indistinzione originaria, all’indifferenziazione tipica del rapporto simbiotico madre/bambino, orientato all’autosufficienza, all’onnipotenza, alla soddisfazione illimitata del bisogno.

Ma tutto ciò corrisponde  in pieno alla logica del capitalismo attuale,  emancipato dai fastidiosi limiti esterni che gli ponevano nelle prime fasi del suo sviluppo l’esistenza di una religione del padre e quella di classi, che per quanto contrapposte e in lotta l’una contro l’altra, avevano una loro weltanschaung irriducibilmente opposta o solo parzialmente sovrapponibile a quella del capitale.

<< In una disgregazione integrale sia dell’Io, sia del Super-Io [configurazione tipica della psiche attribuite dal femminismo al Patriarcato. N.d.r.], l’antropologia proposta dal capitalismo assoluto-totalitario è, su ogni fronte, quella della destrutturazione […] dell’ego cogitans cartesiano, destrutturazione volta a instaurare l’egemonia assoluta del desiderio illimitato, funzionale alla logica del cattivo infinito dell’accumulazione>>[28].

Verità soggettiva, illimitatezza e libertà del desiderio, ritorno alla madre e rifiuto del limite paterno, esaltazione  oppure rifiuto di ogni differenza entrambi cangianti in in-differenza, così la rivoluzione sessantottina e femminista sono diventate funzionali alla logica de-emancipativa  del capitale.  De-emancipativa perché per attuarsi deve operare una regressione del soggetto all’indistinzione delle origini e re-immergerlo  in uno stato di unificazione mistica col cosmo nella quale si perdono le differenze.  Vale allora la pena, per terminare, spendere alcune parole sulla spiritualità new age. Lo faremo con le parole di Alessandra Nucci [29]. <<Il pensiero femminile quindi serve a veicolare […] anche un modo di pensare che corrisponde ad una filosofia totalizzante, ovvero al modo olistico di vedere il mondo come un tutto unico, in cui l’umanità è posta sullo stesso livello delle piante e degli animali e il raziocinio è secondario all’emozione. Questo corrisponde alla corrente di irrazionalismo neo-romantico femminista e New Age, che celebra la sorellanza mistica fra le donne di tutto il mondo. In virtù cioè dell’appartenenza al genere femminile, le donne che si mettono in sintonia colla natura supererebbero le barriere etniche e linguistiche per intendersi automaticamente e in quasi arcadica armonia sui temi della pace, dell’ambiente, della legalità ecc>>.  E’ lo stesso programma del capitalismo globalizzato che intende unificare anch’esso il mondo, ma sotto la forma  merce.

Note:

[1] Per una analisi più approfondita del concetto di Patriarcato rimando al mio libro La Questione Maschile oggi, Settecolori , 2014, nel quale propongo chiavi di lettura diverse e a mio avviso più congrue rispetto a quella corrente.  Tuttavia in questa sede assumiamo per brevità il termine nel significato più comunemente accettato di sistema sociale fondato sulla discriminazione di genere.

[2] Per l’evoluzione del capitalismo da una prima fase  astratta a quella odierna  assoluta-totalitaria (definita come penetrazione del sistema delle merci e della sottesa ideologia in ogni poro della vita sociale e individuale), passando per la fase dialettica (definita dallo scontro di classe e dal permanere di forti contraddizioni anche all’interno delle classi), si veda Diego Fusaro, Minima Mercatalia, filosofia e capitalismo, Bompiani/RCS Libri, 2012/2013, e  Costanzo Preve, anomalia della sinistra non normalizzata, in www.ilcovile.it n. 797.

[3] IL Covile n. 764, 768, 776, 788

[4] A. Nucci, La donna a una dimensione, femminismo antagonista ed egemonia culturale, Marietti 1820, 2006.

[5] Il Covile, n. 799

[6] A. Nucci, op. cit.,  pag.  22

[7] Si veda, ad esempio, la teoria dell’affidamento fra donne, teorizzata da A. Cavarero e F. Restaino in Le filosofie femministe, Paravia B. Mondadori, Milano 2002.

[8] A. N., op, cit., pag. 12

[9] Rino Della Vecchia, Questa metà della terra, Altrosenso Saggi, 2004

[10] A. Nucci, op. cit., pag 16

[11] Fabrizio Marchi, Le donne:una rivoluzione mai nata, Mimesis edizioni, 2007.

[12] http://www.communianet.org/content/riflessioni-degeneri-3-il-capitalismo-indifferente . .

[13] http://cronologia.leonardo.it/storia/a1972g.htm

[14] Si veda  www.maschiselvatici.it/…/403-nuove-vecchissime-scemenze-sul-maschio e www.maschiselvatici.it/archivio/claudio_rise/maschio.htm

[15] Si veda Il Covile n. 357, I maschi, l’ultima porta, a sinistra, ripreso in A. Ermini, op. cit.

[16]  http://senonoraquandoreggioemilia.wordpress.com/2011/05/16/intervento-di-luisa-muraro

[17] In Piero Coppo, Note a margine di L’ombra della madre di Luisa Muraro.  In I fogli di ORISS, 29,2008, da cui sono tratte anche le citazioni successive.

[18] http://www.girodivite.it/Luce-Irigaray.html

[19]  Erich Neumann, Psicologia del femminile, Astrolabio, Roma MCMLXXV

[20] E. N., op. cit., pag. 69,70,71

[21] Il Pensiero della Differenza:Luce Irigary, a cura di Wanda Tommasi, in http://www.filosofico.net/irigary2.htm  

[22] Francoise Collin, Il pensiero della differenza. Nota su Luisa Muraro. In file:///C:/Users/Admin/Downloads/4643-4790-1-PB%20(2).pdf

[23] Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, 2006.

[24] http://www.ecologiasociale.org/pg/dum_fem_muraro3.html

[25] Massimo Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina Editore, 2011. Per la recensione del libro si veda http://www.maschiselvatici.it/index.php/libri-cinema-musica-eventi/abbiamo-letto/187-cosa-resta-del-padre

[26] Erich Neumann, op. cit., pag. 21

[27] Ibidem, pag. 20

[28] Diego Fusaro, op. cit., pag. 395

[29] A. N., op. cit., pag. 177

Fonte: http://www.ilcovile.it/scritti/COVILE_804_Ermini_femminismo.pdf

5 commenti per “Femminismo e Capitale

  1. Animus
    1 febbraio 2016 at 14:13

    >L’ordine simbolico della madre auspicato dalla Muraro, in assenza di un ordine simbolico del padre, significherebbe né più né meno che la regressione all’indistinzione originaria…tutto ciò corrisponde in pieno alla logica del capitalismo attuale,

    Caro Armando, un tale, (S. Freud) quasi cent’anni fa scriveva:

    “Il giudaismo era stato una religione del Padre, il cristianesimo diventò una religione del Figlio.
    L’antico dio padre si ritirò dietro Cristo, e questi, il figlio, venne al suo posto …
    Per alcuni aspetti la nuova religione significò un regresso … essa non era più rigidamente monoteistica, dai popoli circostanti assunse numerosi riti simbolici, restaurò la grande Dea madre e trovò spazio ove collocare molte figure divine del politeismo, appena dissimulate, seppure in posizione subordinata.

    Il cristianesimo, nato da una religione del padre, diventò una religione del figlio (e della madre n.d.r).
    Non sfuggì, così, al destino di doversi sbarazzare del padre.”

    • armando
      2 febbraio 2016 at 10:39

      Caro Animus, la questione è complessa, e credo sia riduttivo dire che il cristianesimo ha risuscitato l’antica dea madre, sia che sia diventato la sic et simpliciter la religione del figlio. Naturalmente non sono un teologo, quindi le mie affermazioni saranno sicuramente deboli, ma nella tradizione cristiana la figura del Padre non mi sembra sullo sfondo. Semmai ce l’hanno messa alcune “ardite” interpretazioni alla moda e in sintonia coi tempi. Ora non la ricordo bene, ma mi sembra che nel film di Mel Gibson su Cristo, ci fosse una scena significativa in tal senso. Il culto mariano, in definitiva, mi sembra corrispondere al fatto che sempre la figura materna terrena è stata quella che assicura al figlio la sicurezza affettiva, e funge da “intermediaria” col padre al quale spetta la decisione diciamo così “suprema”. E’ quello che è sempre stato chiamato il “potere silenzioso d’influenza del femminile e del materno sul maschile/paterno. Naturalmente tale potere può essere “contenuto” nel suo ambito naturale e non trovo in ciò nulla di strano, perché nessuno è onnipotente e il padre non è un autocrate, ma può anche tracimare e diventare un potere decisionale effettivo, subdolo in quanto occulto, pericoloso perché non si prende alcuna responsabilità che invece lascia al “burattino” di schermo. E’ quello che sta avvenendo oggi. Anzi anche peggio, perché il femminile materno esige due poteri contemporaneamente: che gli sia riconosciuto quello ufficiale e pubblico, e che sia mantenuto quello occulto tradizionale. Ma questo accade in gran parte per responsabilità e colpa maschili.

      • Giacomo
        12 febbraio 2016 at 16:46

        L’idea che il Cristianesimo fosse una “religione del figlio” non la ritengo del tutto sbagliata, è stata analizzata nel libro di Luisa Accati “Il mostro e la bella” tra le altre cose. Tuttavia vanno posti alcuni paletti. Innanzi tutto come scrive la Accati questo si applica principalmente al cattolicesimo e non al cristianesimo come un suo intero, ed inoltre il cattolicesimo rimane una religione a guida fortemente maschile, forse anche più del protestantesimo. Tuttavia esso, a mio avviso (ed ad avviso della Accati), ha una preferenza per il femminile nella misura in cui i suoi preti sono soggetti al celibato, perché il modello femminile di riferimento resta in fondo la madre (e quindi l’indifferenziato femminile di cui si discute anche sopra). In pratica è si “una religione del figlio”, ma chi comanda sono i figli, non le madri: il principio materno trova il suo limite nella guida dei figli, che restano tali anche in età adulta. Mi colpì molto un libro che lessi qualche tempo fa in cui si descriveva lo stretto rapporto tra Heiddeger e il vescovo di Friburgo (se non ricordo male) e soprattutto il rapporto di entrambi con la madre del vescovo, è curioso come alla fine della guerra quando il nazismo era crollato, Heiddeger si confessi a lei (e non a lui) tutti i suoi dubbi sul passato e sul futuro. Ripeto però parliamo di cattolicesimo, per gli altri cristiani il pater familias è effettivamente sul piedistallo e più vicino al Dio padre (seppure questo resta inavvicinabile).

        • armando
          14 febbraio 2016 at 13:53

          la questione del pater e della mater, come sempre, non è facile a dipanarsi. le religioni non si distinguono in tal senso da ciò che accade nelle società civili. Io starei attento, in tali questioni, a non separare troppo nettamente le cose, ossia a non tendere, nel dare la precedenza al principio paterno/maschile o al suo opposto, ad escludere l’altro ponendolo in posizione subordinata quando non escluso in linea di principio, come fa la Muraro. Non mi addentro oltre in questioni teologiche su cui la mia competenza è assai limitata. Ricordo però che nella storia il potere femminile/materno è sempre stato molto superiore a ciò che appare nei documenti pubblici. E’ quel potere interno, di influenza silenziosa, quindi di “consigli”, di cui gli uomini si sono sempre avvalsi, alle volte considerandolo in modo autonomo altre volte essendone eteoridiretti. Un conservatore americano, Wendell Berry, ha scritto (non ricordo dove ma potrei ritrovarlo) a proposito dei rapporti fra i sessi. “Date retta alle donne quando non hanno troppo potere”. La frase vuol significare, secondo me, che alle volte le donne sono capaci di saggezza concreta anche più degli uomini, ma che la perdono quando si sentono ufficialmente investite di un potere codificato.

  2. Rino DV
    1 febbraio 2016 at 18:06

    Una lezione di scrittura filosofica.
    .
    Un altro eccellente articolo di Ermini, del quale vanno lodate e dal quale vanno apprese la chiarezza, la sobrietà formale, l’essenzialità espressiva e la coerenza interna delle argomentazioni.
    La chiarezza è un impegno intellettuale con nette implicazioni morali: con essa ci si espone e ci si compromette. Le proprie contraddizioni, se ci sono, emergono senza possibilità di depistaggi. L’oscurità invece permette sempre di cavarsela, di fronte a se stessi ed agli altri.
    Il numero dei filosofi, anche grandissimi, che avrebbero qui da imparare è immenso. Se c’è infatti una cosa che in filosofia è rara come il diamante, è proprio la chiarezza. Il motivo è quello sopraindicato.
    .
    Un approccio “complesso”.
    .
    Scrive Ermini:
    “Senza stabilire rapporti necessari di causa/effetto ma vedendone piuttosto le influenze reciproche, esiste una non smentibile contemporaneità fra tre fenomeni:
    1) L’affermazione e l’estensione a livello planetario del sistema capitalistico.
    2) L’ evaporazione del padre e del suo simbolismo.
    3) La nascita e la crescente influenza politica e culturale del femminismo.”
    .
    Questa è applicazione dell’epistemologia evoluta del XXI secolo: fine del semplicismo causalistico di ottocentesca memoria (protrattosi però fino alla fine del XX secolo) per il quale da A viene necessariamente B e da B necessariamente C.
    .
    Superamento dell’epistemologia infantile e ottusa del causalismo ingenuo, (suadente però e seduttivo) che dovevamo lasciarci alle spalle. Operazione che pochi hanno fatto. E si capisce perché…

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