Le superdonne che piacciono al capitalismo. La svolta reazionaria del femminismo mainstream

he la svolta “post socialista” delle correnti maggioritarie del femminismo – quelle, per intenderci, che dedicano il proprio impegno esclusivamente al conseguimento della parità di genere in tutti i campi dell’attività economica, sociale e politica e al riconoscimento identitario, avendo abbandonato ogni pretesa di superamento del capitalismo – abbia trasformato un movimento originariamente anti sistemico in un’ideologia reazionaria, in quanto funzionale alla conservazione dello stato di cose esistente, dovrebbe essere ormai scontato per chiunque insista a considerare attuale lo slogan “socialismo o barbarie”. Ma, a quanto pare, non è così. Ricevo infatti da Cristiana Fischer una mail in cui riversa il testo di un suo commento alla pagina di un’amica che aveva rilanciato il mio precedente post su questo blog. Non riporto tutto il testo ma solo alcuni passaggi della seconda parte (le frasi evidenziate in corsivo sono sottolineature mie).

Fischer dice che io non ho colto cosa significhi <<sempre di più e più ampiamente>> il femminismo, come dimostrerebbe il fatto che mi interrogo sul perché l’ascesa al potere di figure femminili come Clinton Merkel, Von der Leyen, Kamala Harris dovrebbe rappresentare di per sé un passo verso un mondo migliore.

Ecco come la Fischer cerca di farmi vedere la luce:

<<Qui la prospettiva politica gli rende impossibile vedere che quelle donne potenti mostrano a tutte noi una cosa semplicissima: che ogni donna può cercare di ottenere quello che vuole, può dirigere la propria vita e migliorare quella di altri. (…)

Il potere che le donne vogliono ottenere, sostenendosi tra loro, imparando a conoscersi in relazione tra loro e confrontandosi tra loro, è la padronanza sulle proprie vite. Quelle “donne potenti” lo hanno fatto, quindi manifestano che è possibile. Poi verranno valutate – soprattutto dalle altre donne! – per quello che hanno fatto, e come. Il femminismo vuole dare forza a tutte: anche alle schiave sessuali sulla Domiziana, alle badanti che abbandonano i loro figli e genitori vecchi per badare a nostri, in sostanza a tutte le donne che temono di credere in loro stesse e nell’aiuto delle loro simili >>.

Tutto questo discorso, ma in particolare i passaggi evidenziati, sono il motivo per cui, sul mio profilo Facebook, le ho replicato dicendo che le sue parole sono la migliore conferma di quanto affermo in apertura, cioè del fatto che un certo femminismo – ahimé maggioritario – è oggi uno dei più formidabili pilastri della conservazione del mondo esistente. Le ho anche promesso che avrei argomentato in modo meno apodittico il mio secco giudizio su questa pagina. Lo farò sia riprendendo le argomentazioni critiche di intellettuali femministe che non fanno parte della corrente mainstream del femminismo (quella che nei miei libri definisco femminismo di regime) sia evidenziando come le frasi incriminate confermino l’adesione di fatto della Fischer a questa corrente.

Parte delle femministe latino americane avevano preso le distanze dal mito della sorellanza universale (“il femminismo vuole dare forza a tutte”?) già alla fine degli anni Ottanta, in un documento discusso al IV incontro delle donne latino americane (ne parla l’argentina Iris D’Atri in un libro che cito ne La variante populista), in cui si contestavano assunti quali tutte le femministe sono uguali, esiste un’unità “naturale” per il solo fatto di essere donne, ecc. Qualche anno dopo la boliviana Marta Cabeza Fernandez denuncerà la vergognosa opposizione delle parlamentari femministe (bianche della classe media) del suo Paese nei confronti delle richieste delle lavoratrici domestiche (indie di estrazione contadina) che lottavano per un salario minimo garantito (“perché dovremmo pagarle, le trattiamo come fossero nostre figlie, hanno vitto e alloggio e imparano lo spagnolo…”). Immagino siano le stesse femministe che l’anno scorso, dopo il golpe fascista che ha rovesciato il governo socialista di Evo Morales, hanno detto che lo scontro fra generali e militanti socialisti era un gioco di potere fra maschi che non le riguardava (forse le migliaia di donne indie che sono scese in piazza finendo uccise o stuprate non erano dello stesso avviso). Anche la “donna potente” che è stata messa a capo dello Stato dal golpe (e per fortuna cacciata dalle ultime elezioni che hanno restituito il potere al MAS di Morales) è un esempio del fatto che “si può fare”?

Se fossi coerente dovresti rispondere affermativamente: conta solo che siano donne, dopodiché, dici, verranno valutate per quello che hanno fatto e come, <<ma soprattutto dalle altre donne!>>. Questa è una chicca: il fatto che la Clinton, la più guerrafondaia esponente dell’establishment Usa, abbia giustificato le guerre “per esportare la democrazia” e liberare le donne dall’oppressione islamica, guerre che hanno fatto centinaia di migliaia di vittime (donne, uomini, vecchi e bambini) va giudicato soprattutto dalle donne? Le altre vittime contano meno? Non hanno facoltà e diritto di giudizio sull’operato della “donna potente”? Qui aleggia puzza di eurocentrismo, sessismo alla rovescia e razzismo. Così Jessa Crispin (che ho citato nel precedente post) denuncia il paternalismo (pardon: maternalismo) occidentale nei confronti delle povere donne islamiche da “liberare” (lo vogliano o no) a suon di bombe. Ma anche Judith Butler, polemizzando con il modo in cui alcune femministe tedesche hanno reagito alla famosa “notte di Colonia” (quella in cui migliaia di immigrati islamici hanno importunato le donne che festeggiavano il capodanno), ha sottolineato le connotazioni razziste di certi loro discorsi, guadagnandosi insulti feroci. Già perché, in barba alla “sorellanza”, non c’è peggior furia di quella che le critiche delle femministe “eretiche” scatenano nelle vestali del femminismo mainstream (ricordate il linciaggio di cui venne fatta oggetto Luisa Muraro dalla santa alleanza Lgbt, per avere espresso il proprio disgusto nei confronti di Vendola e consorte che erano ricorsi alla pratica dell’utero in affitto?).

Ma veniamo agli aspetti più aberranti: le donne potenti dimostrerebbero “una cosa semplicissima”, e cioè <<che ogni donna può cercare di ottenere quello che vuole, può dirigere la propria vita e migliorare quella di altri>>. Evidentemente Fischer ha rimosso ogni residuo di marxismo – che pure rivendica spesso di avere frequentato – altrimenti non si sognerebbe di affermare che chiunque (donna o uomo) può ottenere quello che vuole solo perché lo desidera. I differenziali di reddito, status, cultura, razza non contano? Non sarà che quelle donne potenti sono divenute tali perché hanno potuto usufruire di robusti vantaggi competitivi? Anche l’immigrata che fa la badante potrà un domani seguire il loro esempio? Basta solo che impari a “credere in sé stessa” e “nutra fiducia nelle proprie simili”? resto letteralmente senza parole. A parte la bubbola del poter contare sulla sorellanza (abbiamo visto quanto valga), questa scemenza equivale ad affermare che viviamo in un mondo che offre a tutti, senza distinzione, la possibilità di diventare quello che vogliano. Ma ci sei o ci fai viene da chiedere.

Mi pare già di sentire la replica. I maschi possono (?!) le donne non ancora, perché sono oppresse, escluse, discriminate quindi per loro servono esempi che dimostrino che anche loro possono farcela (!?). Ma accantoniamo queste affermazioni deliranti e veniamo al punto. Quello che cercavo di dire nel precedente post era che la svolta post socialista delle correnti femministe euroamericane (con le debite esclusioni) ha determinato una mutazione genetica del movimento tale da renderlo del tutto funzionale alla conservazione/riproduzione del sistema. E’ anche la tesi di Nancy Fraser, laddove afferma che il femminismo della seconda ondata, dopo aver reciso i legami con le radici marxiste, si è “culturalizzato”, rinunciando alla critica sociale, invertendo le gerarchie fra lotte sociali e lotte per i diritti individuali e fra politica della ridistribuzione e politica del riconoscimento, per cui si è progressivamente allineato con gli obiettivi, i valori e le idee del “neoliberalismo progressista”, ponendosi in una relazione antagonista con la cultura, gli interessi e i bisogni della classi subalterne (classi che, come emerge dalla neolingua politicamente corretta che ha adottato, disprezza profondamente). Ed è, anche, la tesi di un’altra storica intellettuale femminista come Silvia Federici, che scrive: “il femminismo ha sempre più operato in un’ottica per cui il sistema non è stato messo in discussione e la discriminazione sessuale poteva apparire come il malfunzionamento di istituzioni altrimenti perfettibili”.

Resta un’ultima questione che non riguarda gli sragionamenti di Cristiana Fischer. Autrici come Fraser e Federici (ma anche molte altre), pur criticando duramente il femminismo della seconda ondata, restano convinte del fatto che il capitalismo non possa sbarazzarsi del patriarcato senza crollare. Ebbene io credo che questo sia sbagliato. L’evoluzione degli ultimi decenni è lì a dimostrare che, non solo il capitalismo può fare a meno del patriarcato (come dell’eterosessismo, dell’omofobia e di ogni altra forma di discriminazione sessuale e di genere), ma ha sempre più individuato (Boltanski e Chiapello lo descrivono molto bene ne Il nuovo spirito del capitalismo) nella proliferazione e valorizzazione delle differenze il carburante ideale per il rafforzamento e l’espansione dei settori più avanzati dell’accumulazione. Questo vuol dire che non esistono corposi residui di esclusione e discriminazione di genere? Ovviamente no, ma la tendenza è visibilmente al loro superamento: basta leggere i giornali, ascoltare radio e tv, leggere libri, fumetti e tutti i prodotti dell’industria culturale, basta ascoltare i discorsi di tutti i politici di destra, centro e sinistra, in cui la retorica femminista è divenuta talmente pervasiva da generare il disgusto, per capire che esistono potenti forze che spingono in quella direzione, forze che non hanno nulla a che fare con il “progresso civile” ma che riguardano piuttosto l’esigenza del capitale di “mettere al lavoro” una forza lavoro femminile che è rimasta troppo a lungo ai margini del sistema produttivo di profitti). Di tutto questo si può e si deve discutere, viceversa confesso che dialogare con chi, all’interno della cultura femminista, condivide posizioni “a la Fischer” non mi interessa, così come non mi interessa dialogare con gli esponenti della cultura liberale. Cara Cristiana, niente di personale, la tenacia con cui difendi le tue convinzioni mi fa simpatia – finché la pioggia di commenti di cui mi inondi non sfiora lo stalking😀 – ma non credo sia utile proseguire questo nostro dialogo fra sordi.

Fonte articolo: https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2020/12/superdonne-che-piacciono-al-capitalismo.html

1 commento per “Le superdonne che piacciono al capitalismo. La svolta reazionaria del femminismo mainstream

  1. Antonio Martone
    27 Dicembre 2020 at 19:57

    Articolo assai convincente caro Fabrizio Marchi – Carlo Formenti ha maturato con forza e lucidità (oltre che con esemplare chiarezza) una critica efficace sia del delirante femminismo della differenza liberal, sia del femmismo che identica la lotta contro il capitalismo con quella contro il cosiddetto patriarcato.
    Restiamo in attesa che tali consapevolezze, finora appannaggio di un gruppo ancora troppo ristretto di illuminati intellettuali, possa ricevere una condivisione più ampia.
    Sarà mai possibile questo? Quanto tempo ci vorrà?

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