Dove è andata e dove sta andando la Cina?

Lo stato attuale in cui versa il comunismo internazionale è legato a filo doppio con i cosiddetti “socialismi” realizzati.
Non mancano le nuove teorizzazioni, ma passano sistematicamente in secondo piano di fronte alla pressoché totale assenza di spirito critico nei confronti delle concrete realtà statali sedicenti socialiste, soprattutto manca la presa di consapevolezza del fallimento di tali realtà da parte dei pochi partiti comunisti che sopravvivono alla caduta del muro di Berlino.
La mancanza di una critica unanime di paesi come la Cina da parte dei soggetti politici organizzati che ancora oggi si richiamano all’ideale comunista comporta fenomeni di straniamento e disimpegno da parte dei molteplici compagni, attuali o potenziali, che ancora oggi giustamente credono, o sarebbero pronti a credere, che i valori e gli ideali comunisti rappresentano il destino storico ineluttabile per una umanità che intende progredire sulla strada della migliore civilizzazione e non retrocedere su quella della barbarie, che intende costruire un nuovo millennio con spirito intelligente, libero e capace di affrancarsi dalle ingiustizie e dai rimasugli medioevali dell’ignoranza e della guerra tra religioni, che voglia erigere società i cui l’essere umano sia finalmente rispettato nei suoi diritti fondamentali, che sappia in definitiva riconoscere l’umano dal disumano e quindi giungere oltre le apparenze per estirpare la radice di ogni male che affonda nel terreno fertile del sistema economico capitalista.
Ma, come già fatto intendere, tali aspirazioni ideali sono mortificate e vanificate non solo dallo “status quo” mistificatorio mantenuto ad arte dai difensori del capitalismo (e fin qui è fisiologico), ma dalla realtà di chi si definisce comunista e di quei valori altamente se ne infischia, mantenendo lo stesso atteggiamento ottusamente interessato che ha condotto il comunismo alla rovina morale prima che politica, mirando quindi ad assumere quell’atteggiamento di rivalsa violenta e vendicativa che è fallace già in partenza; di chi ha ormai perso ogni spinta ideale e vive solo dello squallido cinismo di chi nulla ha compreso del vero motore della storia, motore che non sta mai nella predominanza di potere e nell’esercizio della forza militare.
Chi conosce a fondo i movimenti storici sa che gli individui come le classi sociali si liberano con il finale e necessario ricorso alla forza ed alla violenza solo quando hanno saputo prima erigere inattaccabili contrafforti logici, giuridici ed etici intorno alle loro lotte pratiche di rivendicazione, sa che essa è sempre il risultato del pensiero e dell’azione guida di infime minoranze, se non addirittura dell’esempio di singole persone portatrici di ispirazioni giuste espresse al momento giusto.
Esempi come la Cina invece sono deleteri, ma limitarsi alla Cina attuale è fuorviante ed è necessaria una piccola disamina storica: dopo inizi incerti in ogni paese del cosiddetto socialismo reale si verificò la completa collettivizzazione dell’economia. Questo successe in Urss, nella Cina di Mao ed anche a Cuba.
È sicuro che il modello dell’economia collettivizzata non funzionò per motivi vari, comunque endogeni e non solo esogeni.
La collettivizzazione forzata produsse orrori, contraddizioni e depravazioni varie (e già questo avrebbe dovuto indurre ad una riflessione teorica profonda), ogni paese in questo senso fa storia a sé, ma la storia della Cina è emblematica, ed è sulla posizione che moltissimi compagni e partiti hanno nei confronti della Cina che si comprende il significato profondo di ciò che si è esposto sopra.
Il seguente scritto del compagno intellettuale di fama internazionale Domenico Losurdo spiega bene di cosa stiamo parlando. Losurdo, che difende l’attuale modello cinese, così esprime il proprio pensiero in un documento recentemente ufficializzato dal Partito Comunista d’Italia: “La storia della Cina è diversa. Se prendiamo le mosse dalle aree governate dal Partito Comunista Cinese già nella seconda metà degli anni Venti, per quasi novanta anni di storia c’è stata una sostanziale continuità: un sistema a economia mista con forte controllo statale. Edgar Snow riferiva che in Cina erano presenti tutte le forme di proprietà. Mao Zedong a metà degli anni Cinquanta fa una distinzione netta tra espropriazione politica ed espropriazione economica della borghesia e sostiene che l’espropriazione economica non va portata fino in fondo, poiché la borghesia ha conoscenze imprenditoriali e capacità manageriali utili e necessarie all’instaurazione del socialismo. Dunque Mao afferma molto chiaramente che la completa espropriazione economica delle classi borghesi sarebbe controproducente per il socialismo e solo l’espropriazione politica va portata fino in fondo. Oggi in Cina la ricchezza degli imprenditori capitalisti non si trasforma in potere politico.”

Davvero? È proprio così? Non si sta forse creando in Cina una nuova classe borghese nei quadri stessi del partito comunista unico grazie alla corruzione dilagante? I recenti scandali che hanno coinvolto alti dirigenti di partito non insegnano nulla?

Losurdo riprende: “Per altro verso, se noi leggiamo la polemica di Deng Xiaoping contro la banda dei quattro, non c’è dubbio che ha ragione quando asserisce che «è assurdo parlare di socialismo povero». A caratterizzare la visione di Marx, infatti, è proprio questo aspetto: il socialismo è superiore al capitalismo non solo per l’accento posto su una più equa distribuzione della ricchezza prodotta, ma anche e soprattutto in quanto è in grado di produrre una ricchezza sociale su scala ben più ampia. La distruzione della ricchezza sociale generata dalle ricorrenti crisi del capitalismo, come quella scoppiata nel 2008, è una conferma di tale tesi. A questo riguardo possiamo tener presente la lezione di Gramsci, il quale sostiene, con riferimento alla situazione venutasi a creare nella Russia sovietica, che l’iniziale «collettivismo della miseria, della sofferenza», dovuto alla guerra, dovrà essere superato velocemente. Il socialismo non è la distribuzione egualitaria della miseria. Prima ancora di comportare una sua più equa distribuzione, il socialismo è in primo luogo la produzione di una maggiore ricchezza sociale.”

Ma di quale ricchezza parla Losurdo? Della stessa ricchezza consumistica di noi occidentali, o mi sbaglio? Sta parlando della stessa ricchezza che produce alienazione, e modelli di disuguaglianza sociale e disastri ecologici, o mi sbaglio? E allora che differenza c’è tra capitalismo borghese e capitalismo comunista? Ditemi quello che volete, ma se un imprenditore cinese va in giro in Ferrari ed al contempo un cinese proletario e padre di famiglia non ha una casa decente in cui vivere, per me questo non è socialismo.

Losurdo: “Quindi possiamo dire che la Cina ha mantenuto la barra sul progetto socialista – benché ancora a uno stadio primario – anche, e soprattutto, nella misura in cui i capitalisti non possono entrare a far parte della guida politica e strategica del Paese.”

Questa è una pia illusione da ingenui, se coloro che detengono il potere economico privato non si sono già impossessati dello Stato cinese facendolo diventare un “suo comitato d’affari” (Marx), presto se ne impossesseranno utilizzando tutti i mezzi nella disponibilità del loro grande potere. I grandi capitali si esprimono soprattutto come forma di potere, altrimenti semplicemente non potranno sopravvivere nella forma di grandi capitali, non c’è bisogno di leggere Lenin per capirlo.

Ancora Losurdo: “È vero, sono emerse serie diseguaglianze, ma faccio una domanda a prima vista paradossale e provocatoria: c’è più uguaglianza oggi o nel periodo di Mao? Per rispondere correttamente a tale questione occorre tener presenti non solo i rapporti interni al grande Paese asiatico, ma anche quelli globali, vigenti a livello planetario. Non c’è dubbio che la Cina odierna stia riuscendo a colmare il ritardo rispetto ai Paesi avanzati: a livello planetario si sta riducendo nettamente la «grande divergenza» (di cui parla Kenneth Pomeranz), che per secoli ha consentito all’Occidente di godere di un netto vantaggio economico e tecnologico (e di dispiegare il suo espansionismo coloniale).”

Ed ecco che emerge il grande cruccio, non tanto i rapporti di forza nel processo produttivo che coinvolgono le persone in carne ed ossa, ma i rapporti di forza tra nazioni, tra imperialismi, come se la risoluzione vittoriosa di un contrasto imperialistico risolvesse la questione del contrasto di classe (Lenin ancora docet).

Sempre Losurdo: “Per quanto riguarda i rapporti interni alla Cina, occorre distinguere tra diseguaglianza quantitativa e diseguaglianza qualitativa. In situazioni di miseria disperata, quando il godimento di un minuscolo pezzo di pane può comportare la sopravvivenza e il mancato godimento di questo minuscolo pezzo di pane può significare la morte, in tali condizioni anche una distribuzione delle risorse fortemente egualitaria sul piano quantitativo non riesce ad eliminare l’assoluta diseguaglianza qualitativa che sussiste tra la vita e la morte. Grazie al prodigioso sviluppo economico degli ultimi decenni, la Cina odierna si è liberata dalla tragedia della morte per inedia di cui soffriva a partire dall’aggressione colonialista; ha posto fine una volta per sempre all’assoluta diseguaglianza qualitativa. Certo, sussiste la diseguaglianza quantitativa, ma qual è la sua natura? Immaginiamo due treni (regioni costiere e urbane da un lato e interne e rurali dall’altro) che, dopo essere stati a lungo fermi alla stazione «Sottosviluppo», comincino ad avanzare, a diversa velocità, verso la stazione «Sviluppo».”

Sviluppo? Ho sentito bene? Ma come, noi comunisti ci battiamo contro questo modello distruttivo di sviluppo capitalistico che ci ruba tempo, dignità, salute e futuro per il pianeta ed il socialismo di Losurdo propone lo stesso modello di sviluppo che combattiamo?

Losurdo: “Spesso, quando si parla di Cina, sfugge il fatto che la disuguaglianza non è esclusiva della Cina. Voglio dire che trattiamo con supponenza le disuguaglianze in Cina, senza avere spesso un’adeguata conoscenza della questione.
Facciamo un paragone tra Italia e Cina. In Italia la questione meridionale – il sottosviluppo economico del Mezzogiorno – non è mai stata risolta, mentre in Cina la disuguaglianza regionale è stata affrontata energicamente e con risultati importantissimi.”

Eeehhhh? Si paragona la Cina all’Italia? Ma allora davvero non c’è più differenza tra socialismo e capitalismo, allora davvero fa bene l’uomo della strada ad associare comunismo e fascismo. Ricordo che il paragone è improponibile perché l’Italia è un paese capitalista privato e la Cina che dovrebbe essere comunista, e comportarsi di conseguenza, sfoggia sia il capitalismo privato che quello statale. Non fare la cosa giusta non ha scusanti, soprattutto dopo che il tradimento da parte dell’Urss degli ideali comunisti ha portato allo sfacelo che conosciamo.
Ma poi, di cosa stiamo parlando, anzi, di che cosa abbiamo parlato fino ad ora?
Se la Cina è il modello, con Pechino che ha la nebbia come Milano (con la differenza che la nebbia di Milano ha più vapore acqueo che veleni e non più vapore tossico che vapore acqueo come a Pechino), e se è vero che in Cina la pena di morte viene somministrata con frequenza superiore che negli Stati Uniti d’America, allora io preferisco rimanere italiano e mi dimetto anche da comunista.

La fine del documento non lo commento, si commenta da solo: Losurdo: “A questo punto, cosa risponde alle critiche di autoritarismo? Siamo realmente di fronte a un sistema autoritario?
Alexander Hamilton ha osservato che, se non c’è sicurezza geopolitica, non si può sviluppare uno stato di diritto. La mia prima osservazione è questa: coloro che in Occidente fanno la predica alla Cina, asserendo che la rule of law non è sufficientemente sviluppata, sono proprio coloro che sono responsabili dello scarso sviluppo del governo della legge: sottoponendo la Cina (o un qualsiasi altro Paese) a un accerchiamento militare, è evidente che si rende più difficile lo sviluppo democratico e il governo della legge. Nel mio libro La sinistra assente (cap. 5.8) ho citato uno studioso (Aaron L. Friedberg) che è stato consigliere del vice-presidente Dick Cheney e che non ha difficoltà a riconoscere: sino a qualche tempo fa gli USA con le loro forze navali e aree violavano «con impunità» e senza scrupoli «lo spazio aereo e le acque territoriali della Cina». Ai giorni nostri queste violazioni sono diventate più difficili, ed ecco allora il «pivot», lo spostamento nel Pacifico del più mastodontico apparato militare che la storia abbia visto. Probabilmente il consolidamento dello stato di diritto sarebbe in Cina più spedito se non ci fosse la pressione geopolitica, recentemente esemplificata dalla strategia del pivot asiatico lanciata da Obama. (…) Hamilton attribuisce il rapido sviluppo del governo della legge negli USA non alla superiore saggezza politica degli americani, bensì alla fondamentale sicurezza geopolitica del Paese, protetto da due oceani e senza grandi pericoli ai propri confini. La rule of law in Cina dovrà sicuramente progredire, ma ciò potrà avvenire tanto più rapidamente quanto più si rafforzerà la sicurezza geopolitica. Parlare di sistema autoritario a proposito della Cina è un errore anche da un altro punto di vista. Un Paese autoritario è un Paese che ha scarsi contatti col mondo esterno. Ebbene, se noi analizziamo la classe dirigente cinese in senso lato – i dirigenti politici, ma anche i ceti intellettuali e imprenditoriali – vediamo che essa si forma molto spesso all’estero, e in modo particolare negli USA. È da aggiungere che nelle Università cinesi insegnano un gran numero di visiting professors statunitensi e occidentali. La classe colta cinese sa dell’Occidente molto più di quello che la classe colta occidentale sa della Cina. Ciò è riconosciuto anche da personalità quali Henry Kissinger e Helmut Schmidt. (…)
Per quanto riguarda la Cina, lo studio all’estero non diminuisce in alcun modo, al contrario; ma ora cresce la percentuale degli intellettuali che fanno ritorno in patria. Sulla diversa formazione dei ceti intellettuali e politici in Cina e in Occidente vorrei richiamare l’attenzione su un altro punto. Kissinger ha osservato che le classi governanti in Occidente si formano soprattutto sul piano retorico ed oratorio, mentre in Cina la selezione della classe dirigente avviene in base alle pratiche di governo. Basti pensare – aggiungo io – alla lunga carriera di Xi Jinping: egli ha avuto moltissime esperienze di governo a ogni livello prima di giungere ai vertici del Paese, e per un certo periodo ha soggiornato anche negli USA. Questa è una situazione di vantaggio del gruppo dirigente cinese e ciò viene riconosciuto anche in Occidente. E’ difficile negare che da Deng in poi il PCC abbia forgiato gruppi dirigenti di eccellente qualità. E’ pur vero, peraltro, che la Cina è esposta molto di più alle influenze occidentali di quanto non lo sia l’Occidente rispetto alla Cina e che sul piano retorico i dirigenti cinesi non sono così brillanti come i loro omologhi occidentali.
Insomma la Cina si è aperta molto, come in passato, al fine di perseguire l’interesse nazionale. Allo stesso tempo, si potrebbe asserire che negli ultimi decenni la Cina si sia aperta un po’ troppo. In altre parole, è facile penetrare e destabilizzare un Paese quando vi sono troppi varchi. (…)
Tornando sulla definizione/comprensione del sistema cinese…
Ritengo corretta la definizione dei dirigenti cinesi: la Cina si trova allo stadio primario del socialismo, destinato a durare per alcuni decenni. È una definizione che riconosce quanto di capitalista c’è nei rapporti sociali vigenti, ma anche quanto fortemente il Paese sia impegnato in un processo di costruzione di una società postcapitalistica. Dobbiamo prendere atto che il socialismo si sviluppa attraverso un faticoso processo di apprendimento. Non sono adeguate né la categoria di tradimento né quella di fallimento. Non ha senso fare valere tali categorie per un paese e per un partito che, dopo aver contribuito potentemente alla vittoria della rivoluzione anticolonialista mondiale, stanno oggi mettendo fortemente in discussione anche il neocolonialismo praticato dall’Occidente e dagli USA.
E sulla pianificazione?
Credo che in Cina la pianificazione svolga un ruolo importante. C’è stato certamente un processo di riduzione della sfera di proprietà statale, ma questa continua a esercitare una funzione dirigente. Se ci chiediamo il perché della riduzione, ci sono due aspetti da prendere in considerazione: uno interno e l’altro internazionale. All’interno occorreva inserire elementi di competizione, mettere fine al disimpegno di massa e all’anarchia che si verificavano sui luoghi di lavoro. Sul piano internazionale, non si deve perdere di vista l’embargo tecnologico che l’Occidente e soprattutto gli USA continuano a mettere in atto contro la Cina (lunga è la lista di prodotti high tech la cui esportazione nel grande paese asiatico è vietata, così come a maggior ragione è vietata l’acquisizione da parte della Cina di aziende occidentali e statunitensi high tech): questo embargo diventa particolarmente occhiuto e pressante ai danni delle aziende statali cinesi. In questo senso, la privatizzazione è una misura di aggiramento dell’embargo. È da aggiungere che non si possono confondere le aziende private cinesi con quelle occidentali. Per esperienza personale: in Cina sono più volte entrato in fabbriche private e ho constatato l’evidenza riservata alle foto dei membri del Comitato di partito, che chiaramente costituisce una sorta di contropotere rispetto alla proprietà privata. Tanto più che questa per i finanziamenti continua largamente a dipendere dalle Banche statali. Infine, è vero che l’area dell’economia statale ha conosciuto una netta riduzione, ma questa area ha ora raggiunto un’alta efficienza. Le aziende statali cinesi (si pensi in particolare all’energia, alle telecomunicazioni, ai trasporti, al sistema bancario) sono in grado di competere vittoriosamente sul mercato mondiale. Ciò non si era mai verificato nella storia della costruzione di una società postcapitalistica.
Anche in questo caso non si tratta di un sistema autoritario, ma più evoluto. Si tratta di un sistema che lascia spazio all’impresa privata, purché rientri negli obiettivi politico-strategici di medio e lungo termine. Insomma, si mettono regole, paletti e controlli in funzione dell’interesse nazionale. Oltre a ciò, possiamo dire che c’è anche un’autentica fedeltà degli imprenditori privati allo Stato?
Il sentimento patriottico svolge un ruolo importante. Quando in una fabbrica si conseguono risultati rilevanti per quanto riguarda l’innovazione tecnologica e la rottura di un monopolio tecnologico sino a quel momento detenuto dall’Occidente, c’è una celebrazione corale per il successo conseguito e per il rafforzamento dell’indipendenza economica e tecnologica del Paese. Persino i cinesi d’oltremare partecipano a iniziative promosse dal governo di Pechino. (…)
Quali sono le debolezze del sistema? Quali i margini di un’involuzione?
Ci siamo sbarazzati della certezza del futuro luminoso garantito dalla filosofia della storia. Se è un errore grossolano partire dal presupposto che in Cina sia già avvenuta una restaurazione del capitalismo, sarebbe fatuo partire dal presupposto che la causa del socialismo abbia già vinto. C’è una pressione internazionale e interna sul socialismo cinese per fargli cambiare natura. Si pensi al TPP – da più analisti definito una «Nato economica» e per il quale Obama ha ottenuto il fast track – che esclude la Cina e la pone dinanzi al seguente ricatto: o resti esclusa (e rischi di essere marginalizzata rispetto al commercio mondiale), oppure per partecipare devi privatizzare largamente l’industria statale… E’ chiaro che questa pressione dell’imperialismo può contare anche su forze interne alla Cina. Essa è ancora molto debole sul piano multimediale. Sì, anche in questo caso la Cina ha grandi progetti all’insegna dei tempi lunghi: prima o dopo spera di scalzare l’industria cinematografica di Hollywood, che è in grado di esercitare a livello mondiale un enorme condizionamento ideologico e politico. Ma per ora il soft power della Cina è ancora molto debole. Essa è costretta a giocare in difesa. Gli USA pensavano di inondare col loro materiale la rete di Internet anche in Cina. Non ci sono riusciti perché l’espropriazione politica della borghesia di cui ho già parlato consente a Pechino di promuovere un’efficace difesa della sovranità nazionale e del socialismo dalle caratteristiche cinesi. L’Occidente afferma di voler la «democratizzazione» del grande Paese asiatico; in realtà, vuole promuovere la plutocratizzazione che si è già prodotta o sta avanzando a passi da gigante negli USA e in Europa”.
dal sito “ilcaffegeopolitico” Redazione web PdCI | agosto 29, 2015

http://www.sinistrainrete.info/politica/5646-domenico-losurdo-cos-e-davvero-la-cina.html

4 commenti per “Dove è andata e dove sta andando la Cina?

  1. Giancarlo Staffolani
    10 ottobre 2015 at 18:03

    Bisogna distinguere la fase di “Nuova Democrazia” che si può inquadrarare tra gli anni 30 e gli anni 50, dalla fase successiva in cui la “borghesia nazionale” esurisce la sua parte progressista per diventare controrivoluzionaria, QQuesto è ciò che Mao chiarisce inequivocabilmente quando distingue tra “via socialista” e “via capitalista”, ancora prima della Rivoluzione culturale (“I 10 grandi rapporti”, opere complete ed Rapporti sociali). Oggi la borghesia cinese si colloca chiaramente come “borghesia capitalistico finanziaria” a dimensione internazionale, quindi dire che non va esproriata in quanto utile allo sviluppo, non può puù riferisi a ciò che Mao Tse-tung ha sostenuto solo nella fase di Nuova Democrazia, per superarla alla fine degli anni 50. per indicare la necessità di continuare la “lotta di classe” anche dopo la conquista del potere politico contro la “nuova borghesia”. .

  2. Giancarlo Staffolani
    10 ottobre 2015 at 22:57

    Bisogna distinguere la fase di “Nuova Democrazia” che si può inquadrarare tra gli anni 30 e gli anni 50, dalla fase successiva in cui la “borghesia nazionale” esurisce la sua parte progressista per diventare controrivoluzionaria, Questo è ciò che Mao chiarisce inequivocabilmente quando distingue tra “via socialista” e “via capitalista”, ancora prima della Rivoluzione culturale (“I 10 grandi rapporti”, opere complete ed Rapporti sociali). Oggi la borghesia cinese si colloca chiaramente come “borghesia capitalistico finanziaria” a dimensione internazionale, quindi dire che non va espropriata in quanto “utile” allo sviluppo, non può più riferirsi a ciò che Mao Tse-tung ha sostenuto solo nella fase di Nuova Democrazia, per poi superarla alla fine degli anni 50 indicando poi la necessità di continuare la “lotta di classe” anche dopo la conquista del potere politico contro la “nuova borghesia”. .

  3. armando
    12 ottobre 2015 at 13:54

    La Cina non è imperialista ma per un mondo multipolare, quindi inevitabilmente si oppone agli USA. Ciò è bene e in questo va appoggiata. Ma la sua opposizione è squisitamente geopolitca, e il suo capitalismo dirigista con forte potere statale non si richiama a valori etici e ad un’antropologia diversi da quelli americani, tale non essendo, per quel poco che ne so e quindi potrei sbaglairmi di grosso, il confucianesimo. Anche l’URSS è un paese a capitalismo dirigista con forte potere statale, ma il governo russo tenta di coniugare economia privata, dirigismo politico statale e forte richiamo alle tradizioni culturali e spirituali della Russia. Non so se ci riuscirà (secondo lla tradizionale lettura mrxiana del rapporto struttura/sovrastruttura no), ma so che non ci limitiamo alla pure importantissima geopolitica e ci allarghiamo ai modo di riproduzione culturale del capitalismo, quella russa è un’opposizione ben più profonda e fondamentale di quella cinese.

  4. Fabrizio Marchi
    23 ottobre 2015 at 11:33

    http://www.proteo.rdbcub.it/article.php3?id_article=747
    Analisi molto interessante che condivido quasi in toto. Unica eccezione (però importante): non penso , come pensa invece l’autrice, che ci sia una sostanziale continuità fra la Cina di Mao e quella di inaugurata da Deng. Quella maoista non era certo una società comunista compiuta (del resto quale lo è stata? E poi qual è? è tutto da stabilire…) e non era certo scevra da contraddizioni (nè avrebbe potuto esserlo), tuttavia era una società che, pur nel mezzo di quelle contraddizioni e con mille difficoltà interne ed esterne di vario genere, si sforzava di ricercare e soprattutto di praticare una politica di tipo socialista, anche al prezzo di forti contrasti e lotte interne, spesso cruente e sanguinose. Del resto la dialettica politica fra destra e sinistra nel PCC guidato da Mao era fortissima e la lotta politica che ne scaturì culminò con la vittoria della destra guidata da Deng che sbaragliò la sinistra subito dopo la morte dello stesso Mao. La rottura di Deng e del cosiddetto “nuovo corso” cinese con la cocnezione maoista è invece netta dal mio punto di vista. Nè bisogna confondere, come fa sempre l’autrice, la politica estera di Mao, l’isolazionismo tattico cinese (sotto questo profilo, in sostanziale continuità con la tradizione cinese) o l’apertura agli USA (con tutto ciò che ne è conseguito, cioè lasciare sostanzialmente campo libero nel mondo a questi ultimi) come un cedimento ideologico al capitalismo o addirittura come la logica conseguenza del maoismo. La politica estera maoista fu dettata da una scelta tattica, a mio avviso profondamente sbagliata, ma di questo si trattò. Non dimentichiamoci che in quella fase la Cina maoista aveva rotto con l’URSS che era individuata (in primis da Mao) come una potenza capitalista di stato “socialimperialista” (e anche su questo sbagliava a mio parere, perchè l’URSS era una potenza egemonica ma non imperialista). Fu un errore strategico e tattico, a mio parere, anche grave, ma dettato da ragioni ideologiche e non da una natura intrinsecamente capitalista del maosimo non ancora espressa (come mi sembra che pensi l’autrice, se non ho capito male). Quindi la rottura col maoismo da parte del “nuovo corso”, c’è stata, eccome. Per il resto, condivido tutta la sua analisi, in special modo quella sulla Cina attuale.
    Ci tornerò con un mio articolo specifico.

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