“Le radici della disuguaglianza”. L’emergere dell’Individualismo proprietario. Parte II

PARTE II – Tocqueville- Stirner – Nietzsche.

 

La seconda parte, come la prima, si ripromette di indagare il tema “ a partire” da il libro “ Le Radici della disuguaglianza” del filosofo della politica Antonio Martone.

 

Tocqueville non è stato solo un fine analista politico è stato anche un uomo impegnato nella vita politica della Francia della prima metà dell’800. Le sue analisi e i suoi studi hanno riguardato gli Stati Uniti e non solo. Tra il 1835 ed il 1837 venne incaricato dalla Società Accademica Reale di Cherbourg di compiere uno studio sul diffondersi della povertà in Francia.[1] Gli studi per i quali Tocqueville è diventato famoso riguardano lo studio della società e delle istituzioni degli Stati Uniti [2]; ma tutta la sua produzione è utile per capire il contesto politico della prima metà del XIX secolo. La sua opera principale è La Democrazia in America, anticipata dagli appunti presi durante il suo viaggio negli stati Uniti e in Canada[3]. Tocqueville, come provano altri scritti, è stato un attento e sottile osservatore capace di comparare sistemi sociali, economici e politici diversi. Lo si evince dall’analisi della proprietà privata in Sicilia[4] quando scrive:<<Comprendo perfettamente, infatti, che in un paese molto avanzato, nel quale il clima porta all’attività e tutte le classi sono possedute dal desiderio di arricchirsi, come in Francia e soprattutto in Inghilterra, l’estrema divisione della proprietà terriera possa nuocere all’agricoltura e in conseguenza alla prosperità interna, poiché essa toglie grandi mezzi di migliorie ed anche di azione ad uomini che avrebbero la volontà e la capacità di farne uso. Al contrario quando si tratta di risvegliare e stimolare una popolazione infelice e paralizzata per metà, per la quale il riposo è un piacere e presso la quale i ceti elevati sono come sepolti nella loro pigrizia ereditaria e nei loro vizi, non v’è mezzo più efficace che la divisione della terra. Se, dunque, io fossi re d’Inghilterra, favorirei la grande proprietà; e se fossi signore della Sicilia, incoraggerei con ogni mezzo in mio potere la piccola. Non essendo né l’uno né l’altro… torno sveltamente al mio diario…>>. Capacità di analisi e realismo politico, dunque, come si evince dal passo appena riportato. Tocqueville è un Liberale con la convinzione che la Storia dell’umanità sia un continuo progredire verso l’Uguaglianza. Comprende che la Rivoluzione Francese ha solo demolito parte delle istituzioni politiche, economiche e sociali proprie del feudalesimo. La Francia nella quale lui vive ha ancora residui del passato feudale e in molti casi i vecchi istituti giuridici medievali sono stati semplicemente sostituiti da altri senza incidere sulle gerarchie sociali precedenti la Rivoluzione del 1789. Su questo tema illuminanti sono proprio le pagine che dedica alle cause della Rivoluzione Francese del 1789. Scriveva[5]:<< La rivoluzione non è stata fatta, come si è creduto, per distruggere il potere della fede religiosa; ad onta delle apparenze, è stata una rivoluzione sociale e politica; e, nell’ambito di tali istituzioni, si è proposta non già di perpetuare il disordine, di renderlo in certo modo stabile e di fare dell’anarchia un sistema, come diceva uno dei suoi principali avversari, bensì di accrescere il potere e i diritti dell’autorità pubblica. Essa non doveva cambiare il carattere che la nostra civiltà aveva avuto fino ad allora, come altri hanno pensato, né arrestarne i progressi, e nemmeno alterare nella sua essenza alcuna delle leggi fondamentali su cui poggiano le società umane dell’Occidente. Quando la separiamo da quegli incidenti che ne mutarono per breve tempo la fisionomia nei diversi paesi, per considerarla in sé stessa, si vede chiaramente che risultano di questa rivoluzione fu l’abolizione degli istituti politici che, durante parecchi secoli, avevano regnato in modo esclusivo sulla maggior parte dei popoli europei e che ordinariamente si definiscono come istituti feudali,per sostituirvi un ordine sociale e politico più uniforme e semplice, basato sull’eguaglianza delle condizioni>>. Continua il Visconte[6]: << Per quanto sia stata radicale, la rivoluzione ha tuttavia innovato meno di quanto si suppone in genere:dimostrerò in seguito che è stata molto meno novatrice di quanto si crede. È vero invece che essa ha distrutto interamente, o è in via di distruggere (perché dura ancora), tutto quanto nell’antica società derivava dalle istituzioni aristocratiche e feudali, tutto quanto vi si riallacciava in qualche modo, tutto quanto ne portava, fosse pure minima, l’impronta. Del vecchio mondo, ha conservato solo quanto a tali istituzioni era estraneo, o poteva esistere senza di esse. Perché la rivoluzione è stata tutt’altro che un avvenimento fortuito >>. Ritengo che “L’antico regime e la rivoluzione” ai fini dell’analisi de “Le radici della disuguaglianza” di Martone sia più incisivo de “La democrazia in America”. Tocqueville, come scrive Martone, affronta il tema del rapporto tra Libertà individuale e Democrazia ossia Uguaglianza, per cui riflettere sulle cause della Rivoluzione Francese diventa fondamentale. Nella sua introduzione al saggio sulle cause della Rivoluzione Francese, scrive lo storico Giorgio Candeloro[1]:<< L’idea fondamentale che scaturisce dalla ricerca del Tocqueville è quella di una sostanziale continuità tra la Francia dell’Antico Regime e la Francia dell’Ottocento; questa continuità è rappresentata soprattutto dalla tendenza all’accentramento amministrativo, che, secondo Tocqueville, è un elemento che spinge in direzione di regimi autoritari o che comunque pone molti limiti all’esplicazione della libertà politica, in nome della quale la Rivoluzione si era iniziata>>. Per capire questo passaggio bisogna far riferimento ad alcuni significativi brani dell’opera del Visconte. Scriveva Tocqueville[2]:<< Una cosa sorprende a prima vista: la rivoluzione che aveva per scopo di abolire ovunque ogni resto di istituzioni medievali, non è scoppiata nelle regioni in cui queste istituzioni, meglio conservate, facevano sentire maggiormente al popolo il loro rigore; in tal modo il loro giogo pareva più insopportabile dove in realtà era meno pesante. (…) Nulla di simile esisteva in Francia da lungo tempo: il contadino andava, veniva, comprava, vendeva, contrattava, lavorava a modo suo. Le ultime vestigia di servitù non apparivano che in una o due province dell’Est (…) Ma anche un’altra rivoluzione si era compiuta in Francia nelle condizioni del popolo: il contadino non solo aveva cessato di essere servo della gleba, ma era divenuto proprietario fondiario. (…) Per molto tempo si è creduto che il frazionamento della proprietà fondiaria datasse dalla Rivoluzione e fosse stato prodotto da questa; ma testimonianze d’ogni sorta hanno provato il contrario (…)>> scriveva sempre Tocqueville[3]:<< Risultato della Rivoluzione non fu la divisione della terra, ma la sua liberazione momentanea. Tutti quei piccoli proprietari si trovavano infatti molto imbarazzati per sfruttare le loro terre ed erano vincolati a molte servitù delle quali non potevano liberarsi >>. Tocqueville, come per la proprietà terriera, analizza anche gli istituti Corporativi, rispetto ai quali scriveva:[4] << A torto si accusa il Medio Evo di tutti i mali che hanno potuto produrre le corporazioni industriali. Tutto fa capire che in origine le maestranze e i consolati delle arti furono solo mezzi per vincolare tra loro i membri di una stessa professione e istituire in seno ad ogni industria un piccolo governo libero che avesse il compito di proteggere e nello stesso tempo guidare gli operai. Non pare che San Luigi abbia voluto di più. Soltanto al principio del sedicesimo secolo, in pieno Rinascimento, si immaginò di considerare il diritto al lavoro come un privilegio che il re poteva vendere. Solamente allora ogni corporazione divenne una piccola aristocrazia chiusa e si videro istituire quei monopoli tanto dannosi al progresso delle arti e che tanto indignarono i nostri padri>>.

Citando Letrone, Tocqueville evidenzia che la ragione per la quale vennero istituite le corporazioni fu quella di garantire un gettito fiscale allo Stato Assolutista e accentratore. Secondo Tocqueville[5], << Sarebbe dunque un grave errore credere che l’antico regime fosse un tempo di servilismo e di schiavitù vi regnava molta maggiore libertà che ai nostri giorni (n.d.r. siamo negli anni 50 dell’800): ma era una specie di libertà irregolare e intermittente, sempre contratta nel limite della classe, sempre legata a un’idea di eccezione e di privilegio, che permetteva quasi di sfidare tanto la legge quanto l’arbitrio e non giungeva mai a concedere a tutti i cittadini le garanzie più naturali e più necessarie. (…) Ma se questa libertà sregolata e malsana preparava i francesi a rovesciare il dispotismo, essa li rendeva meno adatti forse di qualsiasi altro popolo ad istituire al suo posto il pacifico e libero imperio delle leggi>>. Considerando queste affermazioni, è facile concludere che la Rivoluzione francese altro non fu che una rivolta contro l’Assolutismo e l’accentramento dei poteri nelle mani della Monarchia a difesa della proprietà privata e della sua libera circolazione. Le istanze Democratiche, e cioè di uguaglianza politica, cozzavano con l’interesse di coloro che, dopo decenni di “riforme economiche” ispirate dagli economisti, intendevano la libertà politica solo come difesa della proprietà privata. Scriveva Tocqueville[1]:<< Secondo gli economisti, lo Stato non deve solo comandare alla nazione, ma foggiarla in un dato modo; tocca ad esso formare lo spirito dei cittadini sopra un dato modello che si è proposto in anticipo; è suo dovere penetrarli di certe idee e fornire al loro cuore i sentimenti che giudica necessari. In realtà i suoi diritti non hanno limiti e quanto può fare non ha confini; non soltanto riforma gli uomini, ma li trasforma; forse dipenderebbe soltanto da esso farne anche degli altri! >> In questo passo emerge l’attualità di Tocqueville: in quel “lo Stato deve foggiare la nazione” si può intravedere il concetto di biopolitica propria di Foucault[2]. Tocqueville scrive “L’antico regime e la Rivoluzione”, dicevo, a metà degli anni 50 dell’800, pochi anni prima della sua morte. Durante la sua vita ha visto la Rivoluzione del 1830 e quella del 1848, ha visto il fallimento di quest’ultima e la sua trasformazione nel regime bonapartista [3]. Tocqueville da studioso e da politico partecipa agli eventi che interessano la Francia fino alla sua morte avvenuta nel 1859. In questo arco di tempo ha visto come sia difficile se non impossibile conciliare le istanze di Libertà e di Uguaglianza sbandierate dalla Rivoluzione del 1789. I “Quaderni”[4]  che raccolgono le annotazioni del suo viaggio negli USA e nel Canada, lavoro propedeutico all’opera più importante che lo renderà famoso, consentono a Tocqueville di cogliere lo “spirito” di una Nazione che iniziava a muovere i suoi primi passi alla conquista degli spazi enormi che aveva di fronte, che è passato alla Storia come “lo spirito della frontiera” e che caratterizza ancora oggi la società USA. La libertà è per quella nascente Nazione, in primo luogo, libertà di muoversi e di organizzarsi. È una società dinamica, fortemente individualista (gli Stati Uniti che visita Tocqueville sono ancora integralmente W.A.S.P.). Tocqueville vede istituzioni politiche, giudiziarie ed amministrative in formazione, osserva la nascita dei corpi intermedi: non solo i partiti politici ma i singoli stati federali che sono da considerare una sorta di corpo intermedio rispetto allo Stato centrale; descrive la nascita della stampa e dell’opinione pubblica. Sono tutti elementi questi che rendono possibile la Libertà e la Democrazia. Ma tutto questo è possibile perché, come scrive Tocqueville: << Il punto saliente dello stato sociale degli angloamericani è di essere essenzialmente democratico. (…) Esso ha avuto questo carattere fin dalla nascita delle colonie e l’ha più ancora ai nostri giorni>>. Nella sua opera, Tocqueville dedica intere pagine ad analizzare la formazione della società americana partendo dalle prime colonie nella Nuova Inghilterra: è il dato religioso che anima l’egualitarismo e lo spirito liberale in America. Il poeta americano Walter Whitman[5] canta il nascente spirito americano nella sua poesia; ma è la narrativa dei grandi scrittori americani dell’800 come Nathaniel Hawthorne, Edgar Allan Poe, Herman Melville, James Fenimore Cooper che lo incarna. Leggendo Tocqueville quello spirito emerge dalla sua analisi sociale, politica ed antropologica. Comparando la formazione della Società Americana alla Società degli Stati Europei quali Francia e Gran Bretagna è del tutto evidente che la prima rispetto alle altre due non ha una “tradizione” per così dire antica, radicata, è tutta da costruire ed è proprio lo spazio, la frontiera che favorisce Libertà, Uguaglianza e quindi Democrazia. Per cui penso che per comprendere le “Radici della disuguaglianza” nel pensiero di Tocqueville bisogna soffermarsi a riflettere sull’idea che egli ha della Libertà. Negli appunti per il secondo volume dell’opera sulla Rivoluzione francese dal titolo “Il gusto autentico della libertà[6]” si legge:<<L’odio che gli uomini liberi o degni di esserlo portano al potere assoluto nasce da un’idea ragionata e insieme da un sentimento istintivo. Quegli uomini hanno imparato, una volta per tutte, che l’arbitrio di un padrone ritarda sempre o arresta la prosperità pubblica, dà luogo bene spesso al dispotismo, ingenera la guerra e non garantisce neppure quel tanto di benessere che spinge gli uomini avidi o le nazioni degenerate tra le braccia della tirannide: e per questa ragione essi rifiutano di sostenerlo. Ma ciò che li induce a respingerlo, a sottrarsi ad esso ad ogni costo, è il gusto disinteressato, istintivo, involontario, quasi, dell’indipendenza, il piacere nobile e virile di poter parlare, agire, ragionare, respirare, senza costrizione alcuna, il piacere di sentire che non dipende da un uomo ma da Dio e dalla legge. (…) V’è, dunque, un attaccamento ragionato ed interessato alla libertà, che si origina dalla visione dei benefici che essa procura. E v’è poi, un gusto istintivo, irresistibile e come involontario, che nasce dalla stessa invisibile fonte di tutte le grandi passioni, non solo della libertà politica ma di tutte le virtù alte e virili… Questo gusto può, è ben vero, albergare in ogni animo, ma occupa il primo posto solo nel cuore di un piccolissimo numero…>>. È nel passaggio finale della “lettera” di Tocqueville appena richiamata che bisogna collocare le “Radici della disuguaglianza”. Non albergando in tutti gli uomini “virtù alte e virili”, non è nella Democrazia in quanto sistema politico ma negli uomini che si annidano “Le Radici della disuguaglianza”.  Scrive Martone concludendo le sue riflessioni su Tocqueville[1]:<< conservo l’impressione che il merito fondamentale di questo grande autore sia stato quello di segnalare l’avvento di una nuova irresistibile potenza che si andava determinando sotto la forma della “barbarie democratica”. Egli si è chiesto cosa fosse e che cosa fare di essa; come rendere domestica e vivificante il suo essere barbarico; fuor di metafora, come impedire che l’uomo paghi il proprio benessere con la riduzione a piccola cellula di una massa indifferenziata di uguali. Insomma: come restituire legittimo orgoglio all’homo democraticus>>.

Hobbes, Rousseau e Tocqueville mostrano chiaramente la volontà di offrire un modello politico, o forse è più corretto dire una “cultura politica”, capace di tenere insieme le istanze di libertà dell’individuo con l’uguaglianza propria della Democrazia e la protezione da parte dello Stato. Dalla lettura dei tre si evincono chiaramente i limiti di ciascuna proposta. La grandezza di Hobbes, Rousseau e Tocqueville sta proprio nel proporre delle soluzioni pur nella consapevolezza che ognuna di esse presenta luci ed ombre. In Hobbes la consapevolezza dei limiti sta nel fatto che a vincere non sarà il suo modello di Stato e la sua parte politica; ma a vincere sarà il modello di Locke; Rousseau si rende perfettamente conto che la sua idea di Democrazia diretta, il concetto di “volontà generale” ha in sé contraddizioni tali da renderla addirittura irrealizzabile per il semplice motivo che l’idea di “Democrazia” richiede qualità, per così dire, non proprio umane. Possiamo dire che quella di Rousseau è una sorta di riflessione sui limiti umani per la realizzazione dell’Ideale democratico. Tocqueville alla fine ha anche lui ben presenti le contraddizioni ei limiti insiti nella Democrazia, limiti che, come dicevo prima, non sono nel modello in sé ma propri del singolo individuo. Non a caso Martone considera Tocqueville proto – esistenzialista in quanto consapevole del disagio che l’uomo borghese iniziava ad avvertire. Tocqueville muore nel 1859, in piena ascesa del Secondo Impero, dopo aver visto la crisi delle istanze Democratiche e sociali della Rivoluzione del ‘48. A partire da quegli anni ad evidenziare la crisi della società borghese che interesserà l’Europa dalla seconda metà dell’800 fino alla soglia della Grande Guerra saranno poeti come Baudelaire, Mallarmé, Rimbaud, Verlaine e romanzieri come Proust, Mann, Joyce, Musil, Zola. Sono autori che appartengono a correnti letterarie diverse ma hanno un elemento che li accomuna: descrivono i limiti e la crisi della società borghese ed implicitamente evidenziano i limiti dei sistemi politici Liberali.

Nella sua analisi sulle “Radici della Disuguaglianza” Martone richiama Stirner e Nietzsche. Rispetto a Stirner, esordisce individuando i punti in comune con Tocqueville, che ben emergono quando scrive:<<È sul piano politico che la trasposizione della teologia in moralismo laico consuma tuttavia i suoi fasti più recenti. La Rivoluzione francese, nell’ottica del filosofo di Bayreuth, ne costituisce l’esempio più chiaro. Mentre nelle società aristocratiche il gruppo corporativo di cui si faceva parte costituiva la mediazione (il contatto con Tocqueville anche qui mi sembra palese) rispetto alla comunità universale, il terzo stato, vincitore della Rivoluzione francese, rompe tale mediazione. Esso cancella se stesso come stato particolare ed assume un’identità che qualifica ciascuno dei propri componenti in quanto membri della società universale. Nasce così le citoyen, e lo Stato diviene nazione. Chi ci rimette però è ancora una volta il singolo. Quest’ultimo, infatti, nonostante la libertà sia l’icona fondamentale della Rivoluzione, è ben lontano dal potersi davvero liberamente autodeterminare. Non può che costituire emancipazione soltanto apparente quella che permette di liberarsi sì dalla particolare espropriazione di sé che obbligava l’aristocratico davanti alla propria classe e il membro del terzo stato davanti all’aristocratico, ma obbliga ciononostante a rimanere impigliati in quella inedita forma sacrale che ora si chiama nazione)>>[2]. Non a caso nell’analizzare Tocqueville ho scelto di soffermarmi soprattutto su “L’antico Regime e la Rivoluzione”,  invece che sull’opera che lo ha reso famoso.

Quella di Stirner è una critica radicale al Liberalismo, al Socialismo e alla Democrazia. Nessuna di esse è in grado di rendere realmente l’Uomo libero. Da ciò che scrive Stirner[1] evinco una sorta di “razzismo intellettuale” rispetto sia all’uomo borghese che all’uomo proletario. E’ quel disprezzo proprio della mentalità dell’uomo piccolo borghese che agogna di avere risorse maggiori che gli consentano di essere “proprietario di se stesso” e nel contempo avverte il pericolo di essere potenzialmente un “proletario”. Questo che è un vero e proprio dramma esistenziale emerge dalla conclusione della sua opera quando scrive:[2] <<Padrone della mia forza sono io, nel momento in cui acquisto consapevolezza di essere unico. Nell’unico il possessore si dissolve nel nulla creatore, dal quale è nato. Qualunque essere superiore a me, sia esso Dio o l’uomo, impallidisce al sole di questa mia coscienza di essere l’Unico. Se in me stesso, nell’Unico, io faccio convergere la mia causa, essa diventa proprietà del singolo da cui tutto si crea e che ogni cosa e se stesso consuma; e io potrò dire: Io ho riposto la mia causa nel nulla>>. Il vuoto esistenziale che scaturisce dalla critica di Stirner non è altro che la mancanza di identità da parte di quello che è l’arcipelago sociale rappresentato dalla classe media. Da questo punto di vista il pensiero di Stirner anticipa i temi propri della società post-moderna, della “liquidità sociale” o meglio ancora del mercato nel quale soggetti “Unici” interagiscono con altri soggetti “Unici” come proprietari di se stessi. Stirner dedica molte pagine della sua opera al Liberalismo e alla classe sociale che è portatrice di quella ideologia, la borghesia[3]:<< La borghesia è la nobiltà del MERITO: “al merito il premio” è il suo motto>>. Questo richiamo al “merito” richiama i rischi ad esso connessi ben illustrati da Michael Young [4]e M. J Sandel[5].  Giustamente Stirner evidenziava che[6] <<Con il servire si acquista la libertà, cioè “il merito”, quand’anche il padrone fosse “Mammona”>> e continuava,[7]<< Libertà significa che la “polis” (lo Stato) è libera; “libertà  religiosa”, che la religione è libera: allo stesso modo che “libertà di coscienza” vuol dire che la coscienza è libera. Libertà, dunque, non significa che “io” sono libero, indipendente dallo Stato, dalla religione, dalla coscienza. Non dunque la mia libertà, bensì la libertà d’un potere che mi domina e opprime; libero e solo uno dei miei padroni, sia esso lo Stato, o la religione, o la coscienza. Stato, religione, coscienza, questi despoti mi rendono schiavo: la loro libertà significa il mio servaggio.(…) La “libertà individuale” sulla quale vigila geloso il liberalismo borghese, non significa affatto una libera e illimitata disposizione di se stessi (per cui tutti gli atti sarebbero esclusivamente miei) bensì soltanto l’indipendenza dalle persone. Individualmente libero è colui che non è tenuto a dar ragione a nessuno del suo operato(…)>>, parole, queste di Stirner, illuminanti come illuminanti sono le critiche all’antitesi della borghesia e cioè alla classe operaia, quando scrive:<< (…) voi dovreste dare all’ozio un significato  umano. Ma anche il lavoro voi l’intraprenderete, operai, perché spinti dall’egoismo, perché vi bisogna pur mangiare, bere, vivere; come dunque pretendereste poi d’essere meno egoisti nelle ore d’ozio? Voi lavorate unicamente perché dopo il lavoro è gradito il riposo, il dolce far nulla; quello che voi compirete nelle ore d’ozio sarà opera del caso. Ma se si vuol chiudere ogni porta all’egoismo, bisogna dedicarsi a un lavoro puramente disinteressato, al puro disinteresse. Questo solo è degno dell’uomo: il disinteresse è umano perché è proprio soltanto dell’uomo(…)>>. Questi passi tratti da “L’Unico e la sua proprietà” anticipano il dibattito culturale politico del ‘68, nello specifico la protesta “artistica del Maggio” parigino.[8] L’individualismo di Stirner per molti versi richiama il pensiero del teorico dell’anarco – liberalismo Murray N. Rothbard[9]. C’è comunque da evidenziare che l’Unico di Stirner non è completamente avulso dal rapporto con altri individui. Scrive Stirner ne “L’Unico”[10]:<< La potenza è dell’uomo, il mondo è dell’uomo, l’io è dell’uomo. Ma non dipende forse da me il dichiarare me stesso quale mio proprio signore, mio proprio dominatore? Dunque io dovrò dire così: “La mia potenza è la mia proprietà. La mia potenza mi concede la proprietà. Io sono la mia potenza; per essa io sono proprietà di me stesso”>>. L’Unico proprietario di sé stesso, a meno che non si ritiri in un’isola sperduta, nella relazione con gli altri individui dovrà necessariamente operare nello spazio rappresentato dal “mercato”. Il Liberalismo che Stirner ha cacciato dalla porta rientra dalla finestra. Sia chiaro: Stirner non fa riferimento al mercato come luogo delle relazioni umane, ma la difesa della proprietà privata, l’attacco allo Stato e le critiche al Liberalismo quanto al Socialismo e al Comunismo anticipano alcune delle critiche che muoverà Rothbard. Concordando con Martone[1]: << Più in generale, si può concludere ricordando – ancora una volta – che nel tempo dell’individualismo secolarizzato e della “contrazione claustrofobica” del senso, l’Io è vuoto e privo di radici e, in quanto tale, esposto al duplice rischio (due facce della stessa medaglia) dell’identificazione populista/totalitaria da una parte, e della polverizzazione indocile ma serializzata dall’altra – comunque in affanno nel confrontarsi con la realtà a partire dalla propria (questa sì davvero unica) concretezza esistenziale. A forme di individualizzazione sempre più accentuate, pertanto corrispondono forme di controllo che appaiono, inevitabilmente, sempre più estese ed intense(…).>> Sulla modernità e i costi che essa ha determinato, della quale Stirner è sicuramente uno dei maggiori esponenti, merita di essere letto il saggio/intervista di Castoriadis e Lasch dal titolo “La cultura dell’egoismo”.[2]

 

Il saggio di Martone si conclude analizzando il pensiero di Nietszche. Martone parte comparando gli elementi che accomunano Nietzsche a Stirner e a Tocqueville, lavoro questo di vera e propria filologia. Scrive a proposito di Stirner e Nietzsche[3] << (…) la scrittura e l’opera di Stirner è decisamente diversa da quella di Nietsche – se l’autore dell’Unico appare di una estrema stringatezza ed essenzialità, mostrandosi interessato alla valorizzazione dell’Io/Unico più di ogni altra cosa, in Nietzsche il discorso si svolge sondando ogni possibilità che l’espressione filosofica può offrire. (…) Allo stile (invero piuttosto grezzo) di Stirner, inoltre, risponde la scrittura rutilante e potentemente evocatrice di Nietzsche (…) A parte lo stile, però, a differenziare sostanzialmente i due filosofi sono i contenuti categoriali. Mentre l’Io di Stirner, pur appropriandosi dell’intera storia dello spirito, si presenta come un atomo perfettamente in grado (ove volesse) di riprendersi la sua “proprietà” , la soggettività in Nietzsche appare più realisticamente confitta in una situazione epocale che non consente di sottrarsi ad essa se non condannandosi a dover combattere (e magari perire) contro forze formidabili che non è facile, né forse possibile liquidare in breve tempo(…)>>.

Per quanto riguarda il rapporto di Nietzsche con Tocqueville scrive ancora Martone[4]: <<(…) non è soltanto una comune fenomenologia dell’uomo democratico che accomuna Tocqueville e Nietzsche. Una importante similitudine va riscontrata anche sul tema tocquevilliano del dispotismo di un nuovo tipo. Anche per Nietzsche, infatti, l’uomo democratico, rappresentando la mediocrità sulla scena della storia, incentiva parallelamente la nascita di uomini d’eccezione che, posti in un ambiente modesto, grazie alla loro spregiudicatezza e versatilità, potrebbero diventare veri e propri tiranni. (…)>>. Mi viene da pensare che entrambi sono spaventati dal fatto che in Democrazia possano emergere individui capaci di mettere in discussione la rispettiva superiorità che nel caso di Tocqueville riviene dallo status sociale di aristocratico oltre che valente intellettuale, nel caso di Nietzsche dal ritenersiÜbermensch/Sigfrido quanto meno tendere ad essere tale. L’“Oltre Uomo” di Nietzsche è ben rappresentato dalla musica di Wagner dal quale comunque si svincolerà a partire dal Festival di Bayreuth anche con quanto scriveva in “Umano, troppo Umano”[5] . Interessante in merito è la lettera del 24 maggio del 1878 di Wagner ad Overbeck:[6]<< Da ciò che lei mi ha scritto, deduco che ora il nostro vecchio amico Nietzsche mantiene le distanze. Qualche sconvolgente cambiamento si è andato certamente verificando in lui: tuttavia chi ha avuto modo di assistere alle crisi psichiche alle quali va soggetto da anni, deve quasi dire che la catastrofe da lungo tempo temuta, che lo ha prostrato, non era del tutto inattesa. Io gli ho fatto la gentilezza … di non leggere il suo libro, e il mio augurio e la mia speranza più grandi sono che un giorno mi ringrazierà>>.

Per quanto mi riguarda il pensiero di Nietzsche è da ascrivere all’anticipazione della crisi della Società di massa in cui i processi di Democratizzazione, in atto a partire dalla seconda metà dell’800, stavano portando al superamento dei sistemi politici Liberali all’insegna dell’uguaglianza. Nietzsche è uomo del suo tempo e vive le contraddizioni proprie della nascita del Reich tedesco ad opera di Bismarck. Come scrive J. Delhomme nella sua biografia:<< La Germania degli anni Settanta aveva assistito alle battaglie bismarckiane contro il Cristianesimo organizzato nella Chiesa Cattolica (Kulturkampf) e contro i socialisti (leggi eccezionali; negli anni Ottanta ambedue queste battaglie si riveleranno perdute. Nietzsche  sostanzialmente non perdonò mai a Bismarck né allo Stato tedesco questa sconfitta In essa egli vedeva la resa a discrezione di quelli che miticamente avrebbero potuto essere i “signori della terra” ( gli junker) alle masse dei “paria” e alla loro morale; e qui non interessa il fatto oggettivo della giustezza o meno dell’identificazione di socialismo e religione, ma interessa la visione di Nietzsche(…)[1]>>. Con la nascita delle Monarchie Costituzionali e la crisi degli ideali Aristocratici la stessa Libertà Borghese mostrava i propri limiti a causa dell’ascesa di istanze Democratiche dovute alla radicale trasformazione sociale ed economica che vedeva l’avvento delle masse. Come scriverà Ortega y Gasset[2], questo si tradurrà in rivolta quando gli istituti Liberali non saranno più in grado di dare risposte adeguate. Il richiamo di Nietzsche alla cultura greca ha la funzione di mettere in campo una visione del mondo fondata su un pensiero autorevole come era appunto quello greco e rientrava a pieno titolo nei canoni della formazione culturale delle classi alte dell’epoca. Penso che il saggio “Verità e menzogna”[3] di Nietzsche vada interpretato come strumento per mettere a nudo le contraddizioni proprie della Società borghese dell’epoca, l’ipocrisia filistea del suo tempo. Il Liberalismo è menzogna perché non rende liberi, la Democrazia è menzogna perché non rende uguali; il Socialismo è ancora peggio perché non è altro che massificazione; infatti, priva l’individuo di un elemento essenziale per la propria libertà, per quanto limitata: la proprietà privata.

L’avvento delle masse, attraverso le prime forme di organizzazione sociali e politiche, se mi si fa passare il termine, tramortisce l’ideale “aristocratico” di Nietzsche. Anche se si allontanerà da Wagner il suo “oltre uomo” rimarrà l’eroe romantico impersonato da Sigfrid, figura ben lontana dall’immagine del borghese intento ad arricchirsi o del proletario massacrato nel corpo e nello spirito da ore di lavoro che lotta per condizioni di vita migliori.  “Verità e menzogna”, anche se pubblicato postumo insieme ad altri scritti giovanili, precede “Sull’utilità e il danno della Storia”. Quest’opera è da leggere con la precedente perché, con essa, Nietzsche analizza il ruolo della Storia e la sua funzione. Scrive:[4]<<Che la vita necessita della storia deve essere compreso altrettanto chiaramente quanto la tesi, che dovrà più oltre essere dimostrata – che un eccesso di storia danneggia l’essere vivente.  La storia compete al vivente sotto tre aspetti: lo riguarda, quale essere attivo e che ha aspirazioni, quale essere che conserva e venera, quale sofferente e bisognoso di liberazione. A questa triplicità di rapporti corrisponde una triplicità di tipi di storia: nel senso che è permesso distinguere una specie di storia monumentale, una antiquaria ed una critica. La storia appartiene innanzitutto all’essere attivo e possente, a colui che combatte una grande battaglia, che abbisogna di modelli, maestri e consolatori e non può trovarli tra i suoi compagni e nel tempo presente(…)>>. In questo passaggio si condensa la critica Nietzschiana ai sistemi ideologici rilevandone la “menzogna” e facendo sì che il suo pensiero diventi strumento d’analisi della contemporaneità che, come scrive Martone, pone Nietzsche tra il pre-moderno e il post-moderno.  Il tema della crisi delle ideologie verrà sviluppato in modo particolare da Karl Mannheim, il quale analizzerà le relazioni che intercorrono tra l’ideologia e l’utopia[5].  Potremmo dire che la Storia se presa in dosi massicce fa male perché rende l’uomo succube tanto del passato quanto del presente impedendogli di vivere liberamente/autenticamente la propria esistenza. Proprio il concetto di vivere in modo autentico la propria esistenza fa del pensiero di Nietzsche riferimento sia per Italo Svevo[6] che per Gabriele D’Annunzio; poiché l’autenticità non è definibile perché attiene l’uomo oltre l’umanità storicamente condizionata si addice alla sinistra come alla destra. Non a caso Anna Kuliscioff a proposito di Mussolini si espresse dicendo che era un poetino che aveva letto Nietzsche. La critica radicale condotta da Nietzsche alla Società Borghese della quale il proletariato rappresentava l’altra faccia, ha fatto sìche, a partire dagli anni ‘60suscitasse interesse anche a “sinistra”. Cito uno per tutti: Gianni Vattimo[1]. L’essere oltre la dimensione umana rappresentata dalla modernità vuol dire la destrutturazione di ogni visione del mondo ed è ciò che Nietzsche fa nella “Genealogia della morale”[2]quando scrive:<< Siamo ignoti a noi medesimi, noi uomini della conoscenza, noi stessi a noi stessi: è questo un fatto che ha le sue buone ragioni. Non abbiamo mai cercato noi stessi – come potrebbe mai accadere che ci si possa, un bel giorno trovare? (…) A questo scopo siamo sempre in cammino come animali alati per costituzione, come raccoglitori di miele dello spirito, e soltanto un’unica cosa ci sta veramente a cuore – portare a casa qualcosa. (…)>>. In questa frase si racchiude la condizione post – moderna propria della contemporaneità. Condizione post – moderna che si è tradotta in sradicamento, flessibilità, perdita di identità,  libertà come vuoto frutto della crisi delle Ideologie ma anche delle Utopie.

Nelle sue conclusioni Martone scrive di aver preso in considerazione lo sviluppo del pensiero moderno analizzando come l’individuo abbia costruito, nel corso dei secoli, il rapporto con la comunità di appartenenza tenendo presente il contesto storico e l’autore. La caratteristica fondamentale che emerge dagli autori esaminati da Martone è che l’Individuo è fondamentalmente il proprietario di se stesso; egli, emancipandosi dai vincoli religiosi e morali, attraverso l’utilizzo della proprietà, in primis quella che esercita su se stesso, afferma la propria libertà rispetto al contesto storico nel quale si trova ad operare. Perfino Rousseau, che critica la proprietà privata ritenendola un furto, non ne sostiene l’abolizione; infatti, pone questioni di equa distribuzione della proprietà privata, sia tra individui contemporanei che tra generazioni, proponendo interventi legislativi tesi a limitarne l’uso non certamente ad abolirla. Il diritto di proprietà da intendere come diritto al possesso di se stessi è il dato della modernità che si addice al contesto storico egemonizzato dal pensiero unico Liberale.

L’esercizio della Libertà Individuale tramite l’uso della proprietà, in età medievale,trovava limiti di ordine morale, etico o semplicemente politico giuridico;erano presenti limiti anche nella “modernità”; ma, con la critica operata da Stirner e Nietzsche, ogni limite è venuto meno. Le Ideologie in qualche modo limitavano il diritto di proprietà; con la loro crisi e le rivelazioni di Nietzsche circa la “menzogna” del Liberalismo, del Socialismo oltre che delle stesse religioni, il Cristianesimo nello specifico, resta solo l’Individuo Unico e solo libero di poter utilizzare al meglio quello che è il suo “diritto naturale”la proprietà privata. Il contesto attuale ha fatto proprio questa idea con effetti deleteri rispetto alla Società e al senso di appartenenza ad una data Comunità. L’affermazione della Thatcher: << la Società non esiste, esistono solo gli individui. E l’economia ne ha cambiato l’anima>>, è quanto di più stirneriano e nietzschiano ci sia in circolazione. Né Stirner né Nietzsche erano economisti ma l’economia non è avulsa da temi  valoriali,  religiosi o psicologici. Non è sostenendo che ciascuno di essi è “menzogna” che si libera l’Individuo. Le ragioni dello scambio e della produzione di beni dipendono da una molteplicità di fattori, come provano gli scritti, solo per citarne alcuni, di  Adam Smith [3], Davide Hume[4], Bernard Mandeville[5],  Karl Polanyi[6], Amartya Sen[7].

Faccio mie le conclusioni di Martone: << Non c’è individuo senza comunità; non c’è comunità che non debba appoggiarsi sull’apporto imprescindibile dell’individuo. Occorre rilanciare l’idea olistica dell’intero, nella convinzione però che nessun intero potrà mai essere tale senza che ciascuna delle sue parti, costituendolo, lo determini.>>. L’esaltazione individualistica e della unicità di ciascuno ha di fatto assecondato l’egemonia del Liberalismo, del Capitalismo, del Mercato e, con essa, la fine dell’identità e del senso di appartenenza. Il vuoto ha semplicemente reso libero l’individuo di scambiare la sua unica proprietà, ossia sé stesso, al di fuori di qualsiasi regola; non a caso assistiamo allo sfruttamento brutale del lavoratore o a pratiche come l’utero in affitto e alla messa sul mercato dei diritti sociali.

La domanda alla quale provare a dare una risposta è come si ricostruisce la Comunità.

[1] A. de Tocqueville Il pauperismo , a cura di M. Tesini Edizioni Lavoro 1998 Antonetti Il lavoro tra necessità e diritto. Il dibattito sociale nella Francia tra le due rivoluzioni 1830 – 1848 . Ed. Franco Angeli 2004

[2] A. de Tocqueville La Democrazia in Americana ed. BUR 1982

[3] A. de Tocqueville Viaggio negli Stati Uniti Ed. Einaudi 1990

[4] Antologia di scritti politici a cura di V. de Caprariis e n. Matteucci – Tocqueville ed il Mulino 1978 pag. 31

[5] A. de Tocqueville. L’Antico Regime e la Rivoluzione. Ed. BUR 1996 pag. 55

[6] Ibidem nota 5 pag. 56

[7] Ibidem nota 5 quarta di copertina.

[8] Ibidem nota 5 pag. 61

[9] Ibidem nota 5 pag.64

[10] Ibidem nota 5

[11] Ibidem nota 5 pag. 157

[12] Ibidem nota 5 pag. 199

[13] M. Foucault. Nascita della biopolitica. Ed. Feltrinelli 2005

[14] K. Marx Il 18 brumaio di Luigi Napoleone Ed. Riuniti 1980

[15] A. De Tocqueville – Viaggio negli USA ed. Einaudi 1990

[16] W. Withman . Foglie d’erba. Ed. Einaudi 1973

[17] Tocqueville. Antologia di scritti politici a cura di V. de Caprariis e N. Matteucci . ed. il Mulino 1978 pag.235

[18] A. Martone. Le radici della disuguaglianza.Ed. Mimesis  2011 pag.

[19] A. Martone . Le Radici della disuguaglianza . Ed. MIMESIS 2011 pag. 98

[20] M. Stirner . L’unico e la sua proprietà. L’uomo anarchico. Ed. DEMETRA 1996

[21] Ibidem nota 20 pag. 414

[22] Ibidem nota 21 pag. 121

[23] M. Young – L’avvento della meritocrazia ed. Comunità 2014

[24] M.J. Sandel . La tirannia del merito . Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti . Ed. Feltinelli

A . Lavazza – Se il trionfo della meritocrazia porta a una società meno equa.  Su Avvenire.it del 19 maggio  2021

V.Pelligra . La retorica della meritocrazia e la contrarietà agli ideali. Il Sole 24 Ore del 13 settembre 2020.

[25] Ibidem nota 21 pag. 122

[26] Ibidem nota 21 pag. 124

[27] L. Boltanski – E. Chiapello. Il nuovo spirito del capitalismo Ed. Mimesis  2014

[28] M. N. Rothbard. Sinistra e destra: l’evvenire della libertà. Ed Rubbettino 2012

  1. Rothbard . Mercato, Diritto e Libertà.Ed. IBL Libri 2017
  2. Ianniello Etica & Politica / Ethics & Politics, 2003, 2 http://www.units.it/etica/2003_2/IANNELLO.htm Il libertarianism: saggio bibliografico

[29] Ibidem nota 21 pag. 208

[30] A. Martone. Le Radici della disuguaglianza. Ed. Mimesis 2011 pag. 190

[31] C. Castoriadis – C. Lasch . La Cultura dell’egoismo. L’anima umana sotto il capitalismo. Postfazione di J.C. Michéa ed. eléuthera   2014

[32] Ibidem nota 30 pag. 193

[33] Ibidem nota 30 pag. 207

[34] F. Nietzsche. Umano, troppo umano. Volume primo Newton Compton Editori 1979

[35]  J. Delhomme. Nietzsche. Edizioni Accademia 1971  pag. 37

[36]Ibidem nota 34 pag. 44

[37] J. Ortega Y Gasset. La ribellione delle masse ed. il Mulino 1982

[38] F. Nietzsche. Verità e menzogna e altri scritti giovanili. Newton Compton Editori 1981

[39] F. Nietzsche. Sull’utilità e il danno della storia. Ed. Newton Compton.1978 pag. 44 – 45

[40] K. Mannheim . Ideologia e Utopia- ed. il Mulino 1978

[41] M. A, Mariani. Svevo e Nietzsche – Allegoria 59 Anno XXI, terza serie, gennaio – giugno 2009

[42] G. Vattimo Il soggetto e la maschera  Ed.Bompiani 2003

  1. La fine della modernità. Ed. Garzanti 1985

[43] F. Nietzsche . Genealogia della morale.  Scelta di frammenti postumi 1886 – 1887. Ed.  Modadori 1979 pag. 5

[44] A. Smith. La ricchezza delle Nazioni. Ed.  Newton Compton Editori

  1. Economia dei sentimenti. Ed. Donzelli 2011

[45] D. Hume . Ricerche sull’intelletto umano e sui principi della morale. Ed. Universale Laterza 1980

[46]  B. Mandeville. La favola delle api Ed. Hoepli 2011

[47] K. Polayi . La grande Trasformazione. Ed. Einaudi 2000

[48] A. Sen. Etica ed Economia. Ed. Laterza 2006

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