Il mondo nuovissimo

FINE DEL XLII, INIZIO DEL XLIII ANNO DELL’ERA DELLA RINASCITA

 

Riparte il solito tran-tran, fatto di levatacce e interminabili giornate spese davanti a uno schermo da buttare – le sere sono tuttavia dedicate a uno studio febbrile che il poco tempo disponibile e l’oscurità dei testi compulsati rendono a tratti “disperatissimo”. La lingua di quel Manifesto è datata, a tratti inintelligibile: quante parole abbiamo perso per strada!, si rammarica il discente, impressionato dalla potenza delle immagini evocate da un pensatore vissuto secoli prima. Ogni pagina vibra di indignazione e speranza, e lui si sforza di assimilare concetti che, all’opposto del lessico, gli appaiono chiari e convincenti. È ammirato dalla sovrumana acutezza e dall’ardore appassionato di quel Karl, della cui esistenza era stato fino ad allora completamente ignaro. Le storie che ci raccontano oggi son tutte false…  Marco si spulcia anche numerosi opuscoli risalenti agli anni che hanno preceduto il gran conflitto: taluni sono fumosi e quasi deliranti (vi si nota l’ingenua brama di imitare il precursore e maestro, ma i risultati sono meschini…), altri invece sono zeppi di utili informazioni sul vecchio mondo, su cosa funzionasse e cosa no, sull’origine e il progressivo accentuarsi di una crisi (o di una sequenza di crisi) che sconvolse l’intero pianeta. Negli articoli ci sono sporadici riferimenti a un certo Luigi di qualcosa, descritto all’inizio come un dilettante inesperto ma pieno di buone intenzioni, più avanti come un traditore e un “voltagabbana”. Di costui c’è pure un ritratto fotografico in bianco e nero: considerata la somiglianza potrebbe trattarsi del suo uomo, anche se l’immagine – non nitidissima e vecchia di decenni – raffigura un giovanotto fra i venticinque e i trenta.

Marco partecipa al crescente sgomento, infine alla disperazione espressa da sconosciuti cronisti di fronte all’inesorabile succedersi di eventi che essi registravano, ma sui quali non potevano minimamente influire.

Se tutti fossimo al corrente di queste cose i manager tremerebbero… e tremeranno! – vagheggia. Ogni giorno il giovane si impone di leggere perlomeno fino a mezzanotte: non sempre ci riesce, ma quando smette ha invariabilmente gli occhi stanchi, arrossati e lucidi di commozione.

Al lavoro e in pubblico si chiude ermeticamente in se stesso: non devono trasparire l’eccitazione, l’intimo tormento, il viluppo di emozioni contrastanti che gli imprigiona l’animo.

E Francesca? Si vedono di sfuggita dopo il tramonto per scambiarsi un saluto e un sorriso. Come fa a essere sicuro che non sia coinvolta anche lei nella macchinazione ordita ai suoi danni? L’istinto gli dice di fidarsi: quella ragazza è… limpida, e quando pensa a lei si sente invadere da un senso di dolcezza mai sperimentato in vita. A Marco non hanno insegnato la parola “amore”, ma se la conoscesse il suo sentimento per lei assumerebbe finalmente un nome…

 

Il nuovo anno ha soppiantato il vecchio insediandosi senza clamori in città: le celebrazioni si sono svolte in sordina e Marco non ci ha fatto caso, immerso com’è in letture e riflessioni. L’ultima notte (nota un tempo come San Silvestro) è nevicato abbondantemente e gli strepiti della bora tolgono il sonno, esasperando i residenti infreddoliti ma non il nostro giovane, che avvolto da quell’aria plumbea e brumosa si percepisce (e soprattutto spera di essere percepito) come un’ombra priva di identità e consistenza.

La sera del quinto giorno (l’ex venerdì, per intenderci) si incammina direttamente verso la sua dimora senza passare per il grande magazzino: lo intriga il volumetto di tale Lilin – il nome è questo, o uno simile – che si intitola Stato e Rivoluzione e di cui ha leggiucchiato il capitolo introduttivo. Non è troppo lungo, ed è scritto in un linguaggio piano: conta di finirlo in poche ore.

Ha fatto però i proverbiali conti senza l’oste: un uomo di bassa statura è fermo dinanzi al portone del suo palazzo. L’ombrello questa volta è nero, ma il sorriso – smagliante e insieme mellifluo – è inconfondibile: Luigi è riapparso. Reprimendo il nervosismo l’impiegato gli tende con prontezza la mano: su, getta la maschera, serpe! … svelami una buona volta che cos’hai in mente…

«Marco, carissimo amico mio, come stiamo? – attacca cerimonioso il manager – in questi pochi giorni chissà quanti passi avanti avrai compiuto sulla strada della consapevolezza! Eh, sei uno sveglio tu!»

«Abbastanza bene, grazie… Solo qualche passettino, niente di che – si schermisce il giovane, insensibile alle blandizie – anche se una bella sfacchinata…» si morde la lingua e tace: è prudente parlargli dell’escursione sull’altopiano? Aveva inizialmente supposto che a procurargli la mappa fosse stato proprio Luigi, ma in seguito è stato assalito da più di un dubbio: l’uomo del camper ha detto peste e corna di costui, e il contenuto di quei ritagli di giornale avvalora, almeno in parte, il giudizio negativo… O “Luigi” è un imbecille, un pasticcione che fa le cose a casaccio… oppure non è stato lui a incoraggiarlo a intraprendere il viaggio! Meglio glissare, che sia l’altro piuttosto ad aprirsi… si limita perciò a convenire che «Sulle… storture del sistema lei non aveva torto, ne individuo una nuova ogni giorno… ma diceva anche che si può porvi rimedio, o mi sbaglio?»

Il manager lo prende sottobraccio, l’atteggiamento è da cospiratore. «Sì che si può – sibila – ma occorrono audacia e circospezione. Ti ripeto che una parte di noi vorrebbe cambiare le cose, io sono soltanto l’emissario… ma per farlo abbiamo necessità del tuo aiuto. Ovviamente saresti ben ricompensato e… agli occhi dei tuoi diverresti un eroe».

«Interessante! – fa Marco, e non scherza – ma in concreto cosa dovrei fare?»

Luigi gli rivela che «… fra meno di una settimana passerà di qui Anthony McBreeden, proveniente da New Ikea. Il nome non ti dirà nulla, ma ti basti sapere che è uno degli uomini più influenti della Federazione: CEO della nostra corporation nonché vicepresidente del Parlamento esecutivo continentale… Una potenza, insomma, e allo stesso tempo un individuo avido, gretto e crudele – alza teatralmente gli occhi al cielo – È a causa di personaggi del suo stampo che tu… che voi siete trattati senza riguardi, alla stregua di schiavi privati di ogni diritto!» Lancia occhiate furtive intorno a sé, poi interroga Marco a bruciapelo: «Cosa faresti tu, se potessi, a un essere del genere, a uno che vi costringe a sgobbare senza darvi nulla in cambio?»

Preso in contropiede il giovane resta attonito e boccheggiante… ma infine rinvia d’istinto la domanda al mittente. «Io… non ho idea di cosa dovrei e potrei fargli… ma mi importa sapere cosa lei gli farebbe, se fosse al mio posto».

L’omino ben vestito non si scompone: «Se fossi in te? Mi ribellerei, susciterei una sacrosanta rivolta!… e noi ti offriamo una ghiotta opportunità di agire: come ti ho già detto il supermanager si fermerà qui due mezze giornate. Pernotterà nel miglior albergo della città bassa, ovviamente… quella invisibile, ma la mattina, prima di ripartire, rivolgerà un discorso a cittadini e maestranze nella grande sala degli eventi, quella al piano terra dell’edificio in cui lavori… in occasione della giornata dell’orgoglio LGBTQWYZ, ricorrenza di somma importanza – gli ammicca furbescamente – a te, in quanto impiegato modello, vedremo di riservare un posto in prima fila».

E allora? si chiede Marco, spaesato: «E io dovrei per caso intervenire, contestarlo? Non sono abituato a parlare… in pubblico» dà sfogo alle sue perplessità.

«Anche, anche – concede Luigi – ma quello semmai in un secondo momento, per aizzare la folla. Meglio valersi di metodi collaudati e più efficaci: dopo che avrò introdotto l’illustre ospite io guarderò nella tua direzione… tu allora balzerai in piedi e, nel silenzio generale, esploderai un colpo!»

Marco inizia a sudare freddo: «Dovrei dunque uccidere un uomo che neppure conosco? E con che cosa? Io non possiedo armi… e non ho mai sparato in vita mia».

«Non esageriamo, non serve ucciderlo, no – minimizza il manager – Nel tuo stipetto troverai uno storditore. È semplicissimo da usare, basta prendere la mira… sarai vicinissimo al bersaglio, rammenta… e premere il grilletto. Il capoccia cadrà al suolo come una pera matura. Dopo, se ci tieni, arringherai i tuoi compagni, ma saremo noi congiurati a prendere in mano la situazione… non aspettiamo altro… e annunceremo il ripristino di libertà, democrazia e uguaglianza, cioè il ritorno al…»

«Progetto originario – completa la frase il giovane, sempre più incredulo e a disagio – Nel frattempo i robot guardiani mi avranno già neutralizzato, sempre ammesso che io sfugga ai controlli d’ingresso, cosa impossibile…»

«Uomo di poca fede! – lo canzona Luigi, su di giri – Tutto andrà come deve, invece: la prossima settimana è in programma la manutenzione periodica di tutti gli automi in servizio. Saranno disattivati, mi segui? D’altro canto cosa potrebbe capitare mai di brutto in una mattinata di festa? – scoppia in una sonora risata – Inoltre quasi tutti gli ispettori siederanno in mezzo al pubblico, i controlli saranno allentati se non assenti: si entrerà liberamente in sala. Non incontrerai nessunissima difficoltà… e il tuo gesto sarà eternato dai videogiornali di tutto il mondo, diverrai celebre come Bruto e Crasso… e ti spetterà un posto di rilievo fra i decisori, pensaci!»

Con voce suadente il manager aggiunge ulteriori e mirabolanti promesse, ma Marco non lo sta più a sentire: il ruolo assegnatogli è quello della vittima sacrificale, ormai ne è convinto. «Vi sono grato per la vostra fiducia… ma perché avete pensato a me per questo… sfidante compito?»

«Perché non potevamo affidarci a un inetto, a uno stupido – spiega paziente l’uomo con l’ombrello – Non avrebbe inteso il senso dell’iniziativa, non sarebbe stato all’altezza di…»  Prosegue, ma il giovane impiegato ha capito l’antifona: quale che sia il suo o il loro obiettivo… gli serve un colpevole che non sembri palese strumento di decisioni altrui… qualcuno che, avendo un q.i. di 142, possa essere considerato la “mente” oltre che l’esecutore del piano… in tal modo nessuno sentirà il bisogno di allargare l’indagine ad altre persone.

Mi hai intrappolato, bastardo – realizza il giovane, fissando duramente l’interlocutore – ma non è ancora detta l’ultima parola… per ora devo stare al tuo gioco, non ho scelta. «Accetto, che altro potrei fare?», dichiara in tono aspro; poi, come a ribadire il suo consenso, si rifugia in una domanda in apparenza ingenua: «Ma non ha timore di essere stato seguito o che qualcuno abbia orecchiato il suo… il nostro discorso?»

Smesse le vesti di scena Luigi non frena più la sua tracotanza: «Sappi, ragazzo, che stabilisco io e io solo quando e da chi essere visto! E se qualcuno dei tuoi vicini mi… denunciasse – contrae le labbra in una smorfia di disprezzo – pensi davvero che la sua parola varrebbe qualcosa contro la mia? Lo zittirei in un batter d’occhio, credimi». Una sottile minaccia? Marco tirerebbe volentieri il collo a quell’omiciattolo, ma accetta senza batter ciglio i due buoni che gli vengono porti. Grazie della mancia, stronzo – pensa, esibendo un ipocrita sorriso di circostanza.

 

Carico di pene, libri e pensieri Marco arranca sul sentiero ricoperto di neve farinosa. Le tonalità bigie, quasi ferrigne del cielo incupiscono l’umore, che già non è dei migliori: come uno studente nell’imminenza dell’esame il nostro giovane ripassa mentalmente le nozioni (forse) apprese, ma di continuo gli si riaffacciano alla memoria le sinistre menzogne di Luigi che, combinandosi assieme, compongono un epitaffio – il suo.

Quale sarà mai il piano concepito dall’elegantone? Che ambisca a prendere il posto dell’amministratore delegato? Possibile, ma improbabile: almeno a detta del signor Matteo lui sta molto più in basso nella scala gerarchica, non è plausibile che aspiri a tanto… e poi Luigi gli è stato descritto come un opportunista… un arrampicatore sì, ma di quelli cauti. Poniamo però che progetti il… grande colpo: se così fosse gli converrebbe che quel Mac qualcosa venisse fatto fuori, altro che storditore… chi può d’altronde assicurare a Marco che l’arma che gli verrà consegnata non sia letale? Lui fa l’attentato, Mac crepa e Luigi diventa il capo: inevitabilmente complici e testimoni del complotto vengono tolti di mezzo. Non farebbe una grinza… ma quante chance avrebbe un vecchio arnese ormai fuori dai giochi di succedere a un personaggio tanto altolocato? No, non gli torna: l’ometto è un ambizioso, non un megalomane in preda alla follia. Un finto attentato allora, nel senso che lo storditore sarà scarico: non appena lui, Marco, scatterà in piedi al segnale convenuto l’astuto politicante si getterà sul CEO, facendogli scudo col proprio corpo senza rischiare nulla… l’aspirante terrorista sarà subito eliminato dalla security, mentre il salvatore si meriterà la riconoscenza del pezzo grosso e forse… anzi, quasi sicuramente riavrà un ruolo da protagonista. Che vada in questo o nell’altro modo, però, poco cambia per Marco: è spacciato comunque. E se invece quel Luigi fosse sincero? Sì, e adesso vedrò un asino che vola…

L’asino alato non compare, e neppure la volpe rossa: il giovane spezza in due un panino che ha portato con sé e ne lascia cadere metà al suolo, speranzoso… può darsi che la bestiola, fiutato il cibo, accorra. In quella bianca solitudine anela a un po’ di compagnia, ma l’innocente desiderio non verrà esaudito…

Nessun incanto, nessun alone di poesia: il bosco, che appena una settimana prima ispirava gaiezza, si presenta adesso impervio, ostile… senescente. Rami abbattuti dal vento ostacolano il cammino e gli alberi attorno appaiono ritorti e scheletrici, con tronchi nudi segnati dal fuoco e dalle intemperie.

Saranno circa le undici quando Marco raggiunge stracco e infreddolito la meta: l’espressione contratta del volto denuncia lo stato di prostrazione e di malessere interiore. «Cos’è quella faccia, ragazzo? – Su che la vita è bella – lo saluta Pino, che è l’ha avvistato per primo – Ho preparato il vin brulè: bevine un bicchiere, così ti riscaldi! La grigliata è in lavoro: è presto per mangiare…»

«Sarà!» ribatte il giovane sgarbatamente, ma accetta volentieri la tazza ricolma di vino caldo e speziato per poi afflosciarsi senza forze sulla panca. Sbatte le palpebre e si guarda intorno: ci sono tutti, compreso stavolta il signor Matteo, che siede sdegnoso in disparte con un ottavo di rosso in mano.

Marco non ha nessuna voglia di impelagarsi in una tediosa discussione né tantomeno di essere interrogato, anche se in fondo è andato fin là per questo… anzi no: per cercare una scappatoia (se c’è) che gli salvi la pelle. Tira fuori libri e riviste dal sacco da viaggio e li dispone sul tavolo: «Ho letto – annuncia – Molte parole non so che cosa significano, certe frasi non le ho proprio capite… ma penso di aver afferrato il senso».

Dolfo – cui gli altri (escluso Matteo) riconoscono a quanto pare una sorta di primato intellettuale o morale – si schiarisce la voce e affronta senza preamboli l’argomento che gli sta a cuore: «Ben arrivato, giovanotto… hai imparato che in tutte le società fin qui esistite c’è una classe che, detenendo i mezzi di produzione, sfrutta quelle che ne sono prive: in pratica le deruba, ma è un furto legale, poiché sono gli sfruttatori a scrivere le regole e a disporre dell’apparato poliziesco. Anche voi oggi siete espropriati del frutto del vostro lavoro malpagato, che finisce nelle tasche… o se preferisci nelle fruttiere (fa una pausa, per dar modo ai presenti di apprezzare la battuta di spirito) del ceto dominante…» L’oratore prosegue per una mezzora buona inanellando citazioni e nomi (quello di Max o Marx viene fatto più volte) finché Marco, preso coraggio, interviene e rispettosamente lo contraddice: «Domando scusa, ma se lo sfruttamento serve a produrre plu… plus… insomma, quello di cui parla Karl, allora noi siamo sottomessi, ma non sfruttati… perché il nostro lavoro non vale, non produce niente. Quelli che chiamate “operai” non li trovate da nessuna parte, non ci sono: sono gli automi a produrre i… beni, e le macchine… dice sempre Karl… non possono dare plus… plusvalore, ecco. I motivi per cui ci fanno lavorare devono essere altri, no?»

Dolfo sembra essersi un po’ irritato per l’interruzione, così è Carlo ad imbastire una risposta al quesito: «Magari non lo percepisci perché è… occulto, ma lo sfruttamento è una costante, c’è sempre! – sentenzia – Certo, farvi lavorare tutto il santo giorno ha anche un altro scopo: quello di tenervi occupati, di impedirvi di pensare e di costruire tutti assieme un fronte contro i padroni. È così, sì: è proprio così!», conclude – e incrocia lo sguardo del patriarca, che benignamente annuisce.

Il giovane non è granché persuaso: «Che produciamo o meno la costrizione lavorativa può essere un valido strumento di controllo: concordo. C’è però un intoppo: i manager potrebbero benissimo fare a meno di noi… impiegati, perché i robot soddisfano da soli tutti i loro bisogni! Sono loro che coltivano, costruiscono, rendono servizi, curano perfino… noi battiamo sui tasti e basta, siamo inutili! Ci tengono impegnati, come sostiene Carlo, ma se… semplicemente non ci fossimo (avvertenza per chi legge: riportando le frasi di Marco, che adopera i verbi all’indicativo non padroneggiando gli altri modi verbali, il narratore si è permesso di inserire qua e là qualche congiuntivo, laddove sia indispensabile) potrebbero risparmiarsi anche questa minima fatica, mi sto spiegando?»

Il signor Matteo sembra interessato all’esposizione, così Marco, sentendosi incoraggiato, va avanti: «Per me non gli siamo utili come lavoratori… però gli siamo comunque utili, anzi necessari. Lui – indica il programmatore – mi ha detto la volta scorsa che i manager non hanno inventato niente, imitano il vecchio modello e basta (Matteo approva con un cenno del capo). Una volta tutto si reggeva sui consumatori, no? Tutti ne parlavano, li esaltavano… noi consumiamo schifezze, ma consumiamo, mentre i robot consumano nient’altro che elettricità. Dico che non saprebbero come rimpiazzarci: noi siamo i loro consumatori, e i manager non possono fare a meno di noi. Ma non è tutto…»

«Provo a riassumere in due parole: coniano slogan in continuazione, ma difettano di visione, idee forza e programmi… perciò scimmiottano quelli venuti prima. Marco, il tuo discorso è confuso perché sei a corto di parole, ti manca la terminologia adatta – osserva indulgente il signor Matteo – però non è colpa tua se ti esprimi come un bimbo della primaria… in più dimostri acume e stai dicendo cose sensate: continua!» e fulmina con un’occhiataccia il vecchio Dolfo, che è ansioso di dire la sua. «Parlerai dopo, vecchio chiacchierone – lo sbeffeggia – Per intanto vedi di dare una mano a grigliare quelle costine, cominciamo ad avere appetito…» Si mette improvvisamente a ridacchiare: «La verità, amici cari, è che voi siete vecchi, ma la cosiddetta società della rinascita è già decrepita…»

Anziché rincretinirlo le tre tazze di brulè vuotate in rapida successione gli hanno sollevato un po’ il morale, donando alle sue argomentazioni un’insospettata lucidità: ora però Marco, munitosi di stecchino, si serve senza complimenti dal tagliere di affettati che Tony ha appena posato sul tavolo.

Due fette di pancetta (tagliate spesse) e del caprino spalmato su un pezzo di pane nero riconciliano con la vita: il giovane, catturata ormai l’attenzione generale, riprende sputacchiando il discorso. «… però non ci allevano soltanto perché consumiamo cavallette e altra robaccia… a spese altrui. Noi siamo anzitutto il loro pubblico, la… (claque, suggerisce Matteo masticando una tartina al prosciutto), in breve quelli che gli danno importanza, che li ascoltano e si lasciano… imbonire (questo termine, mai sentito prima, l’ha appreso da un articolo di giornale) dai loro racconti. Hanno bisogno che qualcuno… (presti fede, gli viene nuovamente in soccorso l’ex manager) sì, esatto… assista alla rappresentazione. E poi, su questo Dolfo ha ragione… per restare uniti, addirittura per sopravvivere sono obbligati a sfruttarci! Non potendo sottrarci il plus… plusvalore ci sottraggono l’esistenza intera, se ne nutrono come fanno i morlocchi inventati da quel mister Wells: è questo il loro guadagno…»

Il barbuto allarga sconsolato le braccia (che eresie mi tocca udire!, si dispera), il signor Matteo invece non si perde una sillaba e fa ampi cenni di assenso con la testa: «Stai asserendo che per esistere come classe i manager necessitano di una classe antagonista, da opprimere e asservire… lo sfruttamento consiste nel disporre di voi a piacimento, senza alcun limite… sì, mi convince, bel ragionamento, bravo!»

«Per riconoscersi devono guardare noi, che siamo più numerosi e stiamo tanto più in basso – insiste Marco, infervorato – perché anche fra loro ci sono grosse differenze, e senza la nostra presenza finirebbero per scannarsi a vicenda, la loro società… crollerebbe. Che gusto c’è a essere ricchi…»

«In un mondo dove non ci sono poveri? – completa la frase il programmatore – Da solo forse non ci sarei arrivato… ma penso che le cose stiano proprio così».

In questo vasto quadro d’insieme residua spazio per le ambizioni dei singoli: non è in atto alcun esperimento sociale – opina Marco – anche se occasionali (e velleitari) gesti di rivolta, compiuti magari su istigazione di chi ritiene di trarne vantaggio, possono rafforzare la coesione del gruppo dominante.

Il pranzo è finalmente pronto e i commensali si gettano affamati su cosciotti, costolette e braciole. Dolfo mangia a quattro palmenti, mentre il signor Matteo, che detesta sporcarsi le mani, estrae da una tasca coltellino e forchetta. Marco si gusta la sua costina ben cotta, ma la mente è altrove: finora si è soltanto filosofato… sedprimum vivere! Gli urge trovare una via d’uscita da una situazione che sarebbe eufemistico definire scottante, e ogni minuto che passa accresce la sua ansia.

Non appena la carne sparisce dai piatti il giovane principia a narrare i recenti sviluppi della propria vicenda: lo fa in fretta, convulsamente, come per liberarsi di un peso che gli schiaccia l’anima.

«Ti sei… ti hanno cacciato proprio in un brutto pasticcio» si rattrista Pino, e poi domanda ai compagni: «Cosa possiamo fare noi per aiutarlo?»

«Anzitutto – propone Carlo – potremmo prestargli una pistola vera, che è molto meglio di una scacciacani! Se ricordate nel cassone ce n’è una funzionante, Tony l’ha provata una volta… non muovetevi, vado a prenderla io». Dopo un po’ torna reggendo nervosamente un revolver fuori produzione da decenni: «Tienila tu, Tony: io odio le armi… magari al nostro amico potrebbero interessare anche alcune registrazioni audio e video: ne abbiamo a bizzeffe, accidenti!»

Marco confessa di non aver mai maneggiato un’arma da fuoco, ma Tony lo tranquillizza: «Sparare è semplicissimo, credimi… adesso ti mostro come si fa, stai bene attento – inserisce il caricatore, poi gli porge la pistola – ora si tratta solo di prendere la mira. Non sei mancino, quindi chiudi l’occhio sinistro, sennò ti confondi… con l’altro inquadra il bersaglio, quell’albero laggiù… ecco: questa tacca è il mirino, braccio ben teso, la mano deve essere salda, non tremare. Pronto? Mi sa di sì: forza, premi il grilletto!»

La detonazione atterrisce il giovane, che molla d’istinto la presa, ma il vecchio cacciatore non fa una piega: «Il tronco distava più di dieci metri, tu l’hai mancato di una cinquantina di centimetri, a occhio… complimenti, davvero niente male per un novizio! Ti rimangono tre colpi: più che sufficienti per sbrigare il lavoro, direi».

«Con questa sparigli le carte!» esulta Pino, ma Marco non dimostra altrettanto entusiasmo: «Al più scombino i piani di Luigi e metto anche lui nei guai, forse… ma non risolvo niente, perché l’azione solitaria non basta: io muoio lo stesso, magari in cattiva compagnia, e tutto va avanti come prima. Sono disposto a fare il mio, ma mi ci vuole il vostro sostegno: dovete radunare gente e scendere in città, circondare il palazzo, aprire gli occhi ai lavoranti… e il signor Matteo, che sa come fare, dovrà mettere in rete quei video di cui mi avete appena parlato perché al momento giusto li vedano tutti! Siamo intesi?»

La proposta coglie tutti di sorpresa e causa sconcerto: «Radunare gente? Ma tu vaneggi… e poi non mi piace questo tono imperioso, come se fossimo ai tuoi ordini! – replica Dolfo, piccato – Non te l’hanno detto che da qui fino a dove riemerge il fiume sotterraneo il paese è completamente disabitato? Ci siamo solo noi e la cacciagione, a parte rettili e insetti… quattro uomini in tutto, più una larva e… il sapientone!»

«Quanto a me – interloquisce freddamente l’ex manager – mi sono sempre attenuto a una regola: mai immischiarsi nelle faccende altrui. In più considero il tuo progetto irrealizzabile e destinato purtroppo all’insuccesso. Mi chiedi di espormi in prima persona e di rischiare tutto, vita inclusa… perché qui non si tratta di trafugare informazioni e dati personali, ma di sfidare apertamente un regime che non conosce misericordia… e che mi permette di vivacchiare solamente perché non mi reputa un pericolo. Sarei lieto di poterti aiutare, sei un ragazzo in gamba… ma pretendi troppo, mi spiace». Si alza e se ne va.

Dinanzi a quel duplice, reciso rifiuto Marco rimane esterrefatto: si attendeva un’iniziale resistenza, ma contava di riuscire a persuaderli, e invece… Ode in sottofondo la voce del centenario, simile a un rantolo: «Eh, gaveva razòn el comissario… a ciacole[1] se tuti rivoluzionari, ma no valè una pipa de tabaco» (emesso il verdetto il sopravvissuto si riassopisce).

«Il vecchio rincoglionito dice il vero: vigliacchi, questo siamo! – accusa piagnucolando Pino – attaccati come cozze a un’esistenza agli sgoccioli… Se non vogliamo impegnarci offriamo almeno ospitalità a questo poveretto, cosa ci costa aggiungere una capanna alle nostre? Legno sarà che noi non saremo…» Tony esprime con un gesto della mano il suo assenso, ma gli altri abbassano lo sguardo e restano muti.

«È facile vincere chi non combatte – commenta amaro Marco. Nel suo animo lo sdegno si mischia alla disperazione, ma è quest’ultima ad avere il sopravvento – tolgo il disturbo, ma questa la porto via con me (soppesa la pistola nel palmo): mi risparmierà altri patimenti. Buon appetito e… addio!»

 

(fine settima parte)

[1]Ciacole=chiacchiere.

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