Il caso Olivetti

E’ il titolo di un libro scritto da un’autrice americana che, disponendo di un’infinità di notizie di prima mano (in primo luogo, ma non solo, la famiglia- tra l’altro molto estesa, amanti e nipoti compresi) è in grado di raccontarci e nell’arco di quasi un secolo, l’intreccio di vicende personali, assieme alla costante ricerca del nuovo e del progressivo, che si trattasse di nuove macchine o dell’ambiente di lavoro, della centralità della ricerca  o della proposta della politica come servizio alla comunità.

Un bel libro. Ma anche sconsigliabile  alle persone che, come il sottoscritto, possono assistere alla comparsa  del Male ma solo se accomunata ad una ragionevole speranza nella vittoria finale del Bene.

Ma qui non c’è alcuna speranza di riscatto. Perché la causa è giudicata e senza possibilità di appello. Perché Adriano e il figlio sono morti da soli e senza lasciare un ricordo pubblico di sé e dei loro sogni né in un “dibbbatttito politico” né in qualche serial televisivo. Perché l’Olivetti di Pozzuoli, con finestre aperte e vista mare e servizi sociali annessi è oggi un cumulo di rovine. Perché le nostre eccellenze industriali sono scomparse ad una ad una e la spesa per la ricerca è andata all’ingiù. Perché l’Iri è stata liquidata vergognosamente. Perché la fila dei morti passati tranquillamente in conto profitti e perdite, e senza fiatare (che comprende, tanto per essere chiari, anche Olivetti, il suo più importante collaboratore  e, beninteso, anche Mattei) si allunga senza fine: Ustica, Cermis, uomini di buona volontà uccisi, per, questo, in tutti gli angoli del mondo per finire con Regeni e magari tra poco anche Zaky. Perché abbiamo obbedito come un sol uomo e su invito perentorio della più alta carica dello stato,  all’invito di partecipare alla distruzione, a tutto nostro danno, della Libia di Gheddafi. Perché l’unico leader che abbia difeso la sovranità nazionale, leggi Craxi ha fatto la fine che ha fatto. Perché…

E qui possiamo tornare alla nostra Autrice. Nella copertina di presentazione del suo libro, si parla di una “realtà innegabile”, leggi del fatto che per il complesso militare/industriale americano  l’uomo, i suoi laboratori di ricerca, la sua azienda,  le sue idee, rappresentassero una “minaccia che andava fermata con ogni mezzo” (Aggiungiamo, a proposito di killer, che la Cia aveva licenza di uccidere, e senza restrizioni, tutti i veri o presunti nemici dell’America; Castro si salvò per miracolo N.d.A .).

Un bel campo da esplorare, e una quantità di indizi, per gli specialisti della materia. Ma quello che mi incuriosisce e  mi spaventa di più è la totale indifferenza con la quale il mondo dell’industria e quello della politica , comunisti compresi, seguono la lenta liquidazione dell’Olivetti e dello stesso futuro industriale.

Il loro motto avrebbe potuto essere “se l’è cercata. Se avesse pensato solo a fare soldi non ci sarebbe stato alcun problema. Ma pretendere di propinarci il suo libro dei sogni e di spiegarci come si fa politica è stato francamente troppo”. Ecco allora la sordità ostile di Cuccia, l’assenza di qualsiasi sostegno da parte delle banche e Idel governo e, beninteso, la “damnatio memoriae”.

Per chiudere, davanti a noi, una classe dirigente di cui il comun denominatore è la servitù volontaria e l’incapacità congenita di ragionare in termini di interesse nazionale.

Perché ?

La fabbrica a misura d'uomo: il sogno di Olivetti

Fonte foto: Blog Fondazione Nenni

1 commento per “Il caso Olivetti

  1. ndr60
    9 aprile 2021 at 13:22

    Il confronto tra i diversi destini di FIAT e Olivetti è il riassunto della storia di questo Paese e della sua classe (im)prenditoriale.
    Un solo appunto: accomunare Regeni (e, in minor misura, Zaki) a Mattei & c. forse è leggermente improprio: al di là del loro tragico destino, gli interessi di Mattei e Regeni non erano esattamente gli stessi.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Dichiaro di essere al corrente che i commenti agli articoli della testata devono rispettare il principio di continenza verbale, ovvero l'assenza di espressioni offensive o lesive dell'altrui dignità, e di assumermi la piena responsabilità di ciò che scrivo.