Il realismo sacro di “Non essere cattivo”

L’affetto per i vinti
Nel film “Non essere cattivo” si avverte una ripresa forte di impegno per il realismo, forte nel senso che si affrontano gli aspetti teorici ponendosi il problema “classico” di come narrare la marginalità dal livello zero dei marginali, evitando il rischio inevitabile di moralismo e sociologismo. Attraverso la presenza di una costante dimensione sacra il film libera la narrazione, la vita dei protagonisti, dal peso di richieste universalistiche e astratte. L’obiettivo è quel reale lì, una comunità, non la realtà come intera e vaga società. Paradossalmente però quel pezzetto di mondo, un “terreno sperimentale” in forma di novella, dice molto del frantumato presente di tutti; dice potendo articolare un discorso che inizia da “non essere cattivo”.
Claudio Caligari come Valerio Mastandrea, che ha completato la produzione dopo la scomparsa di Caligari, e l’edizione del film dopo la scomparsa del regista, amano Roma e la amano perché ne percorrono le dolenti periferie guardando bene gli abitanti. Caligari, soprattutto in “Amore Tossico” (citato nella scena del gelato a mo’ di raccordo), ci ha parlato della disperazione e della viziosità senza redenzione dell’universo della tossicodipendenza. Qui però c’è qualcosa di diverso, c’è l’amore verso la nuova disperazione dei nuovi “Accattoni”, l’affetto per i vinti.
Il registro pasolinano permette di andare oltre il distacco verista e di arrivare dentro la vita dei due protagonisti Cesare e Vittorio.

Amici dentro la frammentazione sociale di Roma
Già questo presupposto, la coppia di amici, le relazioni e non la solitudine segnala una “positività” sociale. Alla disgregazione della rappresentazione “banale” della marginalità si contrappone subito l’osservazione, più attenta, del meccanismo esistenziale di coloro i quali sono più vicini alla sopravvivenza e debbono costruire quotidianamente la vita.
Il neorealismo ispiratore di questo film, in particolare, è quello De Sica-Zavattini, proprio e classico, del canto dei valori popolari. Detto per “genere prossimo” del precedente “letterario” occorre capire come sia possibile credere nel popolo dopo la morte del popolo (Pasolini) e nell’agonia della città. Questo è il mio viaggio nel film.

Mi è capitato di vedere il film in una sala, al quartiere Trieste, nella quale non ero mai stato, peraltro affollatissima; mi sono subito chiesto -e forse in maniera razzista- quale empatia potesse crearsi tra i “benestanti” (me compreso “mediostante”) e l’universo “malestante” del film. Come questo pubblico più prossimo alla “Grande Bellezza”, imbalsamata e decadente, del centro di Roma giunga a guardare l’inestricabile gorgo vitale della periferia post-borgatara? Come l’ordine del centro possa inquadrare il disordine della periferia? Il tema intrecciò, giova ricordarlo, il tormentato dialogo tra Moravia e Pasolini dalla metà degli anni ‘60 all’inizio degli anni ‘70 quando, peraltro, il centro si accorse dell’esistenza delle borgate con varie iniziative prima culturali e pedagogiche –dal maestro di Pietralata Albino Bernardini alle inchieste sociolinguistiche sull’analfabetismo di Tullio De Mauro- poi con la brevissima, intensa stagione politica del sindaco Luigi Petroselli (che bonifica i borghetti) e di Renato Nicolini con l’Estate Romana come visionaria ma concreta riconquista del centro da parte delle periferie. Questo moto si infranse presto e, come aveva lucidamente previsto Pasolini, si ricadde nel moralismo o nel sociologismo, condannando o giustificando gli ultimi, i vinti, purché non parlassero e sistemarsi al di qua, in quella “società dei due terzi” della quale parla Alberto Asor Rosa, quando, attorno all’80, inizia il massacro liberista.

La novella raccontata dai protagonisti
“Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori del campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com’è stata, o come avrebbe dovuto essere.” (prefazione ai Malavoglia 1881) Queste celebri battute finali nel trattato metodologico che apre il capolavoro di Giovanni Verga, sono state la “stella polare” del neorealismo comportando diverse aporie e difficoltà, che allora ispirarono i diversi registri stilistici; ora, qui nel film di Caligari hanno avuto una sistemazione geniale.

La relazione Cesare – Vittorio non è riducibile a sola amicizia (“anche” ma vorrei trascendere la sfera emotiva) e produce una “unità”. Cesare è la vis, l’energia incontrollata della vita, temperata dall’elemento coscienziale che è Vittorio, che riflette sugli avvenimenti e, infine, torna a “dirigere” Cesare. Quest’unità è l’io narrante del film e funziona come produzione-narrativa, nei casini combinati da Cesare, e riflessione-narrante, nei tentativo di riparare quei casini da parte di Vittorio. Non c’è alcun altro punto di vista esterno non solo extra-diegetico (voce narrante esterna) ma anche intra-diegetico (qualcuno che parla di Cesare e/o Vittorio in loro assenza); in questo modo la narrazione è “novellistica” permette sempre allo spettatore di dominare svolgimento (Cesare) e pensiero (Vittorio), “la realtà come è stata e come avrebbe dovuto essere”.
Quell’unità (polare) , come detto, prospetta una socialità possibile, libera e virtuosa: libera perché ri-scelta ogni volta (dopo i casini di Cesare)\ virtuosa perché in grado di generare altre unità “comunitarie” (Cesare-Viviana; Vittorio-Linda).

L’argomento scettico e l’imprevista saggezza

La scena che definisce i caratteri della coppia Cesare-Vittorio è quella dell’allucinazione; quella dove davanti agli occhi di Vittorio, “fatto come ‘na pigna”, si prospetta una situazione onirica con clown ed altri circensi, scesi da un bus di traverso sulla strada\ invece Cesare non vede nulla, vede la strada deserta, però si sforza di guardare meglio. Vittorio è terrorizzato da questa perdita di “senso di realtà” e poi dall’uccisione della sirena stesa davanti l’auto. Cesare lo sostituisce alla guida “ma sarà mejo anna’ piano” e riparte lentissimo.

Questa scena è il centro “formale” del film.
1) Gli occhi sbarrati di entrambi (credo sia stato usato qualche collirio particolare e c’è riferimento ai Drughi di Arancia Meccanica), le palpebre che non battono mai durante tutta la scena propongono uno sguardo innaturale, suggeriscono una visone più potente della nostra e proiettiva, il tentativo di incorporare completamente la realtà, quasi a fagocitarla
2) Questo cenno rivolto a noi viene poi rafforzato in ragionamento meta-filmico con l’argomento “scettico”: vede giusto Cesare (strada libera) o Vittorio (strada ostruita dalla scena onirica)? Nella questione, ovvero all’aspetto della decisione, viene coinvolto l’osservatore\spettatore, con varie successioni di inquadrature soggettive. L’effetto di disorientamento ha la funzione di mettere in dubbio il funzionamento delle categorie dello spettatore ovvero la certezza del giudizio: “la borgata è male”. Propone, riprendendo la citazione di Verga, di accantonare il “giudizio” colpendo non solo il sicuro pensiero dei “benestanti”, della sala dove ho visto il film, ma la radice stessa dell’intellettualismo .
3) Tuttavia questo problema coinvolge i due all’interno del film. A seguito di questa perdita di controllo, terrorizzato, come detto, Vittorio riconsidera il suo rapporto con le droghe e di lì in avanti ricostruisce un ordine nella vita. Lavoro-famigliola-gestione bisca, così ricostruisce un senso della realtà. Cesare invece andrà a rimorchio di questa conversione rimanendo sospeso tra l’ordine di Vittorio e le pulsioni della vita. Tuttavia l’epilogo della scena assegna a Cesare una superiorità filosofica, o meglio di saggezza: di fronte al giudizio “aut,aut” (strada libera\occupata) cui lo spinge la disperazione di Vittorio e i suoi sensi incerti, opta per l’azione cauta: va piano quasi a tastare passo-passo il davanti.

Mater dolorosa, la sacra difesa della bontà

A questa preliminare –ribadisco il richiamo al verismo verghiano- operazione formale succede una precisa scelta “contenutistica” per l’umanità (anti-veristica), cioè per la valorizzazione delle azioni dei “malestanti”. La scelta che ha ovviamente la forma del “giudizio”, evidenzia però l’intenzione etica. “Non essere cattivo” ci avverte: “se guardate meglio potrete vedere che “l’umanità è buona” ma è anche l’esortazione che Vittorio, confuso, vede sulla maglietta del pelouche crocifisso. Il film narra di tutte persone buone –dal capogang che avverte Vittorio delle sbandate del figliastro, al capocantiere che perdona Vittorio e Cesare dopo la truffa, fino alle canne vuote della lupara di Cesare- e dunque sviluppa l’intenzione in speranza. Sotto gli atteggiamenti spacconi e rissosi, i modi per camuffare la solitudine, c’è una spontanea umanità, una spinta all’altro.
Ma questo villaggio umano, questo borghetto simile a quello milanese dove avviene il miracolo di De Sica-Zavattini, è uno spazio sacro difeso dalla “cattiveria” del mondo esterno da tre figure sacrificali: Cesare-la Nipotina-la Madre. Prima e soprattutto (in senso proprio trascendente) la Madre di Cesare, la “mater dolorosa”, la “Madonna Addolorata” quella che nell’iconografia cattolica ha le braccia aperte e il cuore trafitto da spade. Quella Madre accoglie su di se il dolore del mondo –la morte di tutti si suoi cari- per lasciare gli altri, “coloro che vengono” di vivere ancora. Quella madre che non giudica mai lo sciagurato figlio Cesare, analogamente a come Maria accolse la sciagura di un figlio rivoluzionario, è protagonista della scena sacra del film: quella della morte della nipotina. Scena di altissima e misurata poesia: la madre annuncia a Cesare, sorpreso, la morte della bimbetta dicendo (ricordo approssimativamente) “è morta a mezzanotte, al buio. Si è soli a morire col buio”. Conferma la sua vocazione ad accompagnare discreta il dolore in più segnalandoci un rivoluzionario “rovesciamento” (qui la poesia) : più grave della morte c’è la solitudine. Allora questo “sacro collettivo” è modello e motore contro la solitudine.

Vittorio ascolta l’Angelo

Oggetto d’elezione del moto solidale è Vittorio (nome omaggio a Vittorio Cataldi detto “Accattone”). L’elemento “coscienziale” della coppia che cerca di separarsi dal destino della borgata, di emanciparsi, di acquisire stili “conformi” ma esterni alla comunità, apparentemente “forte” è in realtà “debole”. “Anvedi va a lavora’ “lo pijano per il culo” i balordi ex sodali (il che non è giudicare) come accade anche in “Accattone” di Pasolini e, come quello, Vittorio cerca di forzare il proprio destino. Vittorio è solo come Accattone; a differenza della affettuosa (e sacra cioè incorruttibile) casa di Cesare, il film non ci informa di suoi legami familiari. Tuttavia egli ha Cesare e questa è la differenza specifica con l’universo pasoliniano. Pasolini cerca con grande trasporto passionale il valore della borgata, cioè chiede alla borgata di salvare il centro; invece qui, nella anonima periferia, preme la salvezza del possibile, di alcuni, di qualcuno, laggiù lontano, nelle pieghe del mondo. C’è una somiglianza con il volo in cielo sulle scope di “tutti” i poveri milanesi di De Sica-Zavattini, ma ora c’è la specifica novità della distruzione della società: non più tutti, solo i “possibili” voleranno.
Scomparso Cesare, Vittorio cerca di stabilizzare il suo nucleo affettivo, che però non è immune dalle tentazioni\necesssità, del denaro. Vittorio è solo non ha più la sacra innocenza di Cesare a confortare la sua scelta per il bene, solo l’esortazione dell’orsacchiotto. La sua solitudine è la coscienza senza termine di paragone, di fronte al “buio”. Come George Bailey (James Stewart) disperatissimo sul parapetto del ponte ne “La vita è meravigliosa” di Frank Capra, lui vagando si trova davanti la casa di Cesare, dove vede uscire Viviana, amatissima ragazza di Cesare, con un infante. “E’ Cesare, r’fijo de Cesare e vivo qui, la madre me ospita, così je rimane qualcosa de Cesare”. L’inquadratura, luminosissima, si sofferma sul volto radioso, felice, del bimbo di pochi mesi\ guardandolo Vittorio piange, gli occhi non sono più sbarrati, invece si stringono come a raccogliere i pezzi buoni di vita, a com-prendere un processo . Come l’angelo salva George riconducendolo alla comunità che canta Hark! The herald angels sing (“Ascoltate! Gli angeli messaggeri cantano”), così l’angelo di Cesare conforta la sua solitudine di fronte alla scelta. Vittorio protetto dal sacro ha la possibilità di attraversare il buio.

1 commento per “Il realismo sacro di “Non essere cattivo”

  1. andrea
    10 Ottobre 2015 at 9:51

    Ho visto il film appena uscito, bellissimo. La tua recensione mi ha illuminato su alcuni passaggi.

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