Il prezzo del coraggio

Il film, Il prezzo del coraggio, di Joel Schumacher, racconta la storia, vera, della giornalista irlandese Veronica Guerin, assassinata il 26 giugno 1996 da due sicari, per conto di uno dei boss malavitosi che gestivano il traffico di stupefacenti nell’Irlanda di quegli anni.

La report del Sunday Indipendent, negli ultimi due anni, si era infatti occupata di diverse inchieste sul traffico di droga a Dublino, svelando la intricata rete di relazioni malavitose che coinvolgeva larga parte della criminalità locale, ma anche dipendenti del fisco e giudici corrotti. Nella sola capitale, infatti, su una popolazione che sfiorava il milione di abitanti circa quindicimila giovani facevano uso di stupefacenti nella totale indifferenza da parte delle istituzioni e nell’assenza più assoluta da parte dei media. In tal modo, la criminalità organizzata era stata libera di espandere i propri affari indisturbata, penetrando tutti i livelli della comunità, agevolata, inoltre, dall’assenza di giuste e severe pene.

Nell’opera firmata da J. Schumacher la complessità della situazione viene rappresentata con la giusta discrezione[1], rispettando il taglio cronachistico del lavoro della protagonista, il cui talento investigativo e il senso di giustizia vengono messi in risalto, per contrasto, fin dalla prima apparizione sullo schermo. Il suo ritratto, viene affidato sapientemente a  che più di una volta si è messa alla prova con ruoli di spessore: donne  forti e coraggiose come Veronica.

La nostra giornalista viene dipinta come una amorevole ed attenta moglie, una madre premurosa, piena di autentiche passioni dal calcio ai diritti civili, ma soprattutto una passione per la verità e la denuncia delle ingiustizie.

Per questa ragione non riesce a restare indifferente davanti il degrado che la circonda. Decide allora di addentrarsi nel sottobosco della criminalità organizzata. Lo fa costruendosi una fitta rete di contatti: si reca dai giovani eroinomani e dagli spacciatori, dagli emarginati dei quartieri dublinesi, un mondo devastato dalle mafie locali. Purtroppo si mettono di mezzo anche leggi ingiuste e discutibili: Veronica non può fare i nomi degli spacciatori, deve limitarsi a chiamarli in causa con soprannomi improvvisati come il pinguino, il monaco, il generale. Uno dei suoi informatori – detto l’allenatore – le passa informazioni, ora vere ora false, per depistarla, ma lei riesce col suo intuito a distinguere bene la strada da percorrere.

Riceve diverse minacce: nel 1994 un proiettile le rompe una finestra mentre lei è con la sua famiglia; l’anno seguente viene aggredita da un criminale che le spara addosso. Man mano che l’ambiente malavitoso assume dei connotati più definiti, la figura della protagonista si fa sempre più piccola, somigliando ora ad un’esca, ora ad un agnello sacrificale che si trova ad affrontare il gigante mafioso con le sue sole forze e paure.

Nonostante questo, la sua voglia di verità  la spinge a recarsi fin sotto i palazzoni dei boss, uno dei quali – John Gulligan, che si scoprirà poi essere il responsabile del suo omicidio, mai condannato per mancanza di prove – la aggredisce fisicamente e la riempie di minacce.

Sul più bello, quando Veronica è vicinissima ad incriminare i responsabili dei traffici di eroina, il boss John Gulligan la fa assassinare da due sicari al suo servizio.

Una settimana dopo il suo omicidio, in seguito ad una forte mobilitazione cittadina, il governo irlandese modifica la Costituzione inasprendo le pene per il traffico di droga, autorizzando il sequestro dei beni patrimoniali dei narcotrafficanti.

Il regista ha dimostrato una grande professionalità, un doveroso rispetto per la figura della protagonista, sia come giornalista che come donna. La scena dell’omicidio segue uno stile discreto e asciutto, rispettoso dell’argomento, senza l’utilizzo di dialoghi ma ricco di pathos, unico ingrediente che forse manca al resto della pellicola. Il tutto viene bilanciato dalla presenza della colonna sonora che, per le tristi tonalità musicali, contribuisce a dare l’idea del martirio della protagonista[2].

Nonostante ciò, il film di J. Schumacher, ha il merito di fare un ritratto eloquente della giornalista, una eroina ricordata con riconoscenza dal popolo irlandese, ma purtroppo poco conosciuta al di fuori dei confini nazionali.

 

[1] “L’eterna lotta di Davide contro Golia è al cento del film tratto da una storia vera, che Joel Schumacher sceglie di mettere in scena con sobrietà: un po’ come un’inchiesta giornalistica, sul modello di quella condotta dalla sua protagonista” (Roberto Nepoti, ‘la Repubblica’, 11 ottobre 2003)

[2] Con una pagina di ottimo cinema quando, dopo l’assassinio della protagonista, ne fa arrivare la notizia ai suoi solo con immagini mute. Commoventi e laceranti”. (Gian Luigi Rondi, ‘Il Tempo’, 17 ottobre 2003) “

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