Incomunicabilità. Dis/organizzazione. De nobis fabula narratur.

Libere riflessioni  senza pretese circa le difficoltà a creare pur minime forme di organizzazione su pur minimi obiettivi parziali. Ovvero che un limitato numero di persone riescano a trovare un accordo per raggiungere un fine che dicono di condividere.

Mi baso su esperienze maturate sui social.

Dico subito che, in questo caso, non condivido l’uso della “Mc locuzione” secondo cui “il mezzo è il messaggio”.

Detto in altri termini, non credo che le stesse persone, messe intorno ad un tavolo invece che di fronte ad un computer, non incontrerebbero le stesse difficoltà.

Niente di nuovo, si dirà. Vero ma mi sembra che siamo arrivati a livelli parossistici.

Innanzitutto, per accordarsi, bisogna capirsi. Già a questo livello incontriamo difficoltà insormontabili. Non solo sul come agire ma anche sull’analisi.

A meno che non si tratti di lamentazioni generiche. In quel caso  possiamo stare ore d’amore e d’accordo a girare intorno al nulla, secondo la modalità “signora mia”.

Ma, appena si incontrano divergenze, inizia la bagarre. Allora la modalità “signora mia” lascia il posto ad altre modalità quali “i fischi per i fiaschi” o “chiamo a coppe e rispondi a denari”. Gli effetti peggiori si ottengono quando si attiva la modalità “il dito e la luna”. Ovvero qualcuno fa un esempio e subito l’esempio cessa la sua funzione e diventa l’argomento principale. Per non parlare di quando ci si attacca a qualche minimo errore o imprecisione ( alla virgola, insomma) e si innestano interminabili diatribe. Alla fine, tutti i partecipanti lasciano il “dibattito” con la sensazione d’aver perso tempo con una massa di idioti.

Incomunicabilità. Anche qui niente di novo. C’è tutta la poetica esistenzialista che ruota intorno al tema. Ma si parlava di incomunicabilità a livello profondo, spirituale. Roba fica, insomma. Un dolce struggimento malinconico sulle note di Ives Montand, qui non si ottiene una risposta sensata manco se si chiede l’ora.

Il risultato è che sui social è pieno di solitari pensatori (influencer) che possono essere più o meno seguiti. La maggior parte dei gruppi o pagine che fanno politica di base, per es. intorno alla questione maschile, sono gestite da una persona sola o comunque mancano di un vero lavoro d’équipe.

Perché? Azzardo una risposta ma, ripeto, senza pretese. Seguendo suggestioni più che analisi.  Mi farò guidare dal modello  di Bauman che sembra, al momento, il più accreditato.

Vanità. Bauman parla di svuotamento di senso delle comunità. Col divorzio tra potere e politica, con lo strapotere di entità economiche sovranazionali, lo spazio (magari illusorio) di poter incidere nella realtà che ci circonda diventa veramente ristretto. Far politica diventa vano ed allora il suo spazio elettivo è il vaniloquio. Chi Cerca di spostarlo sul terreno della concretezza viene tacciato di ingenuità e percepito con fastidio.

Come sappiamo il cuore delle teorie di Bauman è la cosiddetta società liquida. Una società dove i legami sociali tra individui sono ridotti al minimo. Questo porta ad un ipertrofia del’individuo che sempre meno capisce il senso di dover mediare con l’altro, nel nostro caso, di negoziare opinioni.

Ma con la perdita delle relazioni con l’altro, smarriamo il limite, la necessaria dialettica che  permette di evolverci. Quindi ognuno è solo. Fragilissimo (perché le relazioni danno sicurezza) e, allo stesso tempo, illusoriamente potente perché senza limite. Questo porta a conseguenze persino a livello cognitivo. Il meccanismo della conoscenza si inceppa. Per dirla alla Piaget, l’assimilazione prevale sull’accomodamento. Accettiamo solo ciò che conferma le nostre opinioni rifiutando ogni messa in crisi delle stesse.

Agorà. È un termine che ricorre spesso. Trasmissioni televisive, pagine social sono così titolate. Bauman stesso ne auspica e ne prevede una rinascita come via d’uscita. Sinceramente non vedo come individui siffatti, senza nessun senso della comunità possano dar vita ad un agorà che prevede il massimo della condivisione.

Arrivare ad una conclusione diventa problematico. Invitare al confronto e al dibattito potrebbe sembrare contraddittorio, viste le premesse. Ma “l’uomo è un animale politico”, ipse dixit. Certo, “il maestro di color che sanno”, non viveva in una società liquida ma chissà, forse, aveva ragione. Continuiamo a provarci.

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