Osservatorio sugli eventi del mondo: fatti, ragioni, conseguenze, morali della favola

UN MONDO DI SEMIGUERRE SANZA PACI

Oggi il mondo è invaso dalle guerre. Interferenze ostili di ogni tipo. Guerre commerciali. Sanzioni e contro sanzioni. Conflitti civili; non tra contrapposte fazioni ideologiche ma tra popolo e potere. Ma anche conflitti armati; in un’area di crisi che parte dall’Afghanistan per arrivare a toccare l’Oceano Atlantico. Ma che investe anche l’emisfero nord  dell’Asia orientale e l’Ucraina.

Praticamente tutti questi conflitti possono essere catalogati come “ semiguerre senza paci”. Per la loro dimensione internazionale; perché comportano o minacciano di comportare l’uso della violenza; perché questo uso è tenuto sotto uno stretto controllo così da rimanere a bassa intensità se non potenziale; perché non possono essere vinte, cosa di cui tutte le parti sono perfettamente consapevoli e, infine e soprattutto, perché appaiono lontane da ogni soluzione anche se la sullodata soluzione è, oggettivamente, a portata di mano.

Viviamo dunque in un mondo di semiguerre. Mondo particolarmente ansiogeno. Perchè in assenza di soluzioni, la possibilità di escalation è sempre all’orizzonte. E particolarmente rovinoso: e non già per chi lo gestisce e lo alimenta, le classi dirigenti, ma per i popoli che del rifiuto di qualsiasi ipotesi di soluzione  subiscono tutte le conseguenze negative.

Ma, allora, perché tutto questo? Perché accordi già raggiunti e/o a portata di mano non vengano realizzati o vengono fatti saltare?

Inutile, anche se magari gratificante, dare la colpa a questo o a quello (che si tratti di organismi collettivi, di stati e, men che meno, di persone; qui Trump non c’entra proprio). Perché alla base di tutto – come vedremo meglio esaminando i vari casi in questione – ci sono tre fattori di carattere generale e tutti e tre importanti: l’ideologia; l’interesse politico dei gruppi dirigenti e, infine, i soldi o, più precisamente il rifiuto di  accollarsi gli oneri della ricostruzione all’indomani dell’accordo di pace.

Vediamo ora il ruolo di questi tre fattori in una serie di “Case studies”: Corea del Nord;  Ucraina; Afghanistan; Iran; Gaza e, da ultimo, Sahel.

USA- COREA DEL NORD

Il classico caso in cui un conflitto armato è impensabile; così come la variante del “regime change”. E in cui, per altro verso,  i lineamenti di un possibile accordo – o, più esattamente dell’unico accordo possibile – sono chiarissimi.  Da una parte un disarmo nucleare graduale e controllato, dall’altra, fine delle sanzioni, aiuti economici e patti di non aggressione, legati ad una de escalation militare e politica nella regione. A bloccare il tutto il combinato disposto di interessi politici e di ideologie. Il regime nordcoreano è ansioso di intraprendere la via cinese e usa la sua capacità nucleare come assicurazione sulla vita per raggiungere il suo scopo. Il “pensiero unico” che unisce repubblicani e democratici è invece quello  del Buono e Cattivo; in cui il Cattivo è per definizione, capace di tutto; anche di usare l’arma atomica contro gli Stati Uniti e, perciò, in partenza inaffidabile. Qui, il “non si discute con i dittatori” equivale a dire “non si fa la pace con il nemico”. In definitiva, una situazione bloccatA, in cui Kim continuerà i suoi esperimenti e il Congresso vedrà aumentare le sue frustrazioni. A calmare il tutto, ci penserà Trump. Anche perché alla guerra non pensa proprio nessuno.

UCRAINA

Qui il copione del processo di pace e delle sue possibili tappe, è già tutto scritto negli accordi di Minsk: scambio di prigionieri e attenuazione delle tensioni alle frontiere; cessate il fuoco, opportunamente monitorato, specie ai confini; elezioni nel Donbass sotto controllo internazionale; ritorno dello stesso Donbass in Ucraina con uno statuto di autonomia; ripresa della collaborazione e pace tra Ucraina e Russia. A garantire il tutto, assieme a Mosca e a Kiev, Francia e Germania.

Un percorso che ha già visto realizzata la prima tappa. E che ha, come suo attore e interprete principale, il nuovo presidente ucraino Zhelensky: vedi la sua recente intervista a Le Monde ( in cui dichiara, tra l’altro, di contare sull’appoggio degli Stati Uniti e, in particolare, di Trump) in  cui emerge chiarissimo il rifiuto della guerra.

A bloccare il tutto, il “clima politico”. Quello segnato da una generale russofobia. Quello della Nato e dei paesi dell’Est Europa, la cui doppia centralità si regge sull’immagine dell’orso russo sempre pronto ( come l’Ucraina dimostra) ad aggredire i suoi vicini. E, occorre dirlo, quello diffuso all’interno delle parti in causa: che siano nazional-fascisti ucraini, caporioni separatisti, avventurieri di ogni risma e, magari lo stesso Putin. Con l’aggiunta, questa particolarmente inconsulta, dei democratici americani che, nella loro ansia di impeachmenti hanno coinvolto gli ucraini senza neanche curarsi di chiedergli informazioni o pareri sulla vicenda.

Non è che tutta questa bella gente voglia la guerra. O pensi che ci sia qualche pericolo di guerra. Perché, a difendere i loro interessi politici, basta tenere alto il livello di tensione.

AFGHANISTAN

Qui il quadro delle trattative è assai più complesso. Perché coinvolge diversi protagonisti. E in sedi diverse. Significativa,però, in questo quadro, l’impotenza americana. In cui non c’entra né l’ideologia né l’interesse politico. Ma un irrisolvibile problema di costi/benefici. Parliamo di vite umane: dove a giustificare la prosecuzione è il desiderio di vendicare i morti americani, mentre a spingere verso l’accordo è il desiderio di non averne altri.  Così come, a livello di spesa, accordarsi significherebbe la quasi certezza di averli spesi invano; mentre non accordarsi vorrebbe dire la certezza di doversi accollare altri oneri e “ad infinitum”.

Niente ironie per favore. Stiamo parlando di cose serie. E di un presidente che aspira a dominare il mondo ma non a governarlo; perché questo richiede un dispendio di persone e di mezzi, per lui inaccettabile.

USA/IRAN

Qualche secolo fa, anzi qualche settimana fa, un attacco mirato ha colpito con grande precisione gli impianti petroliferi sauditi. Se ne erano, anzi se ne sono attribuiti la responsabilità, i ribelli Houthi; proponendo, subito dopo, una tregua a Ryad in cambio dell’avvio di un negoziato di pace nello Yemen. Nessuno ci ha, anzi ci aveva creduto, come era naturale. Tutti a indicare nell’Iran il responsabile dell’attacco. Tutti ad attendere la logica ritorsione: Trump con il dito sul grilletto, pronti i titoli sui giornali, pronta la prova provata del reato, a partire dal fatto, facilissimamente dimostrabile, che l’attacco era partito dal territorio iraniano.

E poi, invece, tutto questo scenario è scomparso anzi svanito; al punto che abbiamo solo la testimonianza di Trump (“avevo già pronto il dito sul grilletto; ma mi hanno spiegato che ci sarebbero stati molti morti e allora ci ho ripensato”; se solo i giudici di Oslo fossero meno “politicamente corretti”a lui il prossimo Premio Nobel per la pace) per dimostrarci che sia realmente esistito.

Ed è svanito anche lo scenario che molti davano per scontato, del confronto militare diretto. Mentre il “regime change”sognato anch’esso da molti c’è stato; ma nella direzione esattamente opposta da quella auspicata dalle centinaia di migliaia di iraniani, scesi spontaneamente per strada all’indomani dell’accordo sul nucleare per salutare il ritorno pieno del paese nella collettività internazionale.

Niente guerra, dunque. Ma un regime di semiguerra feroce, la cui vittima è il popolo iraniano.

E niente prospettiva di pace. A partire dal confronto diretto tra le due parti.  A bloccarlo sul nascere combaciano perfettamente, sino a confondersi, ideologia e interessi politici. Negli Stati Uniti, l’Iran è il Cattivo per definizione; e un Cattivo che deve ancora essere punito per le offese che ha fatto subire agli americani, quarant’anni fa. In Iran, idem, con l’aggravante che il Nemico esterno è per il potere il collante che tiene insieme il potere degli eredi di Khomeini.

E, allora, se pace ci sarà, sarà la conseguenza di un accordo generale sull’assetto del Medio Oriente, a partire dalla vicenda siriana. Difficile; ma non impossibile.

GAZA

A Gaza le semiguerre continuano. Ma con intensità sempre minore. E con la consapevolezza crescente e comune alle due parti che non possano essere vinte.

In chiaro, Israele non può distruggere e/o sconfiggere Hamas. Mentre Hamas non è assolutamente in grado di fare di Gaza il Piemonte da cui fare partire la riscossa vittoriosa contro Israele. Tutto questo è oramai assolutamente chiaro.

Come è assolutamente chiaro che una chiusura dignitosa della partita è a portata di mano. E sintetizzabile, volgarmente, nell’”io ti lascio in pace e tu lasci in pace me”; traducibile nella tregua permanente tra le due parti ( che sono, per inciso, in dialogo costante tra di loro e da tempo e su tutto) e, nel comune interesse a fare di Gaza un’area aperta  e abitabile e non un lager. Il tutto nel consenso universale: tutti pronti ai cancelli a fare da ufficiali pagatori; a partire dagli Stati Uniti. Ad opporsi: gli irriducibili della lotta armata ( ma non più in grado di nuocere); i fantasmi impotenti ( leggi l’Autorità palestinese, incapace sia di mettersi d’accordo con Hamas, sia di combatterlo); e, infine, un uomo, di nome Netanyahu. Disposto, certo, a discutere con l’Arcinemico quando necessario; ma mai alla luce del sole. Perché, scomparso o neutralizzato l’Arcinemico, scompare la narrazione su cui si regge il suo potere.

Pro o contro Netanyahu e la sua narrazione. Sarà il tema dell’ennesima elezione israeliana, tra pochi mesi. A loro, dunque, l’ultima parola; come è giusto. Ed è lecito sperare che la risposta sia quella giusta.

SAHEL

Come è noto, la Francia è intervenuta nel Sahel per contrastare il pericolo jihadista. Ma, nel fare questo, si è automaticamente schierata da una parte contro l’altra in confronto frontale già esistente: governanti  contro governati, città contro campagne, neri contro arabi, cristiani contro musulmani, agricoltori contro pastori, minoranze etniche e tribali contro il potere centrale. Quasi nessuno di questi confronti è suscettibile di mediazione. Tutti rischiano di essere alimentati e resi permanenti dall’intervento militare esterno.

Non a caso, allora, arriva l’Europa: a parlare di nuovi piani Marshall; e all’insegna dell’’”aiutiamoli a casa loro”. Ma, nella vita reale, non c’è nessun piano Marshall in vista, anzi il volume di aiuti tende a diminuire; mentre, in tutti i paesi, crescono le difese contro  i migranti: con l’effetto di contenere se non di diminuire l’afflusso di rimesse ( complessivamente 545 miliardi di dollari) su cui decine e decine di milioni di persone, in tutto il mondo basano la loro stessa esistenza in vita.

Molte meno armi e molti più soldi. Sarebbe l’unica soluzione possibile per evitare un disastro di cui saremmo i principali responsabili.

Ma il fatto è che del Sahel non importa nulla a nessuno.

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Fonte foto: GEOPOLITICA.info (da Google)

 

 

 

 

 

 

 

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