Dove sbagliavano i francofortesi

In queste righe si cercherà di analizzare e capire quali correnti di pensiero sono penetrate nel tempo in quella categoria onnicomprensiva che è la sinistra italiana (e non). Come queste siano state assolutamente dannose e come possono risultare dannose anche oggi (perché frutto di un processo di appropriazione malsano)  per le analisi e quindi per conclusioni e  pratiche. Si parlerà di alcuni esponenti della scuola di Francoforte e di Michel Foucault.

La scuola di Francoforte si pose come obiettivo, tramite la critica al capitalismo e al comunismo sovietico, il raggiungimento di un’umanità disalienata, tenendo come caposaldo la ragione critica, dialettica che conserva teoria e prassi. Nacque nel 1923 , diretta da Gunberg, fondatore dell’archivio per la storia del socialismo e del movimento operaio.

Ci si soffermerà su tre esponenti e pensatori della scuola: Marcuse, Horkheimer e Habermas.

Marcuse nella sua opera più celebre, L’uomo a una dimensione, ci dice “Borghesia e proletariato nel mondo capitalistico sono ancora le classi fondamentali, tuttavia lo sviluppo capitalista ha alterato la struttura, rendendole inefficaci come agenti di trasformazione storica”; vediamo già come queste parole possono essere molto pericolose per qualsiasi movimento che voglia riproporre la lotta di classe poiché distrugge quella dicotomia fondamentale e propria di ogni movimento che voglia definirsi rivoluzionario. Marcuse inoltre individuò nel lavoro non alienato l’autenticità dell’esistenza; come potrebbe essere un lavoro non alienante in una società capitalistica di consumo, sarebbe un importante interrogativo (e occasione di dissenso) di ogni sinistra che voglia portare questo nome. Marcuse pose ,insomma, sullo stesso piano capitalismo e comunismo, poiché alla radice egli individuava in entrambi la stessa struttura tecnologica avanzata. Il filosofo sostenne che la classe operaia fosse integrata nel sistema e che solo al di fuori di questo potesse esserci un potenziale rivoluzionario “al di sotto della base conservatrice”; compito della filosofia era per il pensatore, quello di approdare ad un grande rifiuto della società esistente, grazie a “l’immaginazione”, parola d’ordine per i movimenti studenteschi del 68. A tutto ciò non c’è, a mio avviso, miglior risposta che la lezione gramsciana. Gramsci sottolineò come i capitalisti puntino e incentivino l’individualismo poiché quest’ultimo è volto a disfare ogni organizzazione sociale in quanto portatrici dello “slancio verso il comunismo” e che il proletariato può (e deve) diventare classe dirigente nella misura in cui riesce a creare un sistema di alleanze con altri settori sociali (che in Gramsci prenderà  la forma di un auspicata alleanza fra operai e contadini). Come è possibile una coscienza di classe in un orizzonte come quello di Marcuse in cui la reale classe sfruttata sembra scomparsa o assorbita? Vediamo come l’appropriazione dei concetti marcusiani da parte dei giovani “ribelli” del 68, abbia portato non solo a una confusione teorica, ma anche a una confusione circa il concetto stesso di rivoluzione (che di norma consisterebbe in un rovesciamento dei rapporti di forza economici) mentre per i sostenitori della rivoluzione sessantottina, consiste in un cambiamento dei costumi (nel cambiamento della sovrastruttura, per dirla in termini marxiani). Ci si dimentica e ci si vuole dimenticare che un compromesso culturale non è una rivoluzione.

Abbiamo prima citato Gramsci che; come molti sapranno, non fu soltanto un brillante pensatore politico ma anche uno studioso di linguistica e glottologia. Egli iniziò la sua carriera da studente interessandosi della lingua, dei modi di comunicazione  (tema che ricorrerà spesso nei quaderni del carcere). Gramsci insistette sull’importanza di una lingua unitaria che fosse in grado di agevolare la comunicazione fra i proletari, una lingua dinamica e non irrigidita, che sapesse produrre egemonia intesa come “direzione culturale”. La storia di una lingua veniva identificata come storia della  capacità di egemonia dei suoi intellettuali e la questione degli intellettuali era in stretta connessione con la definizione del concetto di stato, i processi di formazione erano isomorfi a quelli di formazione di una lingua; le debolezze di uno stato nazionale si riflettevano dunque sulla lingua nazionale. Per chiarire meglio citiamo direttamente il pensatore sardo: “I giovani sono tutti operai, bisognerà incominciare dal linguaggio stesso per trasformare in elementi di senso comune, le ideologie e i concetti elaborati dagli intellettuali”; la forma viene qui intesa come mezzo pratico per lavorare sul contenuto e Gramsci sosterrà con convinzione che un giornale operaio doveva dar modo agli operai di esprimersi nel loro linguaggio, riflesso della loro vita.

Questo preambolo su Gramsci ci serve ora  come confronto e come punto guida per analizzare un altro filosofo che si occupò di comunicazione e che fece parte della scuola di Francoforte: Habermas.

Habermas, valorizzando la riflessione sul dialogo come condizione per la costruzione di uno spazio sociale compie un tentativo di ridefinire la razionalità. Figlio della lezione kantiana pone un parlante ideale dotato di ogni possibile socializzazione. Habermas vede nell’individuazione delle regole dell’argomentazione , il compito di una scienza ricostituiva, facendo derivare dalle forme dell’argomentazione una “fondazione razionale e universale dei principi dell’agire”. Questa etica del discorso resta però kantiana.  L’orientamento morale per Habermas non ha fondamento nella coscienza ma nell’intersoggettività della comunicazione e la pretesa di verità intersoggettivamente valida resta (contro la sua volontà) trascendentale; egli rinuncia a ogni deduzione aprioristica  per attribuire condizioni universali all’etica del discorso, vorrebbe presentarsi come una teoria del dovere basandosi su:

  1. principio di universalizzazione
  2. principio del discorso

puntando ad elaborare una sorta di morale planetaria. Tuttavia il suo tentativo resta un’ elaborazione teorica debole, poiché nonostante i suoi intenti, l’etica del discorso non viene unita e saldata a una teoria empirica della società; postulando un parlante ideale e scevro da condizioni socio-economiche, rimane difficile l’elaborazione di una presunta morale planetaria. Viene meno quel principio di universalizzazione poiché le disparità socio-economiche lo rendono inattuabile.

 

Analizziamo ora le tesi di un altro noto esponente della scuola di Francoforte: Horkheimer.

Egli sostenne che non fosse più possibile parlare di una struttura economica autonoma rispetto alla politica; questo è un punto focale che se fatto proprio in modo acritico può portare a gravi errori di analisi (come è successo e succede in molte realtà di sinistra). Cerchiamo di capire perché: la struttura economica non è scissa da quella politica, tuttavia la determina! Basterà comprendere come si muove lo sviluppo del capitale e come si è mosso da un secolo a questa parte:

Il capitale monetario è divenuto sempre più opprimente  a causa della preponderanza di un piccolo gruppo di grandi aziende (l’alta finanza), questo porta a una concentrazione della produzione e (parafrasando Lenin) la concentrazione a un certo punto della sua evoluzione porta automaticamente alla soglia del monopolio. Ogni nuova impresa che voglia stare al pari con le gigantesche imprese esistenti dovrà aumentare la quantità dei profitti offerti; questa è la fase dell’imperialismo in cui i “cartelli” si mettono d’accordo sulle condizioni di vendita, si spartiscono i mercati e fissano i prezzi. Si monopolizza la mano d’opera e si mettono le mani sui mezzi di comunicazione.

Tutto questo per dire cosa? Che la politica sarà una giustificazione, una legittimazione del modello economico esistente. Perché insistere su questo? Perché soprattutto in tempi di crisi assistiamo a un rafforzamento della tendenza alla concentrazione e al monopolio (assistendo a una caduta dei prezzi e contrazione della domanda). Se non si comprende questo (specialmente oggi) si possono commettere errori circa le condizioni economiche e politiche mondiali; se si guarda allo scenario mondiale senza tenere ben presente la lotta per il monopolio dei mercati, se non si capisce che oggi c’è una potenza che è  “la testa del “serpente”  capitalista”(Usa- Israele), non si capirà nemmeno che è contro quest’ultimo che ci si dovrà schierare e sarà facile invece schierarsi contro quelle altre potenze che ci appariranno “politicamente scorrette”.

E’ ovvio che il capitale farà leva sempre di più  nell’erigersi a paladino della libertà e dei diritti umani puntando a una sua auto legittimazione.

Tornando a Horkheimer, egli, non scorgendo più l’agente sociale della rivoluzione  e ritenendo impossibile la previsione circa il crollo del capitalismo, torna alla sinistra hegeliana, tramite un lavoro di critica punta a far diventare reale ciò che è razionale. Tuttavia la teoria critica non fu espressione di una coscienza di classe; che molte posizioni irrigidite del marxismo positivista siano da rifiutare è un fatto, ma facendo un’ operazione di questo tipo si è a parer mio davanti a un’ operazione di natura reazionaria, per lo meno dal punto di vista filosofico e teorico. Citando Horkheimer: “L’idea di una società futura come comunità di uomini liberi qual è possibile con i mezzi tecnici di cui si dispone, ha un contenuto al quale si deve rimanere fedeli comunque esso si modifichi”. La società buona di Horkheimer è quella in cui l’uomo è libero di agire come soggetto, si rischia però di ricadere in quell’ottica individualista sopra accennata.

In sintesi, ciò che voglio dire è che i pensatori della scuola di Francoforte non sono (nonostante l’analisi) da demonizzare; quello che si cerca di dimostrare è come certe filosofie e correnti di pensiero possano portare alla distruzione o quanto meno all’indebolimento di un punto di vista rivoluzionario, specie se interpretate e praticate in malo modo da certi ambienti di pseudo “sinistra”..

Parliamo ora dell’ultimo autore che si intendeva trattare: Foucault.

Foucault fu un altro pensatore preponderante nel movimento sessantottino. Quello che sembra maggiormente interessante è la sua teoria sul potere. Egli ci dirà: “Ogni società accetta determinati discorsi che fa funzionare come veri”. Sapere e potere vengono presentati come indistinguibili poiché l’esercizio del potere genererà nuove forme di sapere. Il potere non viene inteso come quello che potrebbe emanare un sovrano ma come “potere impersonale” che opererebbe tramite meccanismi anonimi, un insieme di rapporti di forza diffusi localmente.

Questo discorso porta Foucault a operare una contrapposizione al marxismo: si potrà essere dominati in fabbrica ma dominatori in famiglia e rispetto a tali poteri decentrati potranno essere condotte solo lotte parziali. Tutto ciò per il modo di vedere di chi scrive, ha prodotto un grande disastro: smettere di lottare contro i gruppi sociali dominanti e incentivare lotte familistiche per una presunta emancipazione  personale. Dove porta questo? A vari separatismi, alla lotta contro gli uomini in quanto tali presunti oppressori all’interno delle famiglie (lotta di genere), alle lotte dei gay per essere accettati nelle famiglie e qualsiasi frammentazione di quella che dovrebbe essere una lotta di classe collettiva (chiaramente un omosessuale ha tutto il diritto e il dovere di vivere serenamente nel contesto familiare, non si nega questo ma il voler trasformare questo come prima istanza politica per rivendicazioni fini a se stesse e sciolte da ogni contesto di classe.)

Per concludere, tornando a Foucault, egli sostenne che i dispositivi di potere (attraverso selezioni e interdizioni) pongono in essere una società disciplinare che trova espressione nelle istituzioni repressive. Tuttavia per il filosofo il potere mantiene una funzione positiva al fine di creare nuovi ambiti di verità e nuovi saperi; ciò che egli compie è dunque riportare in auge una dimensione umanistica da lui stesso criticata.

Oggi vediamo quindi come gli aspetti che abbiamo citato dei vari filosofi, siano stati fatti propri  (sicuramente in modo indebito) da buona parte di quel mondo che si auto definisce “alternativo” e/o anti sistema.

Ovviamente non è stata compiuta in questo articolo un’analisi complessiva dei pensatori citati (che richiederebbe ben altro spazio…), ma solo una riflessione su alcuni aspetti che ci premeva approfondire. Non si intende certamente mettere una croce su persone che hanno dedicato la loro vita alla ricerca e all’innovazione filosofica, ma evidenziare come certe teorie che sembravano rivoluzionarie e si proponevano come liberatrici della società e dell’umanità intera abbiano contribuito, magari indirettamente,  a creare quella miseria teorica a cui oggi assistiamo.

Insistere su queste tematiche, per quanto ci riguarda, non vuole essere una sorta di pedanteria intellettuale ma un contributo al fine di un dibattito sui temi suddetti che non può più essere rimandato.

7 commenti per “Dove sbagliavano i francofortesi

  1. Fabrizio Marchi
    20 dicembre 2014 at 11:10

    Questo articolo di Costanza Lopez è sostanzialmente finalizzato ad evidenziare quelle che potrebbero essere (e che per lei sono) delle contraddizioni presenti all’interno dei percorsi filosofici degli autori in oggetto, appunto i cosiddetti “francofortesi” (Scuola di Francoforte), ai quali dobbiamo doverosamente aggiungere il nome di Adorno (di cui invece Costanza non si occupa in questa sede (ma la critica ad Horkeimer comprende di fatto anche quella ad Adorno).
    In estrema sintesi Costanza sostiene che i “francofortesi” abbiano messo in cantina (o in soffitta) il conflitto di classe (e con esso la critica marxista) per sostituirlo con una critica di tipo “culturalistico” (sto andando con l’accetta per ragioni di brevità) al sistema capitalistico. Questo rinnovato approccio critico sarebbe quello che – sempre secondo l’autrice dell’articolo (che fa parte della nostra redazione) – sarebbe filosoficamente responsabile della successiva deriva della “sinistra” occidentale” la quale avrebbe smarrito strada facendo il proprio carattere di classe (e su questo non c’è alcun dubbio) per assumere le vesti, molto più rassicuranti per il capitale nonostante l’apparente carattere trasgressivo delle forme e delle modalità attraverso cui parte di quella si è manifestata e continua a manifestarsi, di quella “sinistra” radicaleggiante, sessantottina e postsessantottina, molto liberal e molto chic, dove le tematiche dei diritti civili, del femminismo, dei gay, della “pace” (concetto di per se privo di ogni valore se separato dalla critica al sistema capitalistico di cui la guerra è una delle inevitabili e necessarie conseguenze) e dello spinello libero diventano appunto centrali, gettando alle ortiche, come si diceva, il conflitto di classe e con esso la critica (marxista) strutturale al domino capitalistico.
    Sono senz’altro d’accordo –come noto – sul giudizio relativo all’attuale “sinistra” occidentale, sia nella sua versione “liberal” che in quella cosiddetta “radical” e non aggiungo una parola nel merito.
    Tuttavia mi sembra ingeneroso attribuire la responsabilità di quella deriva ai filosofi della cosiddetta Scuola di Francoforte che hanno invece avuto il merito, a mio parere, di analizzare con lucidità le trasformazioni anche’esse strutturali avvenute all’interno della società capitalistica che ha saputo “rinnovarsi” e rigenerarsi, al contrario della sclerotizzata e burocratizzata società sovietica (sottoposta anch’essa alla critica dei “francofortesi”) che proprio o anche per la sua incapacità strutturale di rinnovarsi è finita con il crollare (sarebbe troppo lungo e complesso affrontare ora questo argomento, lo faremo in altro momento se e quando capiterà l’occasione).
    Personalmente interpreto l’approccio critico al sistema capitalistico dei “francofortesi” come un arricchimento e non come una sottrazione alla critica marxista o tanto meno un impoverimento. Del resto, sul fatto che il sistema capitalistico – come sosteneva Marcuse – abbia sia pur parzialmente modificato la propria struttura (per lo meno rispetto all’epoca in cui Marx lo sottoponeva a critica), per quanto mi riguarda, non c’è alcun dubbio. Basti pensare al concetto di alienazione che si è modificato profondamente rispetto all’epoca in cui brillantemente lo aveva individuato Marx, il quale non poteva oggettivamente prevedere i successivi processi di trasformazione del sistema capitalistico. Marx osservava gli operai inchiodati 14 ore al giorno alla catena di montaggio, estraniati dal loro lavoro, dal prodotto e dagli strumenti del loro lavoro e soprattutto da loro stessi (aspetti, fra le altre fondamentali opere, evidenziati in “Lavoro salariato e capitale” e nei famosi “Manoscritti economico-filosofici del 1844” e in particolare nel capitolo “il lavoro estraniato”) mentre contestualmente producevano plusvalore per il capitalista. Il concetto di alienazione era quindi direttamente collegato con quello di sfruttamento del lavoro (e di produzione di plusvalore) nella stessa misura in cui il valore d’uso (quantità di lavoro socialmente necessaria a produrre una merce) era in stretta e simbiontica relazione con quello di scambio. Oggi la situazione è in larga parte mutata proprio perché il sistema capitalistico è mutato profondamente, e se è senz’altro vero che lo sfruttamento del lavoro e la conseguente produzione di plusvalore restano aspetti centrali e strutturali della riproduzione capitalistica, è altrettanto vero che i meccanismi di costruzione del consenso e anche la (necessaria) produzione di alienazione, entrambi fondamentali ai fini della suddetta riproduzione e della perpetrazione del dominio capitalistico, passano e si impongono oggi anche attraverso altri canali. Penso in primis alla produzione e al controllo di un immaginario psichico e “culturale” (e di un’industria “cultruale”) più o meno artificiale e/o artificioso (che avviene con mezzi estremamente sofisticati) che ai tempi in cui Marx scriveva non era appunto possibile prevedere. La produzione, il dominio e il controllo di questo ambito (che io definisco da tempo come “psicosfera”) sono assolutamente fondamentali per la riproduzione del sistema capitalistico che oggi ha bisogno di controllare e di occupare la sfera privata, il foro interiore degli individui più di quanto abbia bisogno di controllare la loro sfera pubblica. Su questi aspetti ho scritto molto ed evito di tornarci per non appesantire il pezzo e i lettori.
    Ecco, con tutti i limiti e tutte le aporie possibili che possiamo riscontrarvi, che pure ci sono (del resto, chi non ne ha?…), mi pare di poter senz’altro affermare che il pensiero di Marcuse, Adorno e Horkeimer (al contrario di quello di Habermas, e qui condivido in toto il giudizio dato da Costanza e vado anche oltre, perché a mio avviso le posizioni di quest’ultimo tendono a rendere innocue le brillanti intuizioni degli altri) sia stato invece determinante e molto lucido nell’individuare i processi di cui sopra. Interpretato in questo senso, per quanto mi riguarda, il loro lavoro rappresenta senz’altro un arricchimento della pur attuale critica marxiana al sistema capitalistico, e non certo un impoverimento o tanto meno una sorta di abiura rispetto a quest’ultima.
    Poi nessuno potrà mai prevedere gli esiti o le concrete determinazioni storiche e politiche di questa o quella filosofia; e questo vale per tutte, ma veramente per tutte. E qui potremmo portare innumerevoli e clamorosi esempi di “eterogenesi dei fini” (nessuno è al riparo…), ma credo che non sia necessario. Personalmente vado anche oltre e credo che non sia neanche corretto parlare di eterogenesi dei fini bensì di impossibilità strutturale di prevedere i processi reali che possono prendere strade completamente diverse e spesso anche diametralmente opposte a quelle che si potevano prevedere. Qualcuno (e fra questi anche autorevoli pensatori) definiscono tutto ciò con il termine di “complessità”. Non so se sia corretto o adeguato definire in tal modo tutto ciò. Resta il fatto che la realtà, e le relazioni dialettiche che la costituiscono, si manifesta e prende le forme a volte più impreviste. E anche con questo dobbiamo fare i conti.
    Ecco, mi pare, proprio da questo punto di vista, che la critica (la “dialettica negativa”) in particolare di Adorno e Horkeimer abbia fatto centro e abbia colto alcuni aspetti fondamentali.

    • Costanza Lopez
      21 dicembre 2014 at 16:38

      Secondo me è necessario fare delle distinzioni. é evidente che la società odierna non è uguale a quella che analizzava Marx nell’800. Condivido il fatto che oggi il capitale si è fatto ancora più onnipervasivo, che l’alienazione non sta più solo nel lavoro e che il sistema punta a una penetrazione nella “psico sfera”. Tuttavia bisogna vedere come si arriva a certe conclusioni, quali sono le vie e i percorsi di ragionamento; lo studio dei mutamenti socio-economici sta alla base di qualsiasi pensatore con un briciolo di onestà intellettuale (e per questo accennavo una critica al marxismo positivista che ha considerato i processi storici come indipendenti da qualsiasi volontà, sterilizzando di fatto le teorie marxiane). Detto questo, un conto è avere dei meriti per aver capito qualcosa dei mutamenti socio storici, un conto è dirsi anticapitalisti e annullare l’antagonismo proletariato/ borghesia. Siamo d’accordo sul fatto che il proletariato subisce mutazioni nel tempo, ma ciò a cui dovrebbe puntare un buon pensatore filosofico e/o politico è la ricomposizione di classe non l’annullamento teorico di quella dicotomia fondamentale. Ci sono stati molti pensatori che hanno fatto i conti con Marx e la sua riattualizzazione in modo notevole, mi viene subito in mente Lukacs che riguardo alla questione di classe sostenne che la coscienza di classe fosse una forza, meta-individuale che cresce, storicisticamente, col crescere delle esperienze intellettuali e pratiche nel tempo e che tale crescita coincide coll’acquisizione di una coscienza sempre più estesa della realtà sociale e delle sue contraddizioni. Non significa che una forma di organizzazione non sia necessaria. Ad essa, spetta anzi ” l’alta funzione di essere portatore della coscienza di classe del proletariato, coscienza della sua missione storica “. L’accento di Lukàcs cade sulla classe, sulla spontaneità e l’immediatezza dell’azione rivoluzionaria. È il proletariato, maturato e risvegliato non dai “professionisti della rivoluzione” ma dalla sua propria forza autonoma (correlata all’evoluzione della storia), a restare il vero soggetto sociale della lotta anti-capitalistica e della trasformazione del mondo. Lukàcs parla di alienazione, sostiene che i rapporti fra gli uomini non regolati dagli uomini stessi, bensì si realizzano indipendentemente da essi, e spesso contro di essi: cioè si realizzano attraverso lo scambio di merci. La differenza con i francofortesi mi pare evidente. Sicuramente è vero che non è colpa esclusiva della scuola di Francoforte se i movimenti di sinistra sono diventati irrisori, dire questo sarebbe una bugia, ma molto spesso nella filosofia , bravi pensatori filosofici sono stati pessimi pensatori politici. Mi vengono i mente le parole di Gadamer che dopo aver studiato i quaderni neri heideggeriani disse che di fronte a certi risvolti storici, la filosofia non può che chiedere scusa.

      • Fabrizio Marchi
        22 dicembre 2014 at 11:19

        Sottoscrivo senz’altro questa risposta di Costanza, non solo perché ritengo che Lukacs, da lei stesso menzionato, sia stato uno dei più grandi pensatori marxisti post Marx, ma proprio perché condivido con lei la necessità di ricostruire un tessuto e una coscienza di classe che è andata smarrendosi nel tempo per tante ragioni. Del resto l’offensiva del capitale negli ultimi quarant’anni è stata potentissima e ha avuto come effetti concreti non solo lo sconvolgimento e la frammentazione di quella che una volta avremmo definito come la “classe” ma anche l’interiorizzazione, da parte di quest’ultima, cioè dei gruppi sociali subordinati, dell’ideologia stessa del capitale che nel frattempo, come abbiamo spiegato in tante occasioni, ha avuto la capacità di perfezionarsi, di mutare forme e in parte contenuti; in poche parole, di entrare in una relazione dialettica con quella realtà che esso stesso stava trasformando. E proprio la capacità del capitale di trasformarsi e di adeguare la propria ideologia/falsa coscienza alla realtà in mutamento, è stata ed è direttamente proporzionale alla incapacità della Sinistra e dei gruppi sociali subordinati di fare altrettanto. Questi ultimi, come dicevo, hanno smarrito completamente, sia a livello collettivo che individuale, la consapevolezza di loro stessi come soggetti sociali collocati in una determinata condizione sociale e umana e in un determinato contesto storico, finendo per interiorizzare l’ideologia dominante (che nel frattempo, ribadisco, è stata protagonista di una profonda “rivoluzione”, di una sorta di riorientamento gestaltico) e a sentirsi come “individui” “liberi” (l virgolettato è d’obbligo) in mezzo ad altri “individui” “liberi”, all’interno, diciamo così, della “società-mondo” neocapitalista.
        Ma questo è potuto accadere proprio e anche perché il capitalismo ha aperto altri e nuovi fronti, ha occupato e invaso spazi e territori altri rispetto a quelli, sociali ed economici, che tradizionalmente occupava (creando necessariamente altre e nuove contraddizioni, che però oggi non vengono ancora comprese dai più, salvo sparuti gruppi) che vanno a sovrapporsi e ad intersecarsi con i primi. Mi riferisco a quella “psicosfera” (cioè il controllo e il dominio della sfera psichica degli “individui”) a cui ho fatto cenno nel mio primo commento (concetto ripreso anche da Costanza) e a tutta quella “partita” che riguarda la relazione fra i sessi, la distruzione delle identità sessuali (leggi quella maschile), l’eugenetica, l’antropologia stessa, il “progetto” ormai in corso di modificare la struttura stessa dell’umano attraverso un processo altamente sofisticato (e non ancora compreso o avvertito nella sua attualità e nella sua estrema pericolosità) di ingegneria sociale, psicologica e genetica allo stesso tempo.
        Ho scritto molto a tal proposito ma in questa sede mi limito a segnalare questo articolo pubblicato sull’Interferenza proprio alcuni mesi fa: https://www.linterferenza.info/editoriali/il-nuovo-orizzonte-del-capitalismo/
        Ecco, tornando all’oggetto del nostro dibattito, credo che i filosofi della Scuola di Francoforte, pur con tutti i loro limiti che io stesso riconosco, abbiano però avuto il merito di capire che la società capitalistica si stava “evolvendo” in una determinata direzione e stava aprendo nuovi orizzonti e nuovi terreni sui quali esercitare il proprio dominio. Naturalmente a questo punto si apre una questione di metodo. Il mio è quello di cercare di prendere ciò che di utile e positivo c’è in una determinata corrente di pensiero più che di soffermarmi sulle aporie (che indubbiamente ci sono, nel caso dei “francofortesi”) e sugli aspetti che considero negativi. E io credo, come ho già scritto, che il territorio che essi (in particolare Adorno, Horkeimer e Marcuse, come ho già detto lo stesso discorso non vale per Habermas) hanno aperto e le tematiche che hanno posto costituiscano un arricchimento della critica marxiana e non un impoverimento. Se c’è stato, fra gli altri, un limite dei “francofortesi”, è di non aver saputo capire e prevedere fino a che punto e fino a quali frontiere il nuovo dominio capitalistico si sarebbe esteso (e non è un caso che, paradossalmente, e qui ha ragione Costanza, un pezzo della neo ideologia capitalistica dominante abbia ripreso, sia pur reinterpretandoli e piegandoli pro domo propria, alcuni aspetti del loro pensiero)
        Noi abbiamo la presunzione (grande, me ne rendo conto…) di dire che lo abbiamo capito. Ma lo abbiamo capito, è fondamentale sottolinearlo e non mi stancherò mai di dirlo, proprio perché, piccoli uomini, siamo seduti sulle spalle di quei giganti che ci hanno consentito di guardare un po’ più in là in quell’orizzonte che essi non potevano ancora scorgere.

  2. Bruno
    23 dicembre 2014 at 8:38

    Mi inchino davanti allo spessore del dibattito, e dico una cosa molto semplice: quando si valuta una teoria, secondo me non bisogna mai cadere nell’idealismo e nell’astrazione, ossia giudicarla in sè e per sè, ma il giudizio va sempre affiancato alla valutazione dei fini e degli effetti pratici: ovvero guardando alla militanza dei pensatori nella lotta di classe, ai risultati effettivi dell’analisi, a quanto queste tesi hanno contribuito di fatto all’avanzamento delle conquiste del proletariato.
    Ecco, io credo -per quel poco che so in materia, molto meno di voi- che, almeno per quel che riguarda il terzo periodo dei francofortesi, con quella stucchevole (quanto capace di annullare il livello oggettivo dell’analisi marxista), enfatizzazione del cosiddetto umanesimo marxista -che alla fin fine forse altro non è che dilatare in una categoria molto generica e poco cogente le questioni di classe con le conseguenze pratiche problematiche che questa dilatazione produce- si presentino problemi che Costanza evidenzia nel post.
    Questo, ripeto, senza presunzione di specifica competenza, ma mettendoci un po’ di buon senso e pragmatismo, sperando di contribuire alla bellissima discussione.

    • Fabrizio Marchi
      23 dicembre 2014 at 15:35

      Caro Bruno, intanto benvenuto e grazie per aver apprezzato la discussione in oggetto.
      Nel merito non potrei che ribadirti quanto ho già detto. Capisco le tue osservazioni così come quelle di Costanza, tuttavia resto convinto che le cause e le responsabilità storiche e politiche (e anche filosofiche) del disastro (non può essere definito altrimenti) della sinistra italiana e occidentale siano ben altre e siano solo in misura ridotta addebitabili ai filosofi della Scuola di Francoforte.
      La discussione a questo punto si aprirebbe a 360° e non sarebbe sufficiente un’enciclopedia per affrontare l’argomento. Nulla osta però che se ne possa tranquillamente parlare. Siamo qui per questo, quindi fiato alle trombe…
      P.S. saremo felici di un tuo contributo sotto forma di articoli, lettere ecc.
      Un caro saluto!

      • Bruno
        23 dicembre 2014 at 17:22

        Grazie, Fabrizio Marchi!
        Beninteso (scrivo due righe solo per spiegarmi e non per addentrarmi sulle cause principali), nemmeno io addebito ai francofortesi la ‘colpa’ della deriva della sinistra: sarei in contraddizione con quanto scritto sopra, e dunque con me stesso, se pensassi che l’opera di alcuni accademici possa avere una ricaduta del genere, quanto, al contrario, esprimere e intellettualizzare una diffusa sensazione di disagio verso gli orientamenti e le politiche dei Partiti comunisti o simil tali di allora.
        Tuttavia, ecco, penso che il pensiero dei francofortesi non ha saputo nè potuto farsi prassi, mentre è riuscito molto bene a farsi riadattare e distorcere dal Capitale stesso come dici bene tu, proprio per la mancanza di una partecipazione militante e di classe da cui far emergere il proprio pensiero, proprio per la mancanza insomma di quella funzione organica alla classe e ai suoi bisogni che l’intellettuale comunista non può non avere per essere incidente.

  3. Fabrizio Marchi
    24 dicembre 2014 at 13:56

    Cari amici/che, compagni/e, sostenitori e sostenitrici, lettori e lettrici dell’Interferenza, voglio augurare a tutti/e voi un convinto e sereno Buon Natale.
    Il mio augurio non è casuale. In un mondo dove tutto è stato mercificato, anche le ricorrenze religiose, l’invito, rivolto a tutti, credenti e non credenti, a trascorrere un Natale all’insegna di una vera spiritualità, concetto che va ben oltre e al di là di qualsiasi appartenenza confessionale, lontano dall’orgia consumistica e dal becero e volgare materialismo delle merci.
    Buon Natale, dunque, ma non proprio a tutti/e. Non a chi sfrutta, opprime o discrimina altri esseri umani, non a chi scatena guerre, non a chi occupa una terra non sua.
    Buon Natale a tutte le persone del mondo che vivono secondo coscienza e non secondo le leggi del profitto e della ragione calcolante e strumentale.
    Ce ne sono ancora molte, tutto sommato…

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