Laudato si’, la ripresa del cammino nel mondo

La “Laude” di Papa Francesco, l’enciclica Laudato si’, sulla cura della casa comune ha portata epocale ma è banalizzata ad ecologia dai media e a decrescismo dai progressisti. Non nascondo il mio stato d’animo e dunque il mio preconcetto: questo “Canto di Cura” mi ha commosso, che non significa solo emozionato ma interrogato nel profondo.
La scelta della decrescita
E’ certo “L’enciclica della complessità” come dice P.L. Fagan (https://www.linterferenza.info/contributi/lenciclica-della-complessita/) ed è inevitabile laddove pone un complesso mondo com’è la cattolicità di fronte alla complessa crisi della terra; tuttavia con il rischio di semplificare e renderla parziale ritengo si possa approssimare che l’enciclica faccia con decisione la scelta della decrescita e dunque indichi una sintesi. Nelle 10 tesi dalla 189 alla 198, Francesco d’Assisi si fa Cristo (il messia): fino a quel punto del testo c’è stato il vasto canto del creato (l’ambiente) e delle creature (il popolo) ora c’è l’irruzione nel tempio e la cacciata dei mercanti. La tesi 189, quella più nota, riprende il tema della crisi finanziaria della tesi 109 ma qui c’è la potenza di un fendente perché precipita il ragionamento in una determinazione storica “la crisi finanziaria del 2007-2008” e in uno schieramento di battaglia“il salvataggio ad ogni costo delle banche”. Nella prosa del testo l’episodio invera le argomentazioni generali “critiche” (alla tecnocrazia, all’antropocentrismo, alla finanza) sin lì sostenute, giustifica decisamente la Decrescita come prospettiva forte di uscita dalla complessità e distruttività della crisi. Non mi soffermo sul testo, delle successive tesi, segnalando soltanto che nella tesi 192 viene ripreso il programma operativo di Serge Latouche delle “8 R” (Rivalutare, Riconcettualizzare, Ristrutturare, Ridistribuire, Rilocalizzare, Ridurre, Riutilizzare\Riciclare) mentre la definizione di Decrescita, nella 193, è letteralmente la stessa di quella dell’economista francese “Per questo è arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in altre parti”.
Francesco gettato tra noi
Allora si può iniziare un cammino negli argomenti dell’enciclica per capire il nesso con la formula decrescita: come funzionano? quale mondo conviviale prospettano? Quale profezia annunciano? Adriano Labbucci in La salvezza e il pericolo (ed. Donzelli, 2015) si interroga sul ruolo di Francesco nel vivificare la profezia che è il ponte tra la politica e la spiritualità, tra “esterno ed interno”.
La sera del 13 marzo 2013, un Papa decide di chiamarsi Francesco, un nome stupefacente per il simbolo petrino subito seguito da un gesto, altrettanto spiazzante: “Buonasera”. Infine la sera invece di accomodarsi nelle stanze apostoliche, essendo diventato re, rimane a Santa Marta, rimanendo Francesco: un fatto inaudito.
Chi sono io, Francesco? è il titolo del bellissimo libro di Raniero La Valle (ed. ponte alle grazie, 2015) su Bergoglio e ripropone il dubbio esistenziale, derivato dalla regola d’umiltà gesuitica: chi sono io per giudicare? Viceversa il mondo scettico per questo paradosso, di un Francesco Papa, ha continuato ad interrogarsi Che razza di Francesco sarà?
Bergoglio, ha voluto “scrivere” ora di Francesco d’Assisi per chiarire, avendo prima “testimoniato” la povertà –il valore della testimonianza del quale si occupa Labbucci –: “la realtà è superiore all’idea” dice nell’enciclica.
Realtà. Incipit, tesi 1, “..sora nostra madre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba” questo abbiamo, questo vide e cantò Francesco, questo vediamo e non-cantiamo ma insultiamo noi.
Nel capitoletto dal titolo San Francesco d’Assisi (th dal 10 al 12) ci sono le risposte. Ha preso il nome Francesco per curare come lui, con gioia e amore cioè ritorno di gioia, natura e uomini (th10) ciò significa testimoniare, porsi sotto il linguaggio, “perché la sua relazione era molto più che un apprezzamento intellettuale o un calcolo economico”, e aderire con la pratica della cura al creato umano e non umano (th 11); d’altra parte questa adesione integrale, la conversione ecologica integrale dirà più avanti, ci permettere di contemplare di sapere il mondo come “mistero gaudioso” come fonte di gioia e non solo “problema da risolvere”.
Che significa tutto ciò? Chi è Francesco-Bergoglio (come si interroga La Valle)? Questo Papa è “proprio” il poverello di Assisi, lo è già nella “testimonianza” di Santa Marta ma lo è soprattutto per la sua azione per la totale conversione di cura al mondo ambientale -“il prendersi cura” di Heidegger – e di quello umano –“l’aver cura”-. Il riferimento al Santo non è solo letterario o simbolico, ma reale rispondendo alla domanda come si “cammina” qui e ora nel mondo tra gli uomini? Francesco Papa, ha già intrapreso il suo cammino: subito nelle “silve” impervie del Medio Oriente dove ha conosciuto il dolore della Siria, ed ha cercato di mitigarlo, ed ha subito assunto su di sé la Palestina appena martoriata dall’ennesima strage israeliana a Gaza. In questo cammino ha incontrato (nelle tesi dalla 17 alla 62) le ingiurie arrecate all’ambiente a causa della iniqua organizzazione sociale. Li si formano le premesse “reali” del suo approccio alla Decrescita: la guerra alla natura deriva dalla guerra degli uomini (quella terza guerra mondiale “già in corso” di cui parla da molto). Questa drammatica relazione smentisce l’ecologia superficiale (th. 50) quella della “green economy” quella che vede nuovi “business” nella natura e smentisce (nella tesi 194 sulla decrescita) la possibilità di una “crescita sostenibile”.
La teologia del ritorno di Dio
Francesco d’Assisi è certo il camminatore – come Bergoglio lo è calzando le pesanti scarpe del popolo- ma è anche cantore o “giullare di Dio” come nel film di Roberto Rossellini e offre una figura, una immediata rappresentazione umana all’annuncio scandaloso di questo Papa: l’annuncio di Dio come dice Raniero La Valle “il discorso su Dio a una società che si è abituata a vivere <come se Dio non ci fosse>(che sarebbe la laicità) o, come dice più schiettamente, senza credere in lui (che sarebbe l’ateismo)” (p.26 Chi sono io , Francesco?). Per far tornare Dio occorre che la ricognizione sulle sue creature divenga un canto, cioè ne renda la sofferenza e la gioia. Ma come si fa ad ascoltare la voce della terra, dell’acqua o delle specie animali? L’enciclica usa il “rovesciamento”, la giullarata –come negli episodi folli del film di Rossellini- per andare al di sotto della convenzione, dell’astrazione economico-commerciale “…le risorse della terra vengono depre¬date a causa di modi di intendere l’economia e l’attività commerciale e produttiva troppo legati al risultato immediato…Le diverse specie contengono geni che possono essere risorse-chiave per rispondere in futuro a qualche necessità umana o per risol¬vere qualche problema ambientale.” (th 32).
Questa passione\affezione per il creato è lo spazio teologico ed è il senso dell’annuncio di Dio di Bergoglio, la passione di Dio per le sue creature cioè la misericordia in atto, il “misericordiare” secondo i neologismi di Bergoglio (R.La Valle p.21). Questo è il presupposto “Non giudicate e non sarete giudicati; non condannare e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati” (Lc. 6,37), “non sono venuto per condannare il mondo” (Giov. 12,47) il giudicare (la dimensione politica) viene molto dopo. Ma quel presupposto non è solo parola, lettura per l’omelia della domenica, è già giullarata nell’esistenza di Bergoglio: sono i suoi scarponi, Santa Marta, l’abbraccio ai barboni accompagnati a vedere il cielo eterno della Sistina cui anche loro appartengono, l’irruzione “scorretta” nell’antica e nobiliare sala del Sinodo insieme agli “ultimi della terra”, agli aborigeni, ai cartoneros (che ha ferito la curia più delle altre giullarate). E’ incarnazione secondo il gergo teologico cristiano. Post-factum l’Enciclica formalizza e chiarisce il Dio di Bergoglio, il Dio già dato nella sua esistenza. Tuttavia quel Dio non è l’incontro nell’interiorità solitaria di uno “preso alla fine del modo”: la prosa dell’enciclica, come le azioni, ci dicono altro. L’Io narrante del testo assume tutte le voci verbali: c’è anche l’Io (personale) laddove arriva il momento della scelta (ad es. quella per Francesco d’Assisi), ma prevale la terza persona singolare ad assumere le osservazioni della realtà e quella plurale ad assumere posizioni di varie assemblee cattoliche mentre, infine, “il plurale maiestatis”, il noi papale, diviene il comunitario appello alla responsabilità e all’esempio ai più vicini, ai cristiani, “noi cristiani”, i cristiani per primi, l’avanguardia.
L’antropologia ottimistica del popolo latino americano
Dio annuncia un cammino, è cammino sinodale il “sogno” di Carlo Maria Martini, come ricorda A.Labbucci concludendo il libro citato, “un nuovo Concilio Vaticano che faccia camminare la Chiesa accanto agli uomini e le donne in spirito di fratellanza” (p.114).
Quale uomo si scoprirà lungo questo cammino? L’uomo è in grado di incontrare la misericordia? Che cosa c’è dentro l’uomo?
Sul punto, è stato sempre mia guida proprio Raniero La Valle testimone colto del Concilio Vaticano II e la lettura dell’enciclica conferma il suo indirizzo. L’uomo, la sua anima è capace e rivolta al bene, il peccato è superabile, questo è la rivoluzione di Giovanni XXIII, contro il pessimismo antropologico dell’azione umana peccaminosa. Comunque questa conversione permette di gioire del mondo, di apprezzare il lavoro dell’uomo, prevalendo i toni speranzosi che seguono descrizioni drammatiche, nell’intento construens che guida l’enciclica. Il ritorno al Concilio è anzitutto ritorno alla sua antropologia ottimistica; nella sua interiorità l’uomo incontra la possibilità dell’altro e l’enciclica rafforza questa istanza con una forte apertura alla chiesa orientale ortodossa, dove la concezione del peccato originale è da sempre attenuato e storicizzato, con una certa ripresa dell’eresia di Pelagio. Di fatto il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo, nelle tesi dalla 7 alla 9, è citato dal Papa tra i suoi principali ispiratori, subito dopo l’omaggio ai predecessori. I suoi argomenti sostengono un concetto di peccato molto vicino all’atto di Hybris della classicità greca. Per inciso l’apertura al “caro Patriarca Ecumenico Bartolomeo, con il quale condividiamo la speranza della piena comunione ecclesiale” (th 7) arriva insieme alla proposta di riunificare la data della Pasqua, in un contesto di gravi difficoltà delle chiese orientali e soprattutto dentro la questione Ucraina che Francesco avverte come il più pericoloso cuneo per la guerra europea. Di nuovo la parola, che ora leggiamo, è preceduta da una fenomenologia concreta. La costruzione “logica” di un’antropologia ottimistica nella enciclica è sostenuta dal “fenomeno” che lui conosce e a cui si riferisce esplicitamente –nella teoria e nella prassi- la resistenza delle comunità latino americane alla finanza nordamericana. E’ lo stesso mondo di tecniche e produzioni devianti, indagato da Ivan Illich e il suo CIDOC (Centro Intercultural de Documentacion) proprio intorno agli anni del Vaticano II del quale lo stesso fu consulente importante. Questa concezione ottimistica, dove l’uomo può ancora scegliere il bene (dopo aver voluto “piuttosto le tenebre che la luce” secondo Giovanni apostolo), è il presupposto della libertà e della Decrescita. Serge Latouche ne “L’invenzione dell’economia” dimostra come il presupposto dell’economia del profitto (“crematistica”, economia del denaro) si basa sull’argomento scettico dell’uomo chiuso nel suo calcolo individuale e a cui solo la magia del mercato può offrire la possibilità di relazione, così da generare una socialità competitiva.
La Filosofia verso la realtà: tomismo e fenomenologia
Questi aspetti teologici e antropologici, conducono ad interrogarsi sul disegno complessivo dell’enciclica, sulla sua filosofia, sui temi e gli autori che vi confluiscono. Rinvio al citato articolo di P.L. Fagan, offrendo il rapido panorama di autori presenti nell’enciclica integrandolo solo negli aspetti che affronterò di seguito.
1) Anzitutto nell’enciclica c’è il “silenzio fragoroso” del protestantesimo, o meglio dell’agostinismo. Non c’è alcuna ricorrenza di termini quali Agostino\ismo, Protestanti\esimo e non c’è alcuna apertura politica verso il mondo protestante. Come si diceva la prosa del testo è costruttiva ma proprio per questo, da una visuale critica, il silenzio conta; tanto più quando si consideri che Ratzinger è grande studioso di Agostino. Cosa rappresenta nella tradizione teologica filosofica il riferimento ad Agostino? E’ la predestinazione per grazia –che sarà esaltata da Lutero-, la mancanza del libero arbitrio, il prevalere di temi manicheisti nel male che si “fisicizza” nel mondo e lo sprofondare nell’interiorità, unica dimensione del bene. Il risvolto significativo, semplificato, è colto ad esempio da Latouche sempre nel citato “L’invenzione dell’economia”. La svalutazione delle opere, dell’operare e scegliere tra bene e male, comporta lo sviluppo della moderna psicologia delle “intenzioni” (interiori) e dell’azione utile personale prevalente –se non unica- sull’azione disinteressata per il fine “salvifico”, cioè utile socialmente. Questa concezione dell’anima è nell’etica “formale” protestante, non interessata al bene ma solo al dovere ed è l’economia dell’utilitarismo che abbandona al caso (“la mano invisibile” di Adam Smith) che “i vizi privati” divengano “pubbliche virtù”. Questo atomo isolato è l’individuo “borghese” della modernità, oggi nella crisi della modernità divenuto modello di massa laddove si attenua l’etica produttivista declinando nel “gusto” relativista del consumo e alla provvidenza del mercato si sostituisce l’idolo più potente: il denaro. Questa fede “chiusa” ha condotto al fideismo, all’alienazione, nella “fuga nell’al di là”: il silenzio di Bergoglio segnala un immediata opposizione a questo filone dell’occidente, il suo discorso riguarda la religione, nel senso della distinzione di Hegel tra fede e religione, come “spirito autocosciente”, come (traducendolo per quello che è possibile) coscienza delle realizzazioni storiche umane.
2) Difatti i suoi riferimenti, gli autori le loro ricorrenze indicano un’altra tradizione. Centrale appare il motto “La realtà è superiore all’idea” chiude tesi 110, dove si argomenta contro l’astrazione specialistica, e chiude tesi 201, dove si sostiene l’apertura al confronto, il dialogo paziente ma con un punto di fondamento. Il concetto è ripreso dalla sua precedente Evangelii Gaudium,esortazione ai vescovi, e prosegue ma con altra ispirazione la battaglia anti-relativista, già di Ratzinger. Si avverte il riferimento alla tradizione tomista laddove le citazioni esplicite dell’Aquinate (th 80, 86, 240) servono a sostenere un concetto di realtà intessuto di “arte” finalistica (80) ma soprattutto di “relazione”, di completamento e supplenza tra “cose” (86) e di “innumerevoli relazioni costanti che si intrecciano segretamente” (240). L’interpretazione del riferimento alla tradizione da parte di Bergoglio è mediata da tre autori. A) Il teologo gesuita Teilhard de Chardin, è segnalato da Fagan nell’ articolo menzionato insieme al ricordo delle accuse di eresia spinozista di cui fu oggetto –negli anni del Concilio-. Nell’enciclica aprendo la th 83 “Il traguardo del cammino dell’universo è nella pienezza di Dio, che è stata già raggiunta da Cristo risorto, fulcro della maturazione uni¬versale.” pare sostenere una forma di immanentismo, la natura cioè è perfettamente evoluta con l’avvento del Cristo ed è ora nelle mani, nella cura dell’uomo. Il teologo francese, emarginato per queste sue posizioni, era anche valente paleontologo e la sua presenza in questi luoghi importanti assomiglia ad una riabilitazione. B) Del filosofo Paul Ricoeur, è citata una frase importante in th 85 “Io mi esprimo esprimendo il mondo; io esploro la mia sacralità decifrando quella del mondo” che ribadisce l’ermeneutica di Tommaso d’Aquino: la possibilità di arrivare a Dio anche attraverso la ragione, decifrare il mondo umano-naturale (il creato) da parte di tutti, anche i non credenti. Inoltre, qui segnalerei anche il risvolto psicologico: l’anima tomista “mondanizzata” laddove “esprimendo il mondo” è sempre in relazione al mondo (opposta alla solitudine agostiniana). C) Infine l’autore più presente e importante, il filosofo e teologo Romano Guardini; studioso anche di chimica e formato nell’ambiente tedesco della fenomenologia di Max Scheler e della critica alla tecnica di George Simmel. Nei molti e fondamentali luoghi del’enciclica dove compare (Th 105, 108, 115, 203, 220) si cita la sua opera La fine dell’epoca moderna dove la critica della dismisura e della potenza del moderno, generatori del paradigma tecno-economico, apre la possibilità di un altro tipo di produzione e lavoro ordinati e serventi la comunità. L’apporto della fenomenologia “realista”, quella di Scheler, curvano ulteriormente il tomismo ad assumere il lavoro umano, la sua esperienza alienata ma potenzialmente liberatrice, quale momento creatore la realtà. Come ribadito in più passi, l’ecologia non è riducibile a pura difesa della natura e ciò anche perché la realtà è lavoro + natura, lavoro in proporzione alla natura. Non c’è dunque naturalismo (fideismo nei meccanismi nella natura) ma relazionismo (è stato detto) contro il relativismo dell’idea da intendersi come idea astratta e individuale o ideologia.
3) A Romano Guardini è dedicata la tesi di laurea di Ivan Illich negli anni ‘40, il quale, negli anni 50, succederà a Jacques Maritan nell’insegnamento di Tommaso d’Aquino a New York. Come Guardini e de Chardin, Illich aveva alle spalle anche studi scientifici di istologia e di cristallografia, una formazione “tecnologica” è anche di Bergoglio che è chimico. Illich è “sapiente del 900” come dice Raniero La Valle ricordando il suo ruolo preminente nella commissione teologica del Vaticano II, dalla quale poi fuggì per divenire uno dei più sovversivi pensatori del 900. Attraverso queste affinità ritengo la sua presenza “spirituale” nella enciclica fortissima e non solo perché, come noto, è il più grande ispiratore della teoria della Decrescita ma per la “testimonianza” nelle realtà “popolare”. Illich nella sua difesa delle culture popolari, depositarie della misuratezza e della speranza rischiosa di Epimeteo (fratello del prepotente Prometeo) ne valorizza la possibilità di una gestione e sviluppo delle tecniche utili alla soluzione di bisogni comunitari. Il discorso sulla tecnica non è confinato alla dimensione metafisica di Heidegger ma giocato nella prassi sociale della costruzione della comunità, che spiega le ricerche del CIDOC con la promozione dell’autocostruzione presso le popolazioni indios, la critica degli specialismi di scuola e medicina, la provocazione della bicicletta contro l’automobile nelle città. Insieme agli altri autori considerati, condivide una cultura tecnica e come Bergoglio ha esperienza delle forme popolari di autorganizzazione (come ancora nella recente gestione del credito popolare con la creazione del Banco del Sur che coinvolge ormai quasi tutti i paesi del Sud America ). Nell’enciclica c’è la stessa intonazione “appropriativa” e positiva anche laddove si svolge una radicale critica alla “tecnocrazia”. Illich è molto presente nel modello antropologico conviviale dell’enciclica nel capitolo “Gioia e pace”; con il lavoro e la felicità a completare la conversione ecologica. In tutto il testo di Bergoglio si avverte l’intonazione alla possibilità di fare bene e felice, di realizzare compiutamente il proprio animo e di attuare l’intenzione. Quest’etica felice rinvia ad Aristotele ed è lontana dalla morale del dovere, dalla solitudine dell’intenzione, così come è aristotelica la distinzione tra “economia della casa” e l’illimitatezza dell’economia del denaro (crematistica), distinzione che fonda in qualche maniera la scienza economica della decrescita (Latouche L’invenzione dell’economia). Illich in questo ritorno alla “realtà” è guida sicura nel pensiero ma anche nell’azione.
La politica: il soggetto è il fine ultimo
Dunque la decrescita dell’enciclica non è una proposta estemporanea o una provocazione politica ma raccoglie un tessuto di mediazioni recenti e antiche, interne alla riflessione religiosa e a quelle della ragione: una sintesi che, come detto, intende incidere “politicamente” sul mondo. Anzitutto la lezione realista risolve la domanda di Profezia posta in apertura dal citato libro di Labbucci. La profezia ridà speranza alla politica in quanto vede meglio il presente, “Il profeta è per eccellenza <uomo del presente> coinvolto nella religione e nella politica, nella società e nei drammi del suo tempo.” (p.3 La salvezza e il pericolo). Dal momento dell’elezione, Francesco ha ispirato attesa profetica ed ora l’enciclica la conferma e perfeziona. Cito ancora Pierlugi Fagan che con “La decrescita non è un alternativa”
(https://pierluigifagan.wordpress.com/2014/06/24/la-decrescita-non-e-un-alternativa/)
dimostra come tutti gli indicatori economici, finanziari, sociali e demografici evidenzino che la decrescita non è una ideologia ma un fatto: il presente. L’enciclica guarda bene il presente e vede la decrescita come totalità, cioè come insieme di decrescita-selettiva maltusiana\decrescita-solidaristica felice. Per rimanere ad Aristotele c’è già la “potenza” della felicità e quindi la profezia differisce radicalmente dall’Utopia, che è disegno sovrapposto alla realtà; idea “inferiore” secondo il principio di Bergoglio. Conseguentemente tutto il problema cade fuori dalla teoria, dalla filosofia, nel campo della “prassi” (secondo la partizione aristotelica) nell’etica e nella politica. Ciò significa due cose. La conversione, la testimonianza e la pratica personale, l’ascetica gesuitica che attraversa l’enciclica, con il cammino francescano, ed è la formazione, la pedagogia dell’individuo. Questo appello lo rivolge anzitutto ai cristiani, ai vicini, con l’intento, come detto, di disporre subito di un’avanguardia di “quadri”. In secondo luogo, tuttavia, ed è questo lo specifico della tradizione dell’ordine di Loyola, occorre l’organizzazione –rimando alle penetranti osservazioni di Antonio Gramsci sull’attenzione partitica dei gesuiti “…perché gli strati intellettualmente superiori non si stacchino da quelli inferiori” (quaderno 11, XVIII pp1380-81)-. In tal senso la tesi 219 è illuminante: “Tuttavia, non basta che ognuno sia migliore per risolvere una situazione tanto complessa come quella che affronta il mondo attuale. I singoli indi¬vidui possono perdere la capacità e la libertà di vin¬cere la logica della ragione strumentale e finisco¬no per soccombere a un consumismo senza etica e senza senso sociale e ambientale. Ai problemi sociali si risponde con reti comunitarie, non con la mera somma di beni individuali…” subito prima aveva ripreso l’esempio di Francesco d’Assisi (th 218), che conclude il suo cammino qui, nelle “reti comunitarie”: il suo percorso personale si fa servizio al popolo, organizzazione.
Vorrei attenermi solo all’universo dell’enciclica, alla sua lettera e al contesto culturale proprio, ma non posso non rilevare come alcune letture superficiali e meccaniche ne abbiano criticato la mancanza di conflitto, la carenza di una definizione dell’antagonista. La dialettica, come detto, dell’enciclica è “positiva” soffermandosi sulle possibilità costitutive di altri paradigmi: Dio misericordioso, anima ottimista, decrescita, comunità; mentre il negativo, la ricognizione del mondo, fatta nel segno della critica alla modernità di Guardini- si concentra nel termine “tecnocrazia”. Certamente il Papa non affronta l’analisi del Capitalismo Assoluto ma proprio per questo la posizione di “un altro mondo” di un altro “logos” è subito alla “critica delle armi” . In questo senso conferma l’approccio fenomenolgico, attenendosi alla manifestazione evidente e barbarica del capitale: la rendita finanziaria, La filosofia del denaro e lo fa per porre subito l’Ordine del Giorno (l’analisi concreta della situazione concreta). Perciò il termine tecnocrazia accentua un meccanismo “storicamente” malato più che un male senza tempo, anche qui la realtà (sociale) di Tommaso avanti all’intenzione (personale) di Agostino.
In fondo il movente urgente della Laude è riorganizzare il cammino del popolo di Dio ma questo è anche il thelos fondativo della Chiesa disperso in quella “scomparsa di Dio” di cui parla Raniero La Valle. Chiesa che torni all’etimo antico di “ecclesia”, assemblea politica cioè strumento per costituire il popolo in soggetto della Storia. Perché solo il popolo può riconoscere la proporzione del creato, proporzionando la sua vita sociale e in questa “reciprocità” è la misericordia del Dio per i credenti e la salvezza per tutti.
La poesia esistenzialistica del millennio
La bellezza “umanistica” di questa Laude è nello stile, introdotta e chiusa dalla poesia parla il linguaggio di tutti, benché, come si è cercato di evidenziare, contenga un panorama vastissimo di letture e “culture”. Poesia, traduzione di culture alte, popolarizzazione, in questo movimento di pensiero si avverte l’esistenzialità –come qualcuno ha rilevato- dello scritto:l’ “ex-sistenza” come apertura, (nell’etimo di Heidegger). “Condividiamo l’esistenza” accolti dalla terra, madre e sorella, i versi del Cantico delle creature prospettano subito, nell’icipit (th.1), la situazione esistenziale: l’accoglimento. Cosi come nei versi conclusivi, ne la Preghiera per la madre terra si rinnova l’impegno alla cura della terra “Padre dei poveri,/ aiutaci a riscattare gli abbandonati/ e i dimenticati di questa terra/ che tanto valgono ai tuoi occhi./ Risana la nostra vita,/ affinché proteggiamo il mondo e non lo deprediamo,/ affinché seminiamo bellezza/ e non inquinamento e distruzione.” Tra la poesia dell’assisano e quella dell’argentino, c’è stata una civiltà intera, un millennio dove Assisi è arrivata fino “ai confini della terra”. Ora quel moto “illimitato” è in affanno e non vede più la Terra. Insegnaci a scoprire il valore di ogni cosa,/ a contemplare con stupore.

 

4 commenti per “Laudato si’, la ripresa del cammino nel mondo

  1. armando
    1 Settembre 2015 at 16:06

    L’articolo è lungo e complesso e richiederebbe un commento altettanto complesso. Mi limiterò, perciò, ad esporre alcuni punti in modo sintetico:
    1) La questione della decrescita: a me sembra un termine fuoriviante. Credo che lo stesso Latouche lo abbia adottato per contrapporsi in modo evidente agli sviluppisti senza se e senza ma.. Non a caso lo stesso Latouche parla anche, in luogo di decrescita, di “crescita zero”. E’ già un concetto diverso, nondimeno anch’esso problematico. La domanda è; quale sarebbe un livello di produzione/consumi su cui attestarsi per mantenerlo? Latouche non lo dice, anche se mostra di condividere l’opinione di Ellul, relativa alla Francia, in cui si ipotizzano i livelli dei primi anni sessanta. Siamo, è evidente, su un terreno di alta opinabilità.
    2)legate alla discussione fra crescita e decrescita c’è la questione della tecnica, sulla quale è già stato scritto in questa sede. Dobbiamo considerarla una benedizione o una maledizione? Risposta difficile, anche quì, soggetta a polarizzazioni estreme: condanna senza appello in nome dell’arcadia di un tempo naturale che fu, oppure sua idolatria come soluzione dei problemi che affliggono il mondo?
    Credo che il problema non sia crescita contro decrescita o tecnica contro “non tecnica”, ma quale crescita e quale tecnica. Governate dagli uomini con lo scopo del bene della comunità, quindi come mezzo, oppure come fini?
    Detto in altri termini, l’uomo ha sempre trasformato l’ambiente intorno a sè, ma una cosa è farlo conservando nel nuovo le forme del vecchio trasfigurate, altra cosa è annientarle (e con esse la memoria storica dei popoli), facendo nascere realtà (e individui) del tutto nuovi, come sta accadendo, nel presupposto che l’individuo sia essenzialmente storico e che tutto in esso possa mutare nel tempo.
    Su entrambe le problematiche mi sembra opportuno il richiamo a Guardini e Illich, a patto di capirne bene il senso. Guardini distingue fra quelle tecniche che, conformandosi alle forze della natura, le utilizzazno per migliorare il mondo degli uomini, e quelle attuali che, al contrario, creano un mondo parallelo a quello di natura e il cui controllo può sfuggire di mano. Illich, dal canto suo, quando parla di “convivialità”, si contrappone certo al mondo della quantità e dello sviluppo economico incontrollato (o volto solo alla massimizzazione del profitto), ma lo fa ipotizzando un contesto culturale in cui gli usi, i costumi, le tradizioni culturali vengano mantenuti perchè conformi alla cultura e alla natura.
    Stesso dicasi per il problema ambientale, la cui soluzione non può non stare in una parola aborrita da tutti i “progressisti”: conservazione. Non per imbalzamare il mondo, ma per consegnarlo vivibile, quindi non stravolto, ai nosri figli.
    Anche per l’ambiente, come per l’economia e la tecnica, vi sono tre indirizzi di ordine generale. a) Condanna senza appello in nome di un ritorno all’antico visto come più felice b)idolatria del cambiamento copnsiderato in sè buono, e c)una trasformazione non snaturante. che cambi ma anche conservi. Ossia che sappia valutare nel merito vantaggi e svantaggi complessivi di ogni cambiamento prima che sia introdotto massivamente, e se del caso definirene le forme e le modalità, sotto il controllo e la decisione non dei così detti esperti, ma delle popolazioni a cui siano rese chiare ed evidenti tutte le implicazioni.
    Per quanto mi riguarda è mi sembra evidente che economia e tecnica debbano essere governate ferreamente da fattori ad esse esterni, se non si vuole che tracimino e affermino la propria logica intrinseca contro e non per l’uomo.. Che siano religiosi o “solo” filosofici è questione su cui non mi addentro. Altrettanto evidente è che esistono dei nessi interni fra ogni campo dell’agire umano, fra cultura, economia, tecnica, stili di vita, modi di pensare. Un mutamento secco in uno di essi si riverbera sugli altri. Non sono affatto sicuro che questo sia ben compreso nè dal Papa, nè dai cattolici progressisti, così come dagli alterglobalisti che invocano la globalizzazione giuridica e culturale del mondo (i diritti umani tanto sbandierat) ma rifiutano quella economica, come fossero compartimenti stagni. D’altra parte è evidente che un simmetrico appunto può tranquillamente essere mosso ai neocon americani o nostrani che vorrebbero lo sviluppo permanente e infinito accanto alle vecchie tradizioni culturali.
    Sul papa faccio un solo ma significativo esempio di. Riportano le cronache di questi giorni di una sua lettera “privata” a Francesca Pardi, fondatrice della casa editrice Lo Stampatello e autrice di libri per bambini di chiaro tenore Gender: fiabe in cui si parla di famiglie con due papà o due mamme, o di papà gay come fossero cose ovvie, proprio quei libri adottati da alcune scuole che tante proteste hanno sollevato fra i genitori: cito un solo titolo noto, “Il piccolo uovo”. Intanto metto le virgolette su privata perchè è una di quelle lettere private scritte sapendo benissimo che sarebbero state rese pubbliche, ossia una dichìarazione ufficiosa dalla quale far trasparire il vero pensiero dell’autore non ancora esprimibile apertamente, ed a poco valgono le precisazioni della sala stampa vaticana. Ebbene, in quella lettera papa Francesco incoraggia l’autrice ad “andare avanti” e le impartisce la sua benedizione. Come se il genderismo e l’omosessualismo non fossero il dissolvimento di ogni forma per lasciare in piedi unicamente la forma merce, e non fossero un portato del capitalismo assoluto e globalizzato che esige individui neutri e privi di forte identità per poterli manipolare. Come se il genderismo non fosse il superamento di quella fondamentale, e naturale, distinzione fra maschile e femminile fondata proprio sul corpo sessuato, di cui si decreta l’irrilevanza ai fini delle forme psichiche soggettive. Ma, allora, di che parla Francesco? E cosa significa il suo conclamato antirelativismo che, per come è declinato, finisce proprio per relativizzare? Insomma, ben venga la critica alla dismusura ed alla potenza del moderno, ma ciò implica un realistico conservatorismo, il contrario di quel vago progressismo che emerge da ogni dichiarazione del papa e di cui si fanno forti prioprio i progressisti liberal, veicolo culturale privilegiato del capitale. Quel realistico “conservatorismo” evocato anche da Mario Tronti nel suo ultimo libro quando individua un’analogia fra le rivoluzioni operaie e la rivoluzione conservatrice del novecento, entrambe sconfitte, Quell’analogia consiste, per Tronti, nell’aver entrambe tentato di svolgere la funzione di Kathekon, di freno al dilagare degli spiriti animalli del capitalismo, in quanto entrambe tese a preservare il senso delle tradizioni ed a costruire il nuovo fondandosi sull’antico e su ciò che di pervicacemente umano continua ad esistere, immutato, nell’uomo. Le intenzioni di Francesco saranno anche buone, ma gli effetti a me sembrano quelli di ingenerare grande confusione.

    • roberto donini
      1 Settembre 2015 at 18:49

      Grazie Caro Armando del tuo ottimo contributo, in particolare della chiarificazione di decrescita\tecnica\conservazione-rivoluzione. Sul Papa ritengo che al di là del merito delle sue argomentazioni sia importante aver riaperto un dibattito sullo “sviluppo” a livello alto e di massa (più ampio dei cenacoli accademici) nel mezzo del dominio assoluto dei parametri economici (del PIL) nel senso comune. Sul “correct” e la cautela papale nei confronti dei temi distrattivi dei diritti dell’allegro carnevale relativistico, ritengo derivi dal senso politico-gesuitico di non farsi mettere in mezzo sul conservatorismo dei costumi (tema banale) che oscurerebbe il discorso “fondamentale” sulla giustizia sociale.

      • armando
        1 Settembre 2015 at 19:59

        grazie per l’apprezzamento. Su Tecnica ed economia, crescita e decrescita, se può interessare ho di recente scritto quì http://www.ilcovile.it/scritti/COVILE_868_Ermini_Tecnica.pdf
        Per il resto concordo sull’importanza che ci sia un dibattito sul concetto di sviluppo e sulla tecnica che superi dicotomie secche, ma che prenda in considerazione quei concetti da un punto di vista davvero razionale in senso ampio, ossia che vede la vera razionalità come il bene della comunità.
        Francesco un “furbo” gesuita? Può darsi, ma spesso troppa furbizia produce effetti contrari al voluto, senza contare il fatto che, secondo me, giustizia sociale e costumi (stili di vita, modi di pensare etc. etc.) non sono separabili come sembra all’apparenza. Puntare tutto sulla giustizia sociale lasciando in subordine gli altri temi, è anche la terribile illusione di tanta (troppa) parte della sinistra che ha finito per fare propri i canoni culturali del capitale, con ciò negandosi anche alla giustizia sociale che finisce per essere considerata più come la realizzazione dei desideri individuali che come un concetto collettivo, o meglio comunitario, entro il quale i singoli individui riconoscano se stessi e l’altro come “prossimo”.

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