Dentro l’immigrazione

La sinistra ha sempre considerato gli Stati nazionali delle espressioni borghesi da superare, sintetizzando il tutto nel motto «il proletariato non ha nazione».

L’ideale internazionalistico è stato via via sostituito, con un’accelerazione maggiore dagli anni ’80 in poi, da quello dell’europeismo. Abbandonata la prospettiva rivoluzionaria, si accontentava del superamento del nazionalismo, identificato come espressione dell’aggressività reciproca dei diversi capitalismi nazionali, che avevano portato a due disastrosi conflitti mondiali a distanza di soli due decenni l’uno dall’altro.

Come già dopo la prima guerra mondiale, negli anni successivi alla seconda, ancora con più forza riprende l’idea dell’unità delle nazioni europee, come una tappa necessaria alla costruzione di un nuovo ordine mondiale a lungo termine.

Le forze che più spingono per la realizzazione di questi “ideali” sono, ovviamente, la borghesia transnazionale e gli Stati Uniti d’America, che propugnano la libertà totale di vincoli al mercato come base per uno sviluppo pacifico dei popoli.

La sinistra accetta la globalizzazione liberista che considera da un lato una tendenza naturale di per sé inarrestabile, dall’altra un elemento di progresso, contrabbandandola come il terreno più fertile per l’avanzamento delle rivendicazioni sociali e i diritti civili. L’abbattimento degli steccati nazionali comporta via via la sempre maggior libera circolazione delle merci, seguita dall’inizio degli anni Novanta da quella dei capitali e, solo in parte, da quella delle persone. Nell’eurozona gli effetti del neoliberismo sono aggravati dalla moneta unica e dalle imposizioni delle istituzioni politico/finanziarie europee, la prima a vantaggio degli Stati economicamente più forti dell’eurozona, la seconda delle maggiori lobby e delle multinazionali.

La libera circolazione delle merci, osannata continuamente dai mass media, è stata per lo più accolta positivamente dai cittadini in quanto consumatori, per il vantaggio apportato in termini di prezzi più bassi, con la sottovalutazione di altri aspetti negativi, come la qualità dei prodotti, l’impatto ambientale o la ricaduta economica negativa sul tessuto produttivo locale.

La libera circolazione dei capitali, utile solo a chi ha capitali da far girare, è dai più vista come un effetto della globalizzazione, da accettare in quanto si pensa

1) che la globalizzazione produca più vantaggi che svantaggi e

2) che non ci siano alternative a questo fenomeno.

 

La libertà totale di circolazione delle persone in realtà, checché se ne dica, in Europa non esiste, fuorché nello spazio di Schengen. Ultimamente, però, in presenza di un continuo fenomeno migratorio che sembra inarrestabile, anche quello spazio viene contestato da alcuni Stati, che diventano sempre più numerosi. Soprattutto nell’ultimo anno sono arrivati in Italia e in Grecia immigrati africani e medio-orientali in numero sempre maggiore e l’esodo non accenna a diminuire. Questo fenomeno sta destando grande preoccupazione nell’opinione pubblica ed è cavalcato in primis –ma non solo– dai partiti di destra. I partiti di centro sinistra hanno il fondato timore di perdere consensi, ma non possono rinunciare ad esprimersi in termini di solidarietà con i migranti, pena l’abbandono dell’ultima trincea ideologico/culturale atta a marcare una qualche differenza con la destra, non distinguendosi più per tutto il resto. Del resto anche i partiti di centro/destra, quando erano al governo, non sono riusciti ad arginare il fenomeno dell’immigrazione che pur si presentava in proporzioni di gran lunga inferiori.

La percezione di “essere invasi” e l’evidenza della crisi di prospettive occupazionali ha alimentato tesi complottiste che, originate prevalentemente in ambienti di estrema destra, si sono poi diffuse anche in ambienti sovranisti di segno diverso. In particolare si va sempre più diffondendo l’idea che l’intensificarsi degli sbarchi corrisponda ad una “invasione” pianificata da tempo, in base ad un progetto preciso di distruzione tanto del tessuto sociale, attraverso la concorrenza apportata in termini di abbassamento del costo della manodopera offerta, quanto dell’identità culturale nazionale (secondo alcuni anche occidentale). A questo proposito si citano teorie nate nella prima metà del secolo scorso e in particolare si nomina un personaggio di nome Kalergi, che avrebbe ideato anzitempo un piano atto a conseguire il suddetto scopo.

 

Piano Kalergi: realtà e mito

Il conte Kalergi è nato in Boemia. Il padre era un diplomatico austriaco e la madre una giapponese. Dopo la caduta dell’impero austro-ungarico divenne un cittadino cecoslovacco e poi francese. Ovvio che diventasse un intellettuale mitteleuropeo di sentimenti cosmopoliti. Fin dalla fine della prima guerra mondiale, convinto che quel conflitto fosse sorto a causa dei nazionalismi presenti negli Stati europei, si attivò attraverso scritti e conferenze per fondare un Movimento che chiamò Unione Paneuropea Internazionale (o Pan Europa), con l’intento di porre le basi per il conseguimento di un’unità politica ed economica. Il programma già prefigurava in nuce quella che sarebbe stata in futuro l’Unione Europea. Oltre a proporre uno spirito europeo (al riguardo ebbe l’idea di adottare l’inno alla gioia e di istituire “la giornata dell’Europa” a maggio), riteneva necessario promuovere via via forme maggiori di integrazione economica. A questo scopo nel 1923 lanciò l’idea di riunire il carbone tedesco e il minerale francese sotto un’unica autorità, progetto che sarà poi ricalcato concretizzandosi nel 1950 sotto il nome di Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA). Nel 1926 il Movimento Paneuropa tenne il suo primo Congresso, salutato da personalità come Albert Einstein, Sigmund Freud, Thomas Mann, Paul Valery, Stefan Zweig, Jean Monnet e perfino Keynes, oltre a tanti altri. Per lo scopo che si prefiggeva, Kalergi prevedeva inizialmente un’efficace collaborazione attraverso la Società delle Nazioni, in seguito una progressiva unione doganale, una reciproca cessione di analoghe quote di sovranità, una Corte federale per gestire i conflitti tra gli Stati membri ed un esercito europeo formato da contingenti dei diversi Paesi per garantire la pace a livello continentale. Addirittura un’unificazione progressiva delle colonie (di cui ritiene necessario il mantenimento) e, dulcis in fundo, l’adozione di una moneta unica. A questo punto sarebbero dovuti nascere gli Stati Uniti d’Europa, sul modello di quelli d’America (di cui Kalergi era grande ammiratore) e loro stretti alleati. Tutto questo processo –affermava– andava svolto nel rispetto della diversità delle culture europee e con la protezione delle minoranze nazionali.

C’è chi inquadra la difesa e l’elogio delle minoranze etniche e culturali –un’idea in apparenza contraddittoria rispetto al resto– nella volontà di disgregare le unità nazionali. Anche considerando questa difesa una cosa positiva e lodevole, è da osservare che non abbia nessuna possibilità di essere effettuata all’interno di una visione politica mondialista e di un processo di globalizzazione economica liberista quale quello della Paneuropa, proprio come restano vuote parole quelle analoghe affermate nei documenti dell’attuale Unione Europea. Kalergi, a seguito dell’Anschluss (l’annessione dell’Austria da parte di Hitler), essendo di sentimenti antinazisti, riparò prima in Svizzera e poi negli USA. Nel secondo dopoguerra continuò a propugnare la necessità di un’unione economica e politica dei popoli europei, a fianco degli statisti che la porteranno avanti, come Adenauer, Schuman, De Gasperi, Spinelli, Churchill, Spaak, eccetera.

Secondo Kalergi i conflitti nascono dall’esistenza di più Stati. Per convincere i popoli a vivere sotto un unico Stato occorre eliminare le differenze tra di loro e il modo migliore per farlo è incoraggiare un rimescolamento che li porti a non riconoscere più le loro identità nazionali originarie, ma a sentirsi cittadini di un unico Stato europeo. Kalergi non si fermava qui, ma auspicava che in futuro si potesse arrivare a un governo planetario attraverso la formazione di cinque grandi unioni regionali: gli Stati Uniti d’Europa più le colonie francesi in Africa, un’unione panamericana tra Nord e Sud America, il Commonwealth britannico sparso per il mondo, un’unione panasiatica tra Cina e Giappone e un’Eurasia sovietica. In questo modo, scomparse le diversità tra i popoli, non ci sarebbero più state (secondo lui) “guerre civili europee”, ma semplici risoluzioni di conflitti interni da parte di una polizia europea. Se tanti, di fronte a quella che dovrebbe essere l’evidenza della mostruosità dell’attuale architettura europea, ancor oggi continuano a decantarne le lodi e la necessità di attuarne il completamento, è difficile condannare un uomo che, sicuramente condizionato da un’ottica aristocratica, negli anni degli scontri tra nazionalismi aggressivi che avevano già provocato una guerra imperialistica e si accingevano a produrne un’altra, pensava, all’interno di una visione di stampo liberista, di aver trovato il modo di disinnescare i conflitti proponendo una visione cosmopolita e pacifista.

Pur se possiamo a buon diritto considerare errata una visione del genere, è difficile accusarlo di aver previsto cosa sarebbe poi diventata l’Unione Europea (o, ancor peggio, cosa potrebbe diventare un governo mondiale). Ancor meno lo si può considerare responsabile delle attuali migrazioni, che sono dovute a cause intervenute successivamente. È da considerare che negli anni in cui lui scriveva e operava, erano ancora in piedi gli imperi coloniali. Quando parlava di incontro tra le razze, di certo non si riferiva a un fenomeno migratorio dai Paesi del Sud o dell’Est verso l’Europa, allora inimmaginabile, ma piuttosto auspicava un’emigrazione di colonie di europei verso quei Paesi. Del resto va considerato che incoraggiare i matrimoni misti all’epoca era espressione di mentalità aperta. Anche se usa il termine razza che oggi scientificamente non è più riconosciuto valido e conseguentemente non è più usato neanche nel linguaggio, non è razzista nel senso di discriminare chi è di una “razza” diversa, o di credere che esista una “razza” superiore, tuttavia è convinto che esistano le razze e che ognuna di loro sia dotata di caratteristiche non solo etniche ma anche genetiche differenti. La sua visione cosmopolita lo porta ad auspicare una mescolanza delle “razze”. A suo giudizio questo è opportuno e necessario per generare una razza nuova, non più legata alle proprie origini, più permeabile a idee mondialiste.

«Le razze e le caste attuali verranno meno col progressivo allontanamento nello spazio, nel tempo e dai tabù del pregiudizio. La futura razza euro-asiatico-negroide, esteriormente simile a quella dell’antico Egitto, sostituirà la pluralità dei popoli attraverso una maggiore variabilità individuale. L’endogamia rafforza il carattere, indebolisce lo spirito, viceversa l’incrocio indebolisce il carattere rinforzando lo spirito. La consanguineità genera dei tipi caratteristici, l’incrocio, delle personalità originali. Là dove la consanguineità e l’incrocio si incontrano sotto degli auspici favorevoli, essi creano il più alto tipo di essere umano, collegando al carattere più forte lo spirito più pungente». Da queste frasi non sembra che lui consideri la nuova umanità composta di «esseri subumani», come i siti complottisti riportano, forse traducendo in maniera approssimativa o quanto meno controversa. Senza contare che, se si ha paura che l’incrocio delle «razze» porterebbe a qualcosa del genere o di comunque negativo anche da un punto di vista genetico, vuol dire che si riconosce valida la tesi della loro esistenza (cosa che è stata ampiamente smentita dalla scienza). L’Unione Europea e in seguito il mondo dovrà essere governato da élite sovranazionali che coincideranno con una tecnocrazia politico-finanziaria. Individui che non si riconosceranno più in identità nazionali distinte saranno più propensi a farsi dominare da un’aristocrazia di “tecnici” illuminati. Kalergi ha una visione (ingenuamente) positivista e crede fortemente nel progresso tecnico che, secondo lui, porterà benessere diffuso in tutto il mondo.

Con ciò non intendo esprimere apprezzamento per le idee di Kalergi, ma solo dire che vada considerato storicamente e non criminalizzato come, dietro suggerimento di alcune tesi complottiste, viene fatto sempre più spesso. Tesi complottiste di origine esplicitamente di destra, che, dopo averlo etichettato come ebreo e massone (in realtà era massone ma non ebreo, anche se manifestava particolare ammirazione per la cultura ebraica), lo considerano l’artefice principale di un piano preordinato avente il fine di distruggere le culture e le entità nazionali (nei siti più oltranzisti si parla di civiltà cristiana quando non addirittura di razza bianca), promuovendo l’invasione dei paesi europei da parte di orde di migranti, per lo più musulmani e incivili, paragonati a volte ai nuovi barbari. In realtà Kalergi ha parlato sì di mescolamento delle razze, ma senza riferirsi all’immigrazione. Del resto il Nostro era essenzialmente un pensatore, tant’è vero che non viene mai nominato tra quelli che poi hanno effettivamente creato l’Unione Europea politica ed economica, pur essendosi battuto tutta la vita perché questa venisse realizzata. Eppure l’idea dell’esistenza di un progetto di “invasione” e quindi la fama di Kalergi come il suo ideatore ha conquistato anche molti che non si riconoscono nell’estrema destra.

Nelle idee sovraniste più riconducibili alla sinistra non c’è tanto l’esaltazione astratta e quasi mistica delle identità e delle culture nazionali chiuse in se stesse che sarebbero minacciate dall’arrivo di stranieri con tradizioni culturali diverse, ma innanzitutto la convinzione che l’immigrazione di massa venga usata come l’esercito industriale di riserva su cui gli imprenditori fanno leva per abbassare il costo del lavoro e abolire progressivamente tutele sociali e diritti. Ma sempre più spesso tende ad emergere anche l’idea dell’attacco all’identità culturale nazionale, riecheggiando in qualche modo temi e paure agitati dalla destra.

 

Siamo davvero di fronte a un’invasione ed eventualmente a quale scopo?

Pare che ci si accorga dell’«Invasione» solo in relazione ai periodici aumenti degli sbarchi, a cominciare da quelli all’inizio-metà degli anni Novanta di albanesi, a continuare con quelli dal Nord Africa sempre presenti, ma intensificatisi all’inizio di questo decennio e con quelli attuali di altri Paesi africani e asiatici.

Diversi pensano che queste persone, quasi sempre sprovviste di documenti regolari, vengano qui come “clandestini” per qualche losco, inconfessabile motivo. Perfino in certi articoli qualche giornalista, di cui difficilmente si potrebbe presupporre la buona fede perché altrimenti sarebbe da considerare un ignorante e uno stupido, arriva a chiedersi perché tanti paghino migliaia di euro per arrivare con i barconi tra tante difficoltà e pericoli, invece di arrivare comodamente in aereo, ora che le tariffe sono così basse. Dopo di che si risponde che lo fanno per poter evitare di essere identificati attraverso dei regolari documenti, dal momento che –ritiene astutamente– verrebbero qui per delinquere. Come se per un cittadino extracomunitario del Terzo Mondo (quindi non americano o australiano) fosse così facile entrare regolarmente, magari con un semplice visto turistico! In realtà, fino a solo pochi mesi fa, gli arrivi attraverso i cosiddetti barconi non costituivano che la punta dell’iceberg di un fenomeno migratorio di ben più vaste proporzioni. La maggioranza degli immigrati arrivava dall’est, da alcuni Paesi con un visto turistico, da altri clandestinamente, ma poi quando il visto turistico scadeva anche i primi venivano a trovarsi in una situazione di irregolarità e si potevano classificare come “clandestini”. Con l’ampliamento degli Stati aderenti all’UE gran parte dei “clandestini” sono passati a godere dello status di “regolari”. Dai Paesi dell’Africa e del Medio Oriente arrivare con un visto turistico è diventato nel corso degli anni sempre più difficile e quasi tutti sono arrivati come “clandestini”, sperando di conoscere qualcuno che in seguito avrebbe accettato di assumerli, facendoli così rientrare nei flussi programmati.

Coloro che credono che sia in attuazione il “piano Kalergi” parlano di Paesi europei, tra cui l’Italia in primis, che non solo non farebbero nulla per impedire l’immigrazione, anzi la favorirebbero in ogni modo, invitando tutti ad entrare. Da come si stanno comportando i Paesi aderenti all’UE questa tesi si dovrebbe smentire da sé. Del resto anche l’Italia, se non ha la forza di imporsi in sede europea né la possibilità di controllare le proprie frontiere, molto più aperte di tante altre per motivi di carattere geografico, non ha, neanche in passato, incoraggiato il fenomeno migratorio. Ogni Paese della UE ha approvato leggi con l’intento di limitare e regolare l’ingresso di cittadini extracomunitari. Ma sempre più queste si sono dimostrate inefficaci, ancor prima della crisi attuale, che si sta configurando come un esodo di massa. Di fronte all’acutizzarsi del fenomeno e al suo mutamento qualitativo gli Stati europei, lungi dall’incoraggiarlo, stanno alzando muri e steccati non solo verso l’esterno, ma perfino tra di loro, cercando di scaricare il problema l’uno sull’altro. Nulla di più lontano dalle porte aperte e dagli inviti a tutti ad entrare.

Una tesi molto diffusa afferma che gli Stati Uniti volontariamente cercherebbero di spingere masse di migranti ad arrivare in UE per destabilizzarla ed indebolirla. Anche questa tesi non mi sembra convincente. Se è vero che le politiche imperialistiche degli USA sono le principali artefici della destabilizzazione geopolitica e della miseria di molti Stati, specialmente in Africa e nel Medio Oriente, l’esodo verso i Paesi Europei non può essere considerato l’obiettivo diretto, ma solo la conseguenza naturale, una sorta di effetto collaterale. In realtà gli USA, che ne sono stati i promotori, non hanno interesse a destabilizzare l’UE, come hanno dimostrato anche ultimamente in occasione della crisi tra Grecia e Germania di quest’estate, rischiando di favorire spinte centrifughe pericolose per la sua dominanza e per il ruolo di fedele alleata che da sempre svolge.

La parola “clandestino” evoca di per sé sentimenti di ostilità dovuta a paura. Dà l’idea di qualcuno che cerchi di fare qualcosa di non legale o di ottenere di nascosto qualcosa che non ha il diritto di avere. A parte chi è veramente in fuga dalle guerre o chi è perseguitato, gli altri sono malvisti, come se fossero degli usurpatori di diritti che non gli spettano, mescolandosi ai primi.

Chi vuole usare un linguaggio meno rozzo o più corretto parla di “immigrati economici”, che dovrebbero essere distinti dai rifugiati veri e propri. In realtà gli stranieri che risiedono oggi in Italia sono stati in gran maggioranza degli immigrati economici clandestini. Questi immigrati, se non sono in fuga da guerre e persecuzioni, sono in fuga dalla fame e dalla devastazione economico-ambientale che l’occidente “civilizzato” ha prodotto nei loro luoghi d’origine.

Chi invece volesse venire avendo in mente il progetto di organizzare qualche traffico illegale, avrebbe già collegamenti con qualche gruppo mafioso o terroristico, che ha tutto l’interesse a fornirgli i mezzi per arrivare in tutta sicurezza, senza rischiare che finisca affogato in fondo al mare o recluso per un tempo indeterminato in qualche Centro cosiddetto di “accoglienza”.

Questo non esclude che, in seguito, persone che sono arrivate con l’intenzione di lavorare onestamente, non trovando alcuna collocazione lavorativa, possano essere indotte –per sopravvivere– a commettere qualche reato o a inserirsi in qualche traffico esistente. È chiaro che, al netto delle condizioni imposte all’eurozona, una legge che subordina il permesso di soggiorno al mantenere un posto di lavoro espone sempre i lavoratori immigrati a ricatti e non favorisce la solidarietà con gli italiani, in occasione di rivendicazioni o scioperi, mentre i “clandestini” (tanto quelli che sono divenuti tali, quanto quelli che non sono mai riusciti ad uscire da questa condizione) saranno obbligati ad essere assunti sempre e soltanto in nero e a non poter denunciare mai nessun sopruso. E ogni legge che diventi ancor più restrittiva, non farebbe che rendere ancora più ricattabili gli uni e gli altri. Se guardiamo ai numeri, gli stranieri negli ultimi anni in Italia sono diminuiti ancor più che negli altri Paesi perché, per effetto della crisi economica, molti che hanno perso il lavoro diventando solo per questo clandestini” sono andati via.

Del resto, complessivamente, sia gli immigrati regolari che i profughi o rifugiati sono stati sempre sotto la media europea. Ma, proprio a causa della stessa crisi, negli ultimi mesi l’arrivo di gruppi numerosi di persone dall’altra sponda del Mediterraneo, in un crescendo repentino che sembra inarrestabile, genera apprensioni che purtroppo spesso sfociano in insofferenza e ostilità, aumentate anche grazie all’orchestrazione di campagne che alcune forze politiche attuano, in modo cinicamente spregiudicato, al mero fine di procacciarsi maggiori consensi. In vari siti ed emittenti vengono presentati episodi in modo distorto aventi a soggetto i profughi o i clandestini o l’accoglienza nei loro confronti, travisando le notizie al fine di mistificare la realtà, soffiando pericolosamente sul fuoco dell’intolleranza e della xenofobia e facendo balenare soluzioni semplicistiche a una questione che non lo è affatto. In questo modo fanno credere che la mancata risoluzione del problema sia dovuto solo alla mancanza di volontà della classe politica.

Purtroppo molti sovranisti ingenuamente ci cascano per scarsa conoscenza di quello che avviene realmente e, a volte, per un errato significato di cosa sia da configurarsi come sovranità nazionale. Questa ritengo vada intesa come indipendenza e liberazione dalle ingerenze di Stati esteri o di istituzioni sovranazionali sul piano dell’imposizione politica, economica e in buona misura anche culturale e non come mancanza di solidarietà da esercitare nei confronti di chi subisce la dipendenza ancor più di noi. Né ha una reale giustificazione sentirsi minacciati e provare un senso di paura nei confronti di abitudini e culture delle persone che arrivano.

Al contrario è chi emigra –e non chi accoglie– ad essere potenzialmente più soggetto a smarrire la propria identità culturale, come gli italiani, che sono stati in passato un popolo d’emigranti (ma stanno tornando ad esserlo), dovrebbero ben sapere. Invece l’abbandono delle proprie identità culturali è proprio quello che si vorrebbe imporre ai migranti, per poterli integrare. Più che un’integrazione da concedere obbligandoli a un’assimilazione più o meno forzata nella nostra cultura, o riconoscendo una netta separazione tra noi e loro, sarebbe utile favorire un’interazione che porti a una maggior consapevolezza di quali siano le identità e le differenze e di quanto realmente possano incidere o meno nei rapporti sociali. Questo non vuol dire che noi dovremmo adattare la nostra legislazione o permettere loro di non rispettarla aggirandola o consentendo deroghe “per motivi culturali”. È chiaro che (per es.) non dovremmo accettare la poligamia (del resto sempre meno praticata) né tollerare comportamenti lesivi della dignità e dei diritti di donne e minori, ma questo non giustifica, per esempio, disprezzare o considerare pericolosi interi popoli solo in quanto nella stragrande maggioranza di religione musulmana, come se fossero indistintamente tutti dei fanatici integralisti.

Questo del resto è quello che spinge a credere ad una certa propaganda di stampo leghista, che dipinge l’Islam in maniera non troppo dissimile dal modo in cui lo fa l’America.

 

Quelli che già lavorano e sono regolari

Tra gli immigrati che lavorano o competono con gli italiani nel mondo del lavoro, la maggioranza proviene da Paesi entrati solo negli ultimi anni nella UE e che all’origine erano extracomunitari. I più provengono dalla Romania, un po’ meno dalla Polonia, ecc. Tra gli extracomunitari i più numerosi sono i cinesi e i bengalesi. Quasi tutti questi lavorano, in un modo o nell’altro. Mentre gli immigrati comunitari, specie romeni, in gran parte competono effettivamente nel mercato della forza-lavoro, i cinesi competono maggiormente nelle attività commerciali, così come i bengalesi. Perciò, mentre i primi sono ben visti dagli imprenditori (che possono trovare persone disposte a lavorare per meno) e non dai lavoratori, i secondi sono più spesso mal visti dai titolari di attività imprenditoriali di tipo commerciale e meglio considerati dalla popolazione nel suo complesso, che può beneficiare di beni di consumo e servizi a prezzo inferiore (sorvolando più o meno consapevolmente sul fatto che spesso lo sia anche la qualità). Questo per quanto riguarda la competizione economica. Per quanto riguarda l’ordine pubblico generalmente si può dire che la comunità cinese, come già quella filippina arrivata in precedenza, non è avvertita come pericolosa, se non per alcuni rari elementi che creano problemi più all’interno che all’esterno della comunità stessa. Al contrario gli immigrati dell’est Europa, e segnatamente i romeni, che hanno preso nell’immaginario collettivo il posto che avevano avuto negli anni Novanta gli albanesi, sono visti da gran parte della popolazione come potenzialmente pericolosi, in base ad alcuni stereotipi, quando addirittura non sono confusi con i rom. Tuttavia è vero che alcuni romeni sono, più di altri, balzati all’onor delle cronache per incidenti stradali causati dalla guida in stato di ubriachezza, furti o rapine che hanno comportato anche omicidi. In ogni caso non ha senso fare delle generalizzazioni culturali od “etniche”. Casomai si potrebbe notare che i romeni spesso non si trasferiscono con tutta la famiglia, probabilmente a causa della difficoltà ad ottenere un ricongiungimento familiare. Infatti il più delle volte non possono dimostrare di avere un lavoro che garantisca un reddito sufficiente al mantenimento del nucleo familiare, quindi non “in nero”, né troppo precario, e ancor meno un contratto d’affitto in un alloggio idoneo ai sensi di legge, che non sia solo una camera o un posto letto, in un appartamento in condivisione con altri. Anche per questo motivo soffrono maggiormente il disagio sociale, pur se culturalmente sono più affini a noi dei cinesi e quindi potenzialmente l’interazione (e la stessa integrazione) ha meno difficoltà. Questi ultimi, al contrario, quando comprano un’attività riescono spesso a trasferire tutta la famiglia, composta da marito, moglie e un solo figlio (per la nota politica del “figlio unico”) e in più non di rado altri parenti, con cui gestiscono le attività. Inoltre la comunità cinese è molto più chiusa all’esterno e insieme coesa al proprio interno, oltre che gelosa delle proprie caratteristiche.
È vero che, all’interno di questo meccanismo euroliberista, in alcuni casi sottraggono lavoro a italiani che potrebbero svolgerli al posto loro. Infatti esiste realmente la competizione salariale per accaparrarsi i posti di lavoro disponibili in numero sempre inferiore. Peraltro è molto probabile che, senza una forte svalutazione salariale, nella situazione odierna la maggior parte di quei posti di lavoro neanche ci sarebbero, anche a causa dell’impossibilità di ridurre le tasse diminuendo così le entrate e aumentando il deficit, in contrasto con le imposizioni europee. Indicare negli immigrati la causa della svalutazione del lavoro, anziché nelle politiche liberiste e globaliste imposte dalla UE, che provocano recessione e sempre maggior disoccupazione, è innanzitutto fuorviante. In questa situazione, se lavoratori (che siano italiani o stranieri) non accettassero di ridurre paghe e diritti, semplicemente ancor più negozi chiuderebbero, molte altre aziende dichiarerebbero fallimento, mentre quelle che ne hanno la possibilità, tra cui certamente le multinazionali, attuerebbero forme di delocalizzazione, per poter competere nel mercato globalizzato. Così le stesse aziende tessili cinesi, se fossero chiuse, ben difficilmente farebbero riaprire aziende italiane che rispettano tutte le prescrizioni, applicano contratti regolari e soprattutto pagano tutte le pesantissime tasse richieste! Molto probabilmente le stesse “griffe” preferirebbero importare la merce direttamente dalla Cina! Per questo c’è chi, perfino nel distretto di Prato, così duramente colpito dalla concorrenza cinese nel settore tessile, dice di preferire che i cinesi vengano a produrre in loco, perché almeno l’indotto ne ricava qualche piccola ricaduta, cosa che, nel caso la merce fosse direttamente importata, non avverrebbe. Allo stesso tempo i negozi scontano la concorrenza dei grandi centri commerciali e delle vendite in rete, più ancora di quella da parte dei “cinesi”. Anche senza gli immigrati, il tasso di disoccupazione induce molti italiani ad accettare condizioni di salario e di lavoro un tempo impensabili e a “delocalizzarsi”, vale a dire ad emigrare. L’esercito industriale di riserva oggi è su scala mondiale e, per utilizzarlo ai fini di risparmiare sul costo del lavoro, è possibile che si spostino i lavoratori o, molto spesso, le stesse aziende.

Perfino le aziende agricole, quando non trovano braccianti che accettino di lavorare a paghe da fame e orari disumani, preferiscono lasciar marcire i prodotti sugli alberi e sul terreno, non potendo competere con i prodotti provenienti da altri Paesi che hanno una moneta più debole! Se non ci fossero persone (di nazionalità italiana o straniera) disposte ad accettare condizioni di lavoro semischiavistico nelle campagne, queste resterebbero incolte e importeremmo tutti i prodotti agricoli dall’estero. Questa è anche la ragione per cui è vano scandalizzarsi quando un bracciante muore stroncato dalla fatica e pensare che una legge anti-caporalato possa risolvere alcunché. Ogni posizione che si limita ad accusare singoli “padroni” in nome di principi morali puntando il dito su alcune situazioni “più” inaccettabili di altre, evita di riconoscere che la situazione è insostenibile in toto e di comprendere le cause che, prima del cinismo morale presente in modalità più o meno accentuata in diversi soggetti, va individuata nei meccanismi del mercato globale e nelle “regole” implicite ed esplicite su cui si regge l’eurozona, che obbligano alla rimozione di ogni vincolo alla globalizzazione e alla concorrenza al ribasso sul costo del lavoro.

 

Quelli che arrivano con i “barconi”

All’indomani della caduta dell’URSS, con il venir meno degli equilibri (più o meno stabili) stabiliti a Yalta, la politica imperialista degli USA accompagnata dal neoliberismo economico si è sviluppata senza più trovare freni o contrappesi, determinando ancora maggior crisi da indebitamento, nuovi squilibri geopolitici e fomentando guerre, specialmente in Paesi dell’Africa e dell’Asia (ma anche in Europa). Nel nostro continente ha promosso la costituzione dell’Unione Europea, che è andata sempre più allargandosi, con l’inclusione progressiva dei Paesi che prima aderivano al Patto di Varsavia. Le sue istituzioni si sono rivelate sempre più una mostruosità giuridico-burocratico a favore di lobby economiche per lo più multinazionali e contro la sovranità ed il benessere dei popoli. L’aver adottato l’euro come moneta unica ha obbligato tutti gli Stati ad attuare politiche economiche recessive e di smantellamento dello Stato sociale. Quindi, da un lato si sono incrementate le ondate migratorie, mentre dall’altro l’Europa è stata sempre meno disposta ad accogliere l’arrivo di immigrati e profughi, perché già presa dalle difficoltà economiche che aveva causato a se stessa. Se prima dello scoppio della crisi del 2008 diversi Paesi europei potevano aver tratto vantaggio dall’arrivo di un certo numero di immigrati, anche per abbassare il costo del lavoro e, nei Paesi più ricchi, per trovare persone disposte a svolgere lavori particolari (come le domestiche fisse o le badanti), l’intensificarsi reciproco dei due fenomeni (crisi economica in Europa ed esodo di numerosi profughi e migranti a causa della destabilizzazione attuata nei Paesi africani e asiatici), sta portando a una progressiva chiusura da parte dei Paesi europei e all’insorgere sempre più accentuato di sentimenti di intolleranza xenofoba nella popolazione.

Anche se gli immigrati che sono arrivati in passato in vari modi, specie con l’acuirsi della crisi, sono progressivamente sempre meno ben visti, nulla a che vedere con l’immagine che larga parte dell’opinione pubblica ha degli immigrati provenienti in questi mesi dall’Africa e dal Medio Oriente e in particolare da quelli che giungono con i cosiddetti “barconi”. I motivi sono molteplici:
1) Intanto, l’evidenza del fenomeno. Mentre gli altri sono giunti, per così dire, alla spicciolata, un barcone che arriva e per di più mobilita risorse umane per i soccorsi, è ben più appariscente. Inoltre genera preoccupazione il fatto che questo fenomeno non si configuri come limitato, ma tenda ad accentuarsi nel tempo, fino ad assumere un carattere semi-strutturale. 2) L’aspetto fisico diverso connesso a pregiudizi di tipo culturale, che può a volte essere collegato a pregiudizi più o meno consapevoli di tipo razzista. 3) La provenienza incerta e l’etichetta di “clandestini”, che gli viene affibbiata. 4) La paura che gran parte delle persone resti e possa ancora di più “rubare il lavoro”, accettandolo a condizioni peggiorative o delinquere (magari offrendo la propria manovalanza per spacciare droga o rubare). 5) La necessità di mobilitare risorse per la cosiddetta “accoglienza” da attuare successivamente allo sbarco, trasferendole da altri capitoli di spesa o richiedendo nuove tasse. Per questi motivi quando si parla di provvedimenti da attuare per evitare quella che a volte viene definita “invasione” ci si riferisce soprattutto a questo genere di immigrati.

Esaminiamo i singoli punti: 1) Il fatto che a condizioni invariate il fenomeno non sia destinato ad attenuarsi, ma ad assumere proporzioni maggiori, è certamente una percezione corretta. D’altra parte l’Italia, nelle condizioni di dipendenza in cui è ridotta, non ha nessun potere di influire sulle cause che lo generano. La vana invocazione di una soluzione europea, del resto, non fa che dimostrare quanto l’Europa sia disunita quando si tratta di esprimere solidarietà al suo interno o nei confronti di altri popoli e quanto profondamente siano falsi tutti i princìpi di umanità sbandierati.

2) In genere si tratta di immigrati considerati genericamente “di colore”, laddove si fanno rientrare sia quelli dell’Africa Centrale, di pelle più scura, sia quelli del Nord Africa o del Medio Oriente, generalmente di etnia araba e di pelle più chiara. Sia gli uni che gli altri sono considerati portatori di culture abbastanza diverse e molti li etichettano genericamente come musulmani, che sarebbero per definizione pericolosi in quanto considerati “nemici della civiltà occidentale”. In realtà gli immigrati che arrivano dal Centro Africa in gran parte non sono musulmani, ma cristiani o animisti, non di rado in fuga dalle proprie terre proprio per sottrarsi all’emarginazione o perfino persecuzione ad opera di gruppi di integralisti musulmani. Del resto anche una parte dei profughi di etnia araba e di cultura musulmana a volte fugge per sottrarsi al fanatismo di alcuni gruppi politici di correligionari.

3) Queste persone vengono definite dalla propaganda più becera sbrigativamente “clandestini”, mentre chi vuole sembrare meno rozzo prova a distinguerli tra “profughi (o rifugiati)” e clandestini e basta. Ma anche chi in teoria fa questa distinzione (vedi Salvini) in pratica poi vorrebbe far in modo che nessuno di loro possa sbarcare per far valere il proprio eventuale diritto a richiedere l’asilo. È di tutta evidenza che l’ipotesi di istituire dei campi di smistamento nei Paesi di transito come la Libia è irrealistica e serve solo a controbattere semplicisticamente alle accuse di non voler accogliere neanche i rifugiati. Accusa che appare ancor più fondata se si considera anche la proposta guerrafondaia ed insensata di bombardare le barche prima che partano. È da considerare che spesso le persone che arrivano o fuggono da una guerra, di cui in modo diretto o indiretto l’Occidente è responsabile, o sono perseguitati in quanto oppositori di qualche regime e non sono in possesso di documenti per questo motivo. Altre volte gli stessi non vogliono farsi identificare e rifiutano di fornire documenti e impronte perché non vogliono essere obbligati a restare qui (come accade in base agli accordi di Dublino). Altre volte persone che hanno problemi nel proprio Paese ma hanno difficoltà a provarlo, oppure coloro che vengono per sfuggire alla miseria (chiamati sbrigativamente profughi economici) sperano, venendo senza documenti, di rendere più difficile le procedure di rimpatrio. I motivi sono perciò vari e quasi mai riconducibili al fatto che chi arriva non vuole essere riconosciuto perché intenda svolgere attività illegali o criminali.
4) Come si è detto, la preoccupazione è legittima e comprensibile. Le condizioni del mercato del lavoro in termini quantitativi e qualitativi non possono che peggiorare e tuttavia è vano pensare di poter risolvere il problema evitando l’arrivo di profughi, invece di rimuoverne le cause. La mancanza di un progetto politico alternativo da realizzarsi all’interno di una (ri)conquistata sovranità nazionale rende vana qualunque ricerca di una soluzione. Per quanto riguarda lo spaccio di droga, dal momento che questo è legato alla domanda, se non lo facessero anche gli immigrati, spaccerebbero solo gli italiani. Ne beneficerebbe forse più la mafia locale, ma il consumo difficilmente subirebbe sostanziali variazioni. In riferimento invece ai furti in proprio (e non alla manovalanza criminale, per cui si può dire più o meno la stessa cosa della droga), è chiaro che chi non trova un lavoro è indotto anche a rubare e quindi se aumentano gli immigrati e i posti di lavoro continuano a diminuire probabilmente si verificheranno più furti. E questo tanto più se i sindaci emaneranno ordinanze contro i lavavetri, i “vu’ cumprà”, i rovistatori nei cassonetti, i venditori ambulanti abusivi, i mestieri che si inventa chi preferisce fare qualsiasi cosa piuttosto che delinquere. Sono persone disposte a subire l’insofferenza e talvolta perfino il disprezzo di molti, non sapendo ogni giorno quanto e se potranno racimolare il denaro sufficiente per sopravvivere, con il rischio sempre presente di subire qualche denuncia o di vedersi sequestrare la merce.

Non voglio dire che in linea di principio sia giusto svolgere il commercio abusivo in qualche forma, come teoricamente non è giusto evadere le tasse, ma soltanto che nella morsa dell’eurozona per la necessità di sopravvivere è molto meglio commettere queste piccole illegalità che compierne di ben maggiori. In ordine alla delinquenza vera e propria, il non poter farvi fronte adeguatamente dipende in gran parte dai vincoli di bilancio imposti da Bruxelles, che obbligano a tagliare sulle forze di polizia e sugli strumenti a loro disposizione. Allo stesso tempo viene sanzionato dall’UE il sovraffollamento delle carceri, che si impedisce di fatto di superare per la carenza di risorse atte a finanziare tanto un regime carcerario meno disumano, quanto la realizzazione di misure alternative. Non va tralasciata la responsabilità dei governi nazionali nell’aver varato e nel non voler superare norme fortemente inadeguate nella giustizia penale (in primis quelle sulla prescrizione).

 

Le strutture e i costi dell’”accoglienza”

Per quanto riguarda gli immigrati che arrivano sui barconi, chi ha interesse ad alimentare la xenofobia –al fine di presentarsi come paladino degli interessi nazionali contro l’immigrazione incontrollata– adduce anche un altro argomento, quello degli alti costi che, attraverso il salvataggio, l’ospitalità e l’assistenza fornita a tutti quei “clandestini”, vengono scaricati sulle spalle degli italiani. Si evita così che si comprenda chi veramente compromette gli interessi e la sovranità del nostro Paese, e cioè la UE e gli USA, attraverso l’imposizione della liberalizzazione dei capitali e delle merci, la liberalizzazione e la deregolamentazione dei vari mercati finanziari, del lavoro, eccetera. Per diverso tempo è stato ripetuto che per ogni immigrato, nella migliore delle ipotesi, si spendevano circa mille euro al mese, oltre a fornirgli un’abitazione (addirittura a volte alberghi a quattro e cinque stelle!), pasti serviti, schede telefoniche ed altri generi di comfort. Volutamente si evitava di specificare che i soldi non andavano direttamente agli immigrati, ma alle cooperative che li gestivano ed erano tenute ad offrire i servizi di cui sopra.

All’immigrato richiedente asilo, per legge, era affidata una carta di 5 euro ogni due giorni (2,5 al giorno) da spendere all’interno della struttura di accoglienza. Inoltre gli veniva concessa una scheda telefonica di 15 euro una sola volta al momento dell’ingresso. Al netto delle ruberie di Buzzi & soci, l’accoglienza ai richiedenti asilo forniva (e fornisce lavoro) a diversi italiani, senza contare che vengono usati per la maggior parte fondi dati dalla UE, che altrimenti non verrebbero erogati. Ora, poi, sembra andare affermandosi l’idea di tenere fuori dal Patto di Stabilità anche le spese nazionali (e non solo i fondi dati dall’UE) attuate ai fini dell’accoglienza. Pertanto, più che costituire un aggravio per il bilancio statale, al contrario può contribuire alla crescita del PIL, oltre a dare lavoro a molte persone. Questo significa avere qualche risorsa in più sul territorio, l’importante è utilizzarla bene e non favorire le solite cooperative e i grandi complessi immobiliari. Ci sono diversi Paesi del Sud che hanno attuato esperimenti d’integrazione seguendo modelli vincenti, come il sindaco di Riace che, utilizzando i fondi dell’accoglienza e la disponibilità a lavorare e rendersi utili dei profughi, è riuscito a far rinascere un Paese che stava morendo, dal momento che gran parte dei suoi abitanti era emigrato ormai da molto tempo in Paesi extraeuropei (come l’Australia e il Canada) e senza l’arrivo di nuove famiglie giovani anche la scuola rischiava di chiudere per mancanza di un numero di bambini sufficiente.

Già immagino le obiezioni: perché privilegiare gli immigrati rispetto agli italiani nella destinazione dei fondi? Perché non richiamare coloro che sono emigrati? Il fatto è che questi sono fondi europei, che la UE, dopo averci costretti a conferirglieli, ci ridà con il contagocce e soltanto per progetti da lei decisi. Sarebbe meglio non accettarli? Lo stesso dicasi per quelli che vengono spesi dallo Stato con la concessione di essere tenuti fuori dal Patto di Stabilità. Se la UE può decidere di permettere agli Stati di spendere in deroga a questi (altrimenti) rigidissimi parametri, evitando di computare le spese nel bilancio, non è questa un’ulteriore prova che i parametri del deficit e del debito non hanno un valore di per sé, se non quello di costringere gli Stati a diminuire la spesa pubblica per favorire i “mercati”? Perciò non ha alcun senso affermare che questi soldi non vanno spesi, perché sarebbe più auspicabile utilizzarli per altre finalità. Questo non significa essere “buonisti” nel senso che viene usato per indicare chi pensa di poter risolvere un problema di portata oserei dire planetaria, con provvedimenti caritatevoli dettati da sentimenti pietistici. Quando riusciremo a liberarci dalle catene dell’UE, potremo spendere i soldi che creeremo senza dover chiedere il permesso ad alcuna istituzione estera, sia per dare lavoro a chi è stato costretto ad emigrare (e vorrebbe tornare), sia per chi è emigrato dal suo Paese e non può, finché non mutano le condizioni, tornarci.

È curioso che da un lato si accusino i profughi di essere clandestini mascherati e di venire in Italia per farsi mantenere a sbafo senza lavorare e dall’altra di rubarci il lavoro accettando anche condizioni di inaudito sfruttamento. Delle due l’una. Sono parassiti o ruba lavoro? In realtà la prima accusa non ha alcun fondamento. Persone che indebitano sé e la propria famiglia per pagare un viaggio fatto in condizioni estreme, senza avere alcuna certezza di arrivare, non possono che esservi spinte dalla disperazione (guerra o fame non fa neppure troppa differenza). Si dice che molti di loro sarebbero ospitati in alberghi di lusso. In realtà vengono usate strutture di ogni tipo. Gli alberghi non rappresentano affatto la norma e se qualche volta vengono utilizzati è perché lo richiedono gli albergatori a corto di clienti a causa della crisi e del resto una stanza singola viene attrezzata ad ospitare diversi posti letto. Chi è “ospite” di queste strutture in realtà fa una vita da semi-recluso, in attesa di essere dotato di un foglio di via o di un permesso di soggiorno umanitario ed essere sbattuto in mezzo a una strada. È come sospeso in un limbo, nell’impossibilità di cercare un lavoro e nell’incertezza su quale sarà il proprio futuro. E non vede l’ora di ricevere un documento che gli permetta di cercare un lavoro, anche se non avrà più un tetto sicuro sopra la testa. Chi scappa dalla fame di un Paese considerato “sicuro” ha poi in genere un destino di gran lunga peggiore: se ritrovato, magari dopo essere stato salvato da un naufragio, viene messo in una struttura che è di fatto, se non di nome, una vera e propria prigione, con tanto di sbarre e ferrei controlli, il CIE (Centro d’Identificazione ed Espulsione). Qui sono rinchiusi insieme a ex detenuti che attendono di essere rimpatriati dopo aver scontato la pena.

Dopo la prima accoglienza rivolta ai richiedenti asilo resta il problema dell’inserimento di queste persone nella società. È chiaro che questo è reso estremamente problematico a causa della crisi indotta dall’euro e dalle politiche della UE. Ma quelli che dicono “prima gli italiani, dato che le risorse sono poche” in realtà sembrano non considerare il perché le risorse sono fatte mancare né che chi ha interesse a renderle scarse è ben contento di vedere che sono gli immigrati il bersaglio preferito su cui scatenare la rabbia, perché più facile e immediatamente individuabile. Eppure una gran parte di sovranisti pare essere cascata nel tranello di considerare i migranti nel loro complesso (profughi e “clandestini”) come un pericolo da combattere, rifiutando di attuare qualunque politica di accoglienza. Oltre a non avvedersi della contraddizione tra concepire gli immigrati come parassiti mantenuti e allo stesso tempo come una sorta di crumiri che accettano condizioni di lavoro e di sfruttamento disumane, un altro paradosso che non notano consiste nel credere all’esistenza di un piano preordinato da parte dei Paesi della UE per incoraggiare l’immigrazione di massa al fine di abbassare i diritti e le tutele nel mondo del lavoro, mentre allo stesso tempo i Paesi europei dimostrano chiaramente di essere riluttanti ad accoglierli, quando non oppongono un netto rifiuto. Quanto meno bisognerebbe riconoscere che il fenomeno attuale ha scavalcato di gran lunga ogni possibile previsione, prendendo i Paesi europei in contropiede. Se un certo numero di immigrati poteva servire negli anni passati (almeno finché non è scoppiata la crisi), gli Stati europei non hanno mai attuato una politica delle porte aperte, invitando tutti ad entrare, come vorrebbe un’assurda propaganda di stampo leghista (di breve memoria, dal momento che la stessa Lega ha governato per gran parte degli anni passati, firmando anche le leggi attualmente in vigore). Ora poi, chi più chi meno, cercano tutti di porre argini, anche scaricandosi reciprocamente l’onere di accogliere i profughi che arrivano. In realtà questa improvvisa ma non proprio imprevedibile ondata di profughi in arrivo ha il merito non ricercato di dimostrare quanto in disaccordo e tutt’altro che unita è l’Unione Europea e quanto falsi sono gli ideali sbandierati di apertura e solidarietà tra i suoi Stati e al di fuori di essi. Questo potrebbe perfino rivelarsi utile per accelerare la sua disgregazione e la liberazione dei popoli all’interno delle varie nazioni, anche se c’è il rischio concreto ed evidente di un prevalere delle forze più retrive della destra xenofoba.

Fonte: Indipendenza n. 39

Immagine correlata

Fonte foto: Eunews (da Google)

1 commento per “Dentro l’immigrazione

  1. Mario
    20 luglio 2017 at 19:48

    Buongiorno, gentile Dott.ssa Riboli, sono un cittadino senza tessere politiche e senza ideologie, mi torvo d’accordo su alcuni suoi punti, ma in disaccordo su altri, come ad esempio quello in cui tratta l’inadeguatezza dell’Italia, nell’affrontare il fenomeno migratorio, per mere questioni di “dipendenza in cui è ridotta” non credo che le cose stiano così, parlerei infatti più di opportunismo politico, nel tollerare una gestione così dissoluta di questa delicata tematica, potrei pure sbagliare(per carità), ma questa è la mia umile opinione. Un distinto saluto!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Dichiaro di essere al corrente che i commenti agli articoli della testata devono rispettare il principio di continenza verbale, ovvero l'assenza di espressioni offensive o lesive dell'altrui dignità, e di assumermi la piena responsabilità di ciò che scrivo.