La testimonianza dell’esistenza  

  1. Testimonianza

Anzitutto, la vera testimonianza va distinta da quella dei “falsi profeti” di cui il mondo è pieno fin dall’alba dei secoli. Quante ideologie sono nate nella storia umana? Non è possibile enumerarle ma soltanto evocarle, in maniera generica, nella loro carica di menzogna.

Eppure, non esistono molti elementi, né particolarmente sicuri, per distinguere il vero testimone. Indubbiamente, l’aver fatto esperienza di ciò di cui si testimonia è un dato imprescindibile per esser credibili. Un altro criterio su cui è possibile fare un minimo di affidamento è il fatto che il testimone autentico non pretende di identificarsi con ciò che testimonia. La testimonianza di un evento è comunque un’altra cosa rispetto all’evento stesso, e chi pretendesse di incarnarlo in toto, cadrebbe ipso facto nel ruolo dell’ideologo. In altre parole, è peculiare alla testimonianza che la conoscenza testimoniale non risieda propriamente in noi, ma in qualcun altro. L’Altro a cui ci si richiama, testimoniando, evoca un’esperienza ritenuta degna di essere – appunto – testimoniata.

La testimonianza dell’esistenza – pertanto – è un’azione mondana che può essere intesa sia in senso soggettivo sia oggettivo. Se la intendiamo nel primo senso, mettiamo l’accento sul portatore della testimonianza – il testimone appunto -, se invece la intendiamo in senso oggettivo, l’accento cade sull’esistenza e allora la testimonianza si mostrerà strumento attraverso cui l’esistenza stessa, e la sua specifica ontologia, si dispiega nel mondo, diventando evento d’una realtà che inesorabilmente trascende la soggettività testimoniale.

È chiaro che la testimonianza implica l’interrogazione del presente ma ciò non sarebbe possibile se tale interrogazione non richiamasse la memoria. La filosofia, pur nella varietà delle sue forme, si è spesso ritrovata nella necessità di “render ragione” (nel senso letterale dell’espressione) della sua peculiare maniera di interrogare la memoria e la tradizione. Per lo stesso motivo, la filosofia, ossia una delle forme più alte e significative di testimonianza, conduce una lotta contro l’oblio che permette la risorgenza di antiche violenze o l’affermarsi di ideologie di sapore dispotico.

L’attualità della questione della testimonianza investe l’intero mondo umano – e ciò sotto il profilo culturale, filosofico, sociale, estetico e politico. In un certo senso, essa può essere perfino connessa a quella più generale dell’espressione e della comunicazione: si chiede al pensiero di riconfigurarsi sempre di nuovo alla luce delle sfide dei nuovi tempi storici. Per fare soltanto qualche esempio, la filosofia ha il compito di interrogare i testimoni del passato, ponendosi così, a sua volta, come testimonianza rispetto a questioni fondamentali come quelle del perdono e della pacificazione storica, e attiene anche alla gestione degli archivi e del segreto di Stato. La sua testimonianza, infine, appare fondamentale anche per quanto riguarda il diritto all’oblio – fatto fondamentale in un tempo che ha innalzato il digitale a strumento di comunicazione quasi esclusivo.  Come detto, la testimonianza passa attraverso una verità che inesorabilmente ci supera ma che, ciononostante, contribuisce a fondare un mondo umano basato sulla simbolizzazione dell’esperienza e sulla potenza dei racconti tramandati. Non è tanto la testimonianza dell’artista, del filosofo o dell’uomo politico ad appoggiarsi sulla verità, quanto la verità ad aver bisogno di testimonianza espressa. Insomma, la testimonianza è fondamentalmente un’esperienza vissuta. Quando parliamo della testimonianza, ci stiamo rivolgendo a qualcosa che è peculiare dell’umano: simbolizzare la propria vita, sforzandosi di essere sinceri davanti a sé stessi, è già di per sé un’opera di testimonianza. Essa è tale anche, e soprattutto, perché necessita di comunicazione all’interno di un mondo che è ontologicamente abitato dalla dimensione politica della pluralità. In Vita activa, è Hannah Arendt a scrivere che: “E non perché l’uomo è un essere pensante, ma perché esiste solo al plurale, la sua ragione è anch’essa bisognosa di comunicazione e rischia di smarrire la rotta quando ne sia privata: in verità, come osservava Kant, la ragione non «è fatta per isolarsi, ma per comunicare». La funzione di tale discorso senza voce — tacite secum rationare, secondo Anselmo di Canterbury , «ragionare silenziosamente con se stessi» — è di venire a capo di tutto ciò che è dato ai sensi nelle apparenze quotidiane; il bisogno di ragione consiste nel rendere conto — logon didonai, come più esattamente dicevano i Greci — di tutto ciò che sia o che sia avvenuto. […] Dare un nome alle cose, la pura e semplice creazione di parole, è il modo dell’uomo di far proprio e, per dir così, disalienare un mondo al quale, dopo tutto, ognuno di noi è nato come nuovo venuto e come straniero”[1].

  

    2. Il testimone

L’espressione che indica l’uomo come uno straniero richiama esplicitamente un altro autore che ha scritto pagine fondamentali sulla testimonianza. Considero le seguenti citazioni un esempio paradigmatico della letteratura morale intorno al tema in oggetto. Nelle seguenti righe, vengono chiarite espressioni come testimone obiettivo, partecipazione diretta, sincerità della testimonianza, partecipazione solidaristica nei confronti delle vittime.

E dunque, nelle ultime, intensissime, pagine de La peste, Albert Camus scrive quanto segue: “La nostra cronaca volge alla fine. E’ tempo che il dottor Bernard Rieux confessi di esserne l’autore; ma prima di riferire gli ultimi avvenimenti, egli vorrebbe almeno giustificare il suo intervento e far capire come abbia voluto assumere il tono del testimone obiettivo. Per tutta la durata della peste il suo mestiere lo ha messo in grado di vedere la maggior parte dei suoi concittadini e di raccoglierne i sentimenti; era quindi nella migliore situazione per ripetere quello che ha veduto e sentito; ma ha voluto farlo col ritegno desiderabile. In maniera generale, egli si è adoperato a non riferire più cose di quante non ne abbia potuto vedere, a non prestare ai suoi compagni di peste pensieri che, in definitiva, essi non erano costretti a formulare, e a servirsi soltanto dei testi che il caso o la fortuna gli aveva messo tra le mani. Chiamato a testimoniare, in occasione d’una sorta di delitto, egli si è attenuto a una certa riserva, come si conviene a un testimone di buona volontà; ma nello stesso tempo, secondo la legge dei cuori onesti, egli ha preso deliberatamente il partito della vittima e ha voluto unirsi agli uomini, concittadini suoi, nelle sole certezze che avessero in comune, ossia l’amore e la sofferenza e l’esilio. Di modo che non vi è nessuna angoscia dei suoi concittadini che lui non abbia condivisa, nessuna situazione che non sia stata anche la sua”[2].

A questo brano, già molto radicale, se ne aggiunge un altro subito dopo. In esso, Camus mostra i moventi, ossia ciò che spinge un testimone a testimoniare. E anche in questo caso, il movente non può essere altro che una formidabile quanto irresistibile spinta morale: “Dal porto oscuro salirono i primi razzi dei festeggiamenti ufficiali. La città li salutò con una lunga e sorda esclamazione. Cottard, Tarrou, coloro e colei che Rieux aveva amato e perduto, tutti, morti o colpevoli, erano dimenticati. Il vecchio aveva ragione, gli uomini erano sempre gli stessi. Ma era la loro forza e la loro innocenza, e proprio qui, al disopra d’ogni dolore, Rieux sentiva di raggiungerli. In mezzo ai gridi che raddoppiavano di forza e di durata, che si ripercuotevano lungamente sino ai piedi della terrazza, via via che gli steli multicolori si alzavano più numerosi nel cielo, il dottor Rieux decise allora di redigere il racconto che qui finisce, per non essere di quelli che tacciono, per testimoniare a favore degli appestati, per lasciare almeno un ricordo dell’ingiustizia e della violenza che gli erano state fatte, e per dire semplicemente quello che s’impara in mezzo ai flagelli, e che ci sono negli uomini più cose da ammirare che non da disprezzare”[1].

 

 

    3. Il successo storico e il silenzio

Nell’orizzonte de La peste camusiana, esiste dunque un nesso strettissimo fra la testimonianza e i flagelli. Ovviamente, ciò non va assolutizzato. È chiaro che si può testimoniare tanto il male quanto il bene, eppure c’è qualcosa, dal punto di vista storico, che rende più urgente la testimonianza del male rispetto a quella del bene. In un certo senso, è come se i vincitori non avessero bisogno di testimoniare o, meglio, è la loro medesima presenza a testimoniare per loro.

In questa luce, ciò dovrebbe indurci una forte diffidenza nei confronti dei testimoni che hanno vinto. Se credessimo che il successo sia l’unica forma di legittimazione dell’azione testimoniale, noi non crederemmo davvero alla realtà della testimonianza. Non si crede alla testimonianza, infatti, quando gli unici testimoni che interroghiamo – o di cui disponiamo – sono soltanto i testimoni dei vincitori. Io credo che, su questo punto, occorra essere guardinghi rispetto ad una certa tradizione hegeliana o, più in generale, di realismo politico secondo cui Die Weltgeschichte ist das Weltgericht (la storia del mondo è il tribunale del mondo). Se guardassimo alla storia del mondo tenendo conto soltanto del suo lato divenuto, realizzato, passato in essere, ignoreremmo un dato fondamentale, ossia che la testimonianza più importante fra tutte è proprio quella di chi non ha più voce per poterla esprimere. Su questo punto, impossibile non richiamare uno dei grandi testimoni del secolo scorso. È Primo Levi a scrivere: “Lo ripeto, non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri. È questa una nozione scomoda, di cui ho preso coscienza a poco a poco, leggendo le memorie altrui, e rileggendo le mie a distanza di anni. Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gorgone, non è tornato per raccontare, o è tornato muto; ma sono loro, i «mussulmani», i sommersi, i testimoni integrali, coloro la cui deposizione avrebbe avuto significato generale. Loro sono la regola, noi l’eccezione”[2]. Se, come credo, qui Levi ha toccato il punto vero, bisogna allora riconoscere che il martire – da cui anche la radice greca della testimonianza – è il testimone per eccellenza, ossia colui che attesta attraverso una scelta netta e non negoziabile le proprie convinzioni, a costo di rimetterci tutto: il testimone pone la libertà, e l’ideale che essa incarna, al di sopra della sua stessa vita.

Però, appunto, tante libertà sono state soppresse insieme alle vite su cui si sostenevano. Occorre allora chiedersi quante opere dell’umano avrebbero potuto portare un contributo importante all’espressione generale e collettiva dello spirito? Eppure, di quelle opere, di quelle vite, di quelle peculiari capacità di vedere il mondo, non sapremo mai niente. In fondo, da un punto di vista quantitativo, la storia è fatta meno di possibilità realizzate che di possibilità inespresse. Quelle possibilità mai realizzate erano tali perché si incarnavano nel corpo vivente di donne e uomini che hanno attraversato l’esistenza e che sono stati silenziati: a volte con l’esilio, a volte con il frastuono inascoltabile del conformismo, a volte addirittura con la morte. La loro passione ideale è rimasta invendicata, seppellita dal trionfo dei vincitori. La loro vita futura, le loro opere possibili, si sono perdute nella notte del vuoto metafisico.

 

    4. Il vuoto d’esperienza

Nella pieghe misteriose e abissali della mente, i ricordi possono apparire più vivi di quando gli eventi a cui la memoria si riferisce furono vissuti. Le rughe dei vecchi sono il segno e la testimonianza della loro vita. Le rughe e le parole dei testimoni costituiscono un vero e proprio testo che si tratta di decodificare. Il nostro tempo sembra aver dimenticato che l’esperienza del passato è vita condensata in uno sguardo, in una piega del volto o in un racconto. Il tempo in cui viviamo – e ciò è ancora più grave – sembra aver smarrito la capacità di imparare dalla storia. Presi dall’attimo presente, co-involti fino in fondo dall’esigenza indotta di consumare ed inquinare il mondo, abbiamo dimenticato che soltanto nell’intelligenza e nella sensibilità degli uomini, la vita diviene più profonda, più densa e più vera.

Il nostro tempo, però, ha l’arroganza di eternarsi in un istante che si pretende sempre giovane. Il main stream della nostra contemporaneità non si chiede se quell’eterno, artificialmente procurato, o stupidamente ostentato, non sia vuoto di vita, e proprio per questo è incapace di testimoniare il proprio passaggio nell’esistenza – non può che essere vuoto di vita un’eternità che non testimonia né protegge alcun tempo dentro di sé.

 

Prof. Antonio Martone

Giugno 2022

 

[1] H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 2018, ebook.

[2] A. Camus, La peste, Bompiani,Milano 2017, ebook.

[3] Idem

[4] P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 2015, ebook.

 

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1 commento per “La testimonianza dell’esistenza  

  1. La Greca Maria Anna
    30 giugno 2022 at 19:15

    È la missione della disfatta di mister Draghi
    E company….tutti uniti contro il bene dei popoli!!

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