L’imperialismo attuale secondo James Petras

James Petras: Repubbliche sorelle, Venezuela e Colombia di fronte all’imperialismo contemporaneo ( Editore Zambon )

La raccolta saggi di James Petras – Repubbliche sorelle: Venezuela e Colombia di fronte all’imperialismo contemporaneo, Editore Zambon, 2015 – da poco pubblicato, è un’ efficace analisi della situazione politica sudamericana vissuta alla luce delle due principali opposizioni ai progetti imperialisti nordamericani: il Venezuela bolivariano e la guerriglia marxista colombiana.
Gli articoli di Petras, su Venezuela e Colombia, sono impreziositi da tre saggi iniziali in cui l’autore fissa le differenze fondamentali fra (neo)marxismo e (post)marxismo più un documento delle FARC in conclusione. Lo studio del documento finale, “Uno sguardo diverso sulla giustizia di transizione”, è complementare alla comprensione delle categorie sistematizzate da James Petras all’inizio del libro ( da pag. 11 a pag. 45 ). In questo primo contributo sul volume della Zambon, prenderò in esame i saggi analitici introduttivi ed il documento dei guerriglieri, cercando di proporre al lettore un punto di vista marxista che riguardi il metodo di studio dei processi politici e sociali.
Petras in questi testi critica l’ideologia postmodernista che – sulla scia del pensiero di Toni Negri – proclama la fine delle lotte di classe ed antimperialiste; descrive l’imperialismo del ventunesimo secolo; rapporta l’imperialismo al diritto internazionale parlando di ‘’imperialismo legale’’. Insomma ci dà le coordinate per comprendere i motivi – profondi – dell’ostilità statunitense verso Hugo Chavez ed i movimenti di liberazione nazionale in generale. Sul problema della lotta armata antimperialista, l’editore Giuseppe Zambon aveva già pubblicato una raccolta di saggi commemorativi della figura di Manuel Marulanda, padre del movimento rivoluzionario colombiano. In quel caso Petras, con il lungo articolo intitolato “Otto tesi erroree di Fidel Castro e le FARC”, non teme di scontrarsi con una eminenza del mondo socialista; Fidel Castro crede nel processo di pace, Petras non condivide questa fiducia e la riconduce – senza nessun timore o soggezione nei confronti del leader cubano – alla necessità da parte di Cuba di avere, per i suoi interessi nazionali, rapporti diplomatici e commerciali con la Colombia. Una posizione coraggiosa che ci spinge a studiare ( e non semplicemente rileggere ) con attenzione il (neo)marxismo teorizzato nei saggi iniziali di questo libro.
Proseguo per ordine, cercando di presentare non solo il libro ma anche il pensiero di James Petras. Prima di tutto: chi sono i post-marxisti ? I post-marxisti sono ex marxisti che, abbandonata la teoria rivoluzionaria di Marx, ripiegano sull’altermondismo. Un altro mondo è possibile – a loro dire – ma senza conflitto fra blocchi sociali contrapposti e senza violenza. Il tema del potere ( la conquista del potere ), centrale in Marx, Lenin e Guevara, viene messo da parte.
Il loro primo postulato è: il socialismo è stato un fallimento; tutte le ideologie sono totalitarie.
Nonostante la tematica della ‘’fine delle ideologie’’ abbia avuto una grande fortuna accademica, i post-marxisti non chiariscono cosa sia effettivamente fallito: il sistema politico oppure il sistema socioeconomico ? Le ultime elezioni nei paesi dell’est premiano i Partiti comunisti ‘’nostalgici’’ quindi ‘’Se l’opinione pubblica nei paesi ex socialisti segnala un ‘’fallimento’’, i risultati non sono definitivi’’ ( pag. 15 ). Gli elettori hanno dichiarato di volere un welfare più forte, maggiori diritti nel campo sindacale, un ritorno ad alcune politiche dell’esperienza sovietica. Inoltre, molti cittadini dell’ Europa dell’est dimostrano insofferenza verso l’espansionismo della NATO, una politica espansionistica portata avanti in spregio della democrazia e della sovranità popolare. Difficile trovare gente inconsapevole: gli Usa non intendono cessare la ‘’guerra fredda’’ contro la Russia.
In secondo luogo, essi, non distinguono il fallimento politico dalla sconfitta militare. In Cile l’esperimento di Allende è fallito per l’inadeguatezza delle misure economiche, oppure è stato spento nel sangue da un golpe militare appoggiato dalla CIA? Le sconfitte militari non rappresentano l’inadeguatezza del socialismo ma – a dispetto di quello che pensano gli intellettuali di destra – soltanto la brutalità dell’imperialismo del ventunesimo secolo. Arrivati a questo punto – per completezza – ricordo che Petras è stato consulente del governo di Salvador Allende ed è stato uno dei promotori del Tribunale Russel contro i crimini nord-americani in Vietnam.
Petras bolla questi accademici considerandoli degli opportunisti:‘’I post-marxisti confondono i movimenti socialisti, democratici e rivoluzionari dell’America Latina con una fase del socialismo nell’Europa orientale. Confondono le sconfitte militari con i fallimenti politici della sinistra, accettando la fusione neoliberale di due concetti opposti. Infine, anche nel caso del socialismo dell’Est, non colgono la natura cangiante e dinamica del comunismo’’ ( pag. 16 ).
Prima di proseguire voglio portare l’attenzione dei lettori su un punto importante: l’imperialismo – accademicamente ed attraverso i media – ha dato una idea monolitica del socialismo. Il socialismo – da Pol Pot a Castro – viene descritto erroneamente come un unico universo totalitario. Ogni ricetta economica comprendente “statalizzazione” ed “autogestione” è bollata come – potenzialmente – dittatoriale e totalitaria. In realtà sono le dinamiche della conflittualità sociale che spingono le masse a provare – di volta, in volta – modalità differenti di fuoriuscita dal capitalismo. A volte questi esperimenti sono riusciti, sia pure in parte ( Jugoslavia, Cuba, Venezuela ), altre volte no. Ridurre il tutto ad una ‘’notte in cui ogni vacca è nera’’, è il modo migliore per non comprendere la complessità dei processi storico-sociali.
I post marxisti ( ex marxisti ) dicono che ‘’credere nella lotta di classe significa cadere nell’economicismo’’. Per essi la lotta politica comprende le differenze etniche, culturali e di genere all’interno delle classi stesse. Il conflitto in linea ‘’verticale’’ – Imperialismo/Stati indipendenti; Borghesia/Classe operaia– viene sostituito con la conflittualità interna al blocco sociale – conflitti fra gruppi etnici; femminismo; culturalismo – quindi una contrapposizione in linea ‘’orizzontale’’.
Secondo questi studiosi non esistono interessi oggettivi ma solo soggettivi. I diritti degli omosessuali – nei paesi a capitalismo maturo – prendono il sopravvento sulle rivendicazioni sociali e operaie, i diritti delle minoranze etniche – nei paesi coloniali e post-coloniali – si sovrappongono alla difesa dell’indipendenza nazionale. Petras, non a caso, spiegò in altri lavori come, spesso e volentieri, le minoranze etniche sono state trasformate dall’imperialismo statunitense in un ‘’piede di porco’’ per scardinare gli Stati non allineati ai dettati di Washington. Tutto ciò è organico ad un progetto neocoloniale che comprende anche la produzione culturale ed accademica, “colonialismo culturale convenzionale”, per usare le parole del nostro autore in un saggio esterno a questa raccolta.
I marxisti non hanno mai eluso il problema etnico, si sono solo curati di non sovrapporlo a quello di classe; al di fuori di ciò è impossibile cogliere la natura reale dei fenomeni, inquadrarli nella loro storicità e – ovviamente – complessità. Petras fa l’esempio della Bolivia ( potrei aggiungere anche l’Ecuador prima del governo guidato da Correa ) che avrebbe avuto – in base alla sua analisi – un presidente indios al servizio dei proprietari terrieri.
Il concetto di ‘’identità’’ dice Petras ‘’è destinato a trasformarsi in una ‘’prigione identitaria” ( di razza o di genere ), isolata da altri gruppi sociali sfruttati, se non trascende i punti di oppressione immediati e non affronta il problema sociale in cui è calata’’ ( pag. 18 ). La politica di classe – con o contro l’imperialismo ed in particolare quello nord-americano – è il terreno di scontro entro cui ricollocare il discorso delle identità.
Lo smantellamento dello Stato sociale e delle Costituzioni antifasciste ha gettato non solo i lavoratori salariati ma interi popoli ( compresi ampi settori della piccola borghesia ) in una condizione di povertà. Le privatizzazioni, accompagnate dall’ideologia neoliberista delle ONG, hanno aumentato – e non diminuito – la polarizzazione sociale. I pochi marxisti rimasti – a dispetto degli ex comunisti – hanno spiegato questo processo portato avanti dalle classi proprietarie ‘’Oggi la lotta è non soltanto tra le classi nelle fabbriche, ma tra lo stato e le classi sradicate nelle piazze e nei mercati, private di un impiego fisso e costrette a produrre e a vendere sopportando i costi della propria riproduzione sociale’’ ( pag. 20 ).
Il conflitto di classe è la chiave di lettura per orientarsi, assume forme nuove, ma credo che senza il marxismo sia impossibile orientarsi. Non possiamo fare a meno del lascito teorico di Marx e anche di Lenin. La formazione di una classe capitalistica transnazionale, frutto del processo di centralizzazione dei capitali, fa si che il grande capitale statunitense ( essendo gli Usa la principale potenza imperialistica ) riesca ad estorcere plusvalore, non solo agli operai, ma anche ai ceti medi produttivi. Marx, come Lenin ed infine Mao Tse Tung, avevano sistematizzato ( soprattutto Mao ) la ‘’teoria delle contraddizioni’’ che affronta di petto la questione delle alleanze fra ceti differenti. Il postulato imprescindibile dei marxisti resta sempre uno: l’autonomia della classe operaia anche all’interno di un fronte popolare con altre classi.
Petras denuncia la demonizzazione dello Stato . Lo stato viene descritto come una enorme burocrazia inefficiente che ha saccheggiato le finanze pubbliche lasciando la popolazione in miseria e l’economia in bancarotta’’ ( pag. 22 ). Quindi ‘’lo stato’’ viene contrapposto alla ‘’società civile’’ fonte di libertà. Per il grande studioso statunitense questa è ‘’un’immagine monodimensionale dello stato”. E così replica: ‘’Ciò che appare curioso in questa ideologia è la sua peculiare capacità di ignorare cinquant’anni di storia ( latinoamericana ). Il settore pubblico è stato necessariamente funzionale allo stimolo dell’industrializzazione, in assenza di investimenti privati e a causa della crisi economica, cioè della crisi mondiale negli anni Trenta e della guerra negli anni Quaranta. In secondo luogo, la crescita dell’alfabetizzazione e della sanità pubblica di base è stata in gran parte frutto di iniziative pubbliche’’ ( pag. 23 ).
Aggiungo che, in Europa, fuori dallo Stato costituzionale abbiamo conosciuto solo realtà imperiali e imperialiste ( di cui l’ultima è stata il nazismo ). Come non tenere conto di tutto ciò? I post-modernisti, così facendo, accettano solo l’esistenza di un unico super-stato imperialista statunitense. Questo è il punto d’arrivo delle loro teorie errate.
Terminata la parte relativa al post-marxismo, passo a delineare le caratteristiche dell’imperialismo del ventunesimo secolo.

L’imperialismo del XXI secolo

James Petras, in primo luogo, ci dà una definizione di imperialismo: ‘’L’imperialismo consiste nel dominio politico, nello sfruttamento economico e nella penetrazione culturale esercitati tramite la conquista militare, la coercizione economica, la destabilizzazione politica e movimenti separatisti e per mezzo dei collaborazionisti interni’’ ( pag. 25 ).
Lenin – come molti sapranno – polemizzando con Kautsky chiarisce in “Imperialismo, fase suprema del capitalismo”, che l’imperialismo non è una politica di governo ma uno stadio dello sviluppo capitalistico. L’economia capitalistica, di per sé “anarchica” ed ingestibile, in questo modo compromette la sovranità delle nazioni. Il saccheggio delle risorse e l’estorsione del plusvalore implicano nello stesso tempo il superamento ( e l’aggravamento ) del vecchio colonialismo.
Petras sostiene che i ‘’meccanismi’’ con cui vengono incrementati i ‘’profitti globali’’ vanno ben oltre lo sfruttamento delle colonie ma coinvolgono anche la vecchia Europa. Oggi i bianchi ( statunitensi ) colonizzano i bianchi ( europei ). Il testo di Petras fissa delle categorie entro cui si colloca l’imperialismo del ventunesimo secolo. Queste sono: (1) il saccheggio dei paesi europei debitori (vera novità storica ); (2) il crimine come fase suprema della costruzione degli imperi; (3) centralità dei collaborazionisti. Inizio col trattare questi tre concetti. Il filo conduttore – che condivido parola per parola è il testo di Petras.

(a) Il saccheggio imperiale dei paesi europei debitori

Il più grande furto della storia, il trasferimento di ricchezza dagli operai ed impiegati alla borghesia europeista, è la cosiddetta ‘’crisi del debito’’. Si tratta di una evidente truffa ad opera del grande capitale contro il mondo del lavoro: ‘’lo stato e il tesoro pubblico sono divenuti una delle fonti essenziali di accumulazione del capitale, profitti corporativi e ricchezza privata’’ ( pag. 26 ).
Il crack degli investimenti speculativi è stata la scusa attraverso cui il FIRE – Finance, Insurance and Real Estate – ha estorto miliardi di dollari direttamente ai contribuenti. Come, nello specifico, è avvenuta questa rapina? Lo studioso nord-americano risponde così ‘’L’elemento centrale di questa nuova struttura di saccheggio imperiale è stata l’azione degli stati imperiali per conto del capitale finanziario, immobiliare e assicurativo dell’Unione Europea e del Nordamerica’’ ( pag. 27 ).
Tutto questo ha creato un sistema perfetto di arricchimento che mai si sarebbe realizzato se i diktat finanziari imperiali non fossero stati appoggiati e applicati dalla classe politica collaborazionista locale sia conservatrice che liberale o socialdemocratica. Importante è stato, oltretutto, il ruolo dei giornalisti asserviti e degli accademici opportunisti che – come spiegavo precedentemente – hanno dato copertura ideologica a tale processo.

(b) Il crimine come ‘’fase suprema’’ della costruzione degli imperi

L’accumulazione capitalistica condotta dalla finanza speculativa conduce a tre tipologie di crimini: (1) le truffe di miliardi di dollari perpetrate dalle grandi banche d’affari statunitensi implicano la ‘’manipolazione del tasso d’interesse interbancario LIBOR’’, con cui vengono venduti sottocosto azioni e titoli sottratti ai fondi pensionistici ed ai risparmi degli investitori; (2) complementari alle frodi e alle truffe ci sono i miliardi di dollari ottenuti dalle banche col riciclaggio di guadagni illeciti; (3) i profitti e la ricchezza totale del capitale imperiale sono ingrossati da ingenti flussi internazionali di capitali illegali provenienti dai ‘’paesi in via di sviluppo’’.
Petras avverte che ‘’E’ chiaro che dobbiamo tenere conto della sistematica trasformazione criminale del capitale quale elemento centrale del processo di riproduzione del capitale stesso’’ ( pag. 29 )

In poche parole – tirando le somme – siamo passati dal capitalismo borghese ( proprietario ) ad una nuova forma di sfruttamento classista in cui la speculazione finanziaria ha un ruolo fondamentale. In questo modo al conflitto borghesia/proletariato si aggiunge, anche, il conflitto Imperialismo nordamericano ( in cui risiedono i centri della finanza mondiale )/Stati indipendenti e non allineati.

(c) L’imperialismo e il ruolo centrale dei collaborazionisti ‘’interni’’

La costruzione degli imperi contemporanei poggia su reti complesse di collaborazionisti. Gli Usa, come Gran Bretagna, Francia ed Israele hanno installato basi militari, finanziato gruppi neonazisti, addestrato i mercenari di Al Qaeda, pur di fronteggiare i movimenti antimperialisti. Questi comandi militari sono guidati da contingenti mercenari reclutati in varie parti del mondo ‘’Senza questi collaborazionisti mercenari, i politici imperiali dovrebbero fronteggiare un maggiore opposizione interna suscitata da perdite tra i loro soldati e spese militari più elevate’’ ( pag. 30 )
Il saccheggio delle risorse e la competizione fra le borghesie occidentali hanno portato alla formazione di nuove alleanze strategiche, nuovi movimenti reazionari e nuovi Stati clienti retti da governi di destra. Per James Petras ‘’L’imperialismo occidentale, oggi più che mai, dipende dalla creazione e dal mantenimento di regimi collaborazionisti – politici, ufficiali militari, elite degli affari – incaricati di aprire i propri paesi al saccheggio, trasferire ricchezza nelle centrali finanziarie imperiali e reprimere qualunque opposizione popolare’’ ( pag. 31 )
In Europa, le istituzioni dell’Unione Europea, dipendono da politici neoliberisti piegati al volere di Washington. Non esagero se dico che gli Stati capitalistici europei si muovono su procura degli Stati Uniti, i rapporti tributari vanno sempre a vantaggio del gendarme yankee. Credo che, giorno dopo giorno, questa subordinazione emerga in modo sempre più chiaro.

Quale ruolo per il sionismo ?

James Petras, già in precedenza, aveva dimostrato in Usa: padroni o servi del sionismo? ( Editore Zambon, 2007 ) come la lobby sionista statunitense condizionasse fortemente le politiche dell’imperialismo americano. Questa sua posizione è stata confermata anche dal giornalista britannico Alan Hart nel primo volume ( Il Falso Messia ) di Il Sionismo, il vero nemico degli ebrei ( Cap. 12, Il ‘’suicidio’’ Forrestal ). Nel saggio, “L’imperialismo del XXI secolo, militarismo, collaborazionisti e resistenza popolare”, non fa altro che confermare tutto ciò e lo fa con la solita prontezza di analisi. Leggiamo: ‘’La subordinazione della potenza imperiale degli Stati Uniti a uno stato piccolo, economicamente insignificante e isolato come Israele non ha precedenti nella storia mondiale, così come il fatto che cittadini statunitensi che tributano la propria fedeltà anzitutto a Israele si siano assicurati posizioni politiche strategiche nella struttura di potere dello stato imperiale, tra cui l’esecutivo ( la Casa Bianca ), il Pentagono, il Dipartimento di Stato e il Congresso’’ ( pag. 33 ).
Il nostro parla della capacità della borghesia sionista di sfruttare la potenza imperiale nord-americana facendo il gioco della elite militare israeliana. Sono stati i tecnici filoisraeliani, non a caso, ad elaborare la teoria della ‘’guerra globale al terrore’’.
Petras ribadisce che ‘’gli attori politici sionisti hanno svolto un ruolo dominante nel portare gli Stati Uniti alla guerra conro l’Iraq, in passato potente sostenitore dei palestinesi e strenuo oppositore dell’espansione coloniale israeliana in Palestina’’ ( pag. 34 ). Mai nella storia mondiale la politica di uno Stato imperialistico di primo piano è stata asservita alle ‘’richieste tributarie’’ ed ‘’aspirazioni coloniali’’ di uno Stato di secondo piano. Questa anomalia è parte integrante della materia che stiamo approfondendo.
Il rapporto Usa – Israele – in conclusione – è un rapporto di dipendenza reciproca: Israele inserisce uomini chiave nella nuova classe capitalistica trasnazionale, condiziona le scelte economiche delle borghesie statunitense ed europea, dall’altra parte gli Usa gli forniscono appoggio militare. Gli Usa necessitano dell’appoggio politico dei falchi israeliani; Israele necessita dell’appoggio militare dei neoconservatori yankee. Potremmo definire tutto ciò come Diarchia Imperiale Usa – Israele. Chi ne paga le spese ? Ovviamente i popoli e la ormai dimenticata classe operaia di tutto il mondo.

‘’Imperialismo legale’’ e legge internazionale

La legalità dell’imperialismo nord-americano si basa sull’attività di giuristi ed esperti di diritto ( giurisprudenza internazionale ) ad esso asserviti. I loro pareri vengono presentati come ‘’legislazione internazionale prevalente’’ quindi giustificano l’intervento imperiale e gli fanno da copertura ideologica.
Nel diritto borghese internazionale non vige il ‘’principio di giustizia’’ ( per utilizzare le parole del giurista liberale Hans Kelsen ): le ragioni della elite nord-americana ( ed israeliana ) prevalgono sulle Costituzioni per il semplice motivo che hanno dalla loro la forza bruta. Non è un caso che la legislazione internazionale, nella misura in cui è efficace ( sottolinea Petras ), viene applicata soltanto alle potenze più deboli e ‘’ai regimi designati come ‘’violatori’’ da parte delle potenze imperiali’’. Il nostro attacca i giuristi pro-imperialisti con efficacia ‘’La legislazione internazionale può al massimo fornire un giudizio ‘’morale’’, una base non irrilevante per il rafforzamento delle rivendicazioni politiche dei paesi, regimi e popoli che cercano giustizia contro i crimini di guerra imperiali e il saccheggio economico’’ ( pag. 40 ).
L’analisi storica ci dice che gli imperi nascono attraverso l’utilizzo della forza ( impero persiano; cartaginese, romano … ) ma per il loro ‘’mantenimento’’ e ‘’consolidamento’’ richiedono un ‘’quadro legale’’. Per Petras ‘’la legalità è in realtà una prosecuzione della conquista imperiale con altri mezzi’’, anche la forza borghese più feroce necessita di ‘’una facciata di legittimità a beneficio del mondo esterno’’, condizione necessaria per attirare ‘’classi e individui collaborazionisti’’, creando le basi ‘’per il reclutamento di personale locale militare, giudiziario e di polizia’’. Tutto ciò fa si che la legislazione imperiale sia applicata in modo selettivo solo ai nemici dell’imperialismo statunitense che, di tale produzione, ha il monopolio.
Il diritto, come afferma Lenin in Stato e rivoluzione, resta uno strumento di classe: ‘’I funzionari giudiziari non sono soltanto ‘’strumenti’’ di poteri politici ed economici imperiali strettamente correlati; essi strumentalizzano i funzionari di altri rami del loro stesso governo imperiale e di settori economici, in alcuni casi passando sopra alle loro decisioni. I giudici che hanno legami con specifici settori finanziari possono deliberare a favore di un gruppo di creditori, danneggiandone così altri’’ ( pag. 42 ).
La ‘’dottrina legale imperiale’’ ha svolto un ruolo centrale nel giustificare il terrorismo internazionale, promuovendo attivamente politiche a vantaggio della borghesia nord-americana. Petras ricorda agli sprovveduti che ‘’La legge non è semplicemente parte della sovrastruttura che ‘’rispecchia’’ il potere di istituzioni economiche o politiche: essa guida e indirizza le istituzioni politiche ed economiche nello stanziamento di risorse materiali per l’implementazione delle dottrine imperiali’’ ( pag. 44 ).
In questo modo il diritto, volente o nolente, diventa una puntella del neo-imperialismo. Un vero e proprio piede di porco nelle mani del gendarme statunitense.
Le FARC e il problema della ‘’giustizia di transizione’’
L’ultima parte del libro di Petras ( pag. 181 – 204 ) è arricchita da un documento della guerriglia rivoluzionaria delle FARC. Per prima cosa – prima di cedere la parola ai guerriglieri – è bene spiegare chi sono le FARC. ‘’Le FARC – spiega Petras – sono una organizzazione rivoluzionaria, marxista e bolivariana, che difende le bandiere delle classi oppresse dal regime’’ ( pag. 182 )
Una citazione illuminante ( cit. ‘’rivoluzionaria, marxista e bolivariana’’, mettendo la parola ‘’bolivariana’’ in evidenza ) che mi porta a riaffermare un punto importante: per comprendere le modalità di lotta proprie di una organizzazione (neo)marxista è necessario smantellare l’apparato ideologico del post-marxismo. Questa è la ragione per cui ho provato ad offrire al lettore uno studio di metodo riguardante i primi saggi del libro di Petras, testi complessi e di non facile lettura. Senza una conoscenza adeguata degli scritti sopra elencati non è possibile capire come oggi la questione della lotta di classe si compenetri con quella dell’indipendenza nazionale. La ‘’giustizia di transizione’’ di cui parlano i rivoluzionari colombiani riguarda il passaggio da un regime clientelare ad uno Stato sociale dinamico. Possono, nel 2015, le classi dirigenti capitalistiche, in Europa come nelle colonie, risolvere il problema dell’indipendenza nazionale? Chi scrive lo esclude fermamente.
L’analisi proposta è l’antitesi di ciò che il post-marxismo stile Toni Negri propone da anni. In una società globalizzata, la rapina ed il saccheggio degli Stati poveri da parte delle nazioni ricche, è una costante. Nel documento leggiamo che ‘’L’ordine internazionale esistente, nonostante tutte le sue formalità di legge e i bellissimi principi, non stabilisce l’uguaglianza e il rispetto di tutte le nazioni e di tutti i popoli, ma l’aperto dominio e l’impunità di alcuni Stati rispetto ad altri’’ ( pag 182; pag 183 )
L’attuale ordine – o disordine – è il prodotto della seconda guerra mondiale e della scomparsa dell’Urss ( dicono i guerriglieri ). Se da un lato l’Urss è stata un ‘’gigantesco potere alternativo’’ al capitalismo, con la sua fine ‘’il nostro pianeta è stato completamente esposto ai padroni del capitale’’. L’imperialismo statunitense, nel 1991, dopo 50 anni di guerre dirette o per procura, ‘’cancella’’ il pericolo di una rivoluzione mondiale.
Poco dopo leggiamo una breve analisi dell’edificio statale borghese: ‘’L’edificio giuridico borghese è stato costruito sulla base del punto di vista idealistico che tutti gli uomini sono uguali davanti alla legge, hanno gli stessi diritti e doveri nei confronti della società e dello Stato. La realtà materiale era completamente diversa. Una classe di proprietari aveva ricchezza sproporzionata in abbondanza, mentre la stragrande maggioranza affondava nel bisogno. Trattarle come uguali voleva dire sancire giuridicamente disuguaglianza e dominio sui deboli da parte dei forti. Si è imposto il primato dell’apparenza formale sulla verità reale’’ ( pag 184 ).
L’ ‘’imperialismo legale’’ di cui parla Petras è la proiezione internazionale di ciò che qui, in queste poche righe, viene descritto in rapporto ad una realtà nazionale. La lotta di classe internazionalista fra l’imperialismo statunitense ed i paesi coloniali, molte volte, ha unito i lavoratori alla propria borghesia nazionale. Si deve, in caso di aggressione imperialista, difendere la Siria baathista? Lo studio di Petras ci aiuta a rispondere positivamente a questo quesito che – dall’altra parte – ha smascherato il marxismo dogmatico ( speculare al post-marxismo ).
Le FARC, come era prevedibile, rivendicano l’eredità di Chavez: Chavez è, per loro, un rivoluzionario e un antimperialista demonizzato dai mass media occidentali. Il motore dei processi sociali ( compresa la Rivoluzione bolivariana in Venezuela ) è la lotta di classe, l’eroismo degli operai e dei contadini che fanno a pezzi il mito statunitense della ‘’fine della storia’’.
Il documento mette in mostra il ruolo degli intellettuali opportunisti, gli accademici asserviti che ‘’Si dedicarono a imbastire nelle proprie università e centri di pensiero le più ricercate interpretazioni circa il significato dei diritti umani e le loro violazioni, giungendo al punto di saturare l’ambiente accademico con le più avventurose teorie’’ ( pag. 190 )
L’Università di Harvard diventa il laboratorio dell’impero in cui vengono sistematizzate le dottrine post-marxiste e neoliberiste, un vero e proprio ‘’corpo teorico di dimensioni universali, con succursali e agenzie in tutto il mondo, fondazioni e corporazioni private’’.
In Colombia, l’imperialismo si trova costretto a trattare, essendo stato messo con le spalle al muro. Le FARC riusciranno a far valere le proprie ragioni ? James Petras – come chi qui recensisce il libro – è molto scettico. Del resto Petras proprio in un saggio della raccolta – Colloqui di pace all’Avana e omicidi in Colombia: la doppia strategia del regime di Santos – ci comunica come i gruppi paramilitari neonazisti siano tutt’altro che disarmati. Lo stesso problema, con modalità differenti, lo ritroviamo in Venezuela: Maduro può trovare un accordo con la borghesia neofascista? Eppure – si legga il saggio Sconfiggere il fascismo prima che sia troppo tardi – il PSUV ha l’appoggio popolare affinchè si radicalizzi il processo rivoluzionario espropriando, nuovamente, ampi settori della borghesia compradora.
Il libro sottintende un grande monito: ‘’Chi compie una rivoluzione a metà si scava la fossa da solo’’. La frase è di Saint Just e Petras, pagina dopo pagina, sembra volerla suggerire ai dirigenti rivoluzionari venezuelani e colombiani e, forse, la rammenta anche a noi, chiamandoci ad un sostegno più genuino, e meno strumentale, delle rivoluzioni in corso. La posto in gioco è alta.

12 commenti per “L’imperialismo attuale secondo James Petras

  1. armando
    2 novembre 2015 at 16:44

    leggo all’inizio del lungo e interessante articolo:
    ” Petras, non a caso, spiegò in altri lavori come, spesso e volentieri, le minoranze etniche sono state trasformate dall’imperialismo statunitense in un ‘’piede di porco’’ per scardinare gli Stati non allineati ai dettati di Washington. Tutto ciò è organico ad un progetto neocoloniale che comprende anche la produzione culturale ed accademica, “colonialismo culturale convenzionale”, per usare le parole del nostro autore in un saggio esterno a questa raccolta.
    I marxisti non hanno mai eluso il problema etnico, si sono solo curati di non sovrapporlo a quello di classe;”
    Credo invece che il problema etnico sia stato sottovalutato, se non in linea teorica sicuramente in quella concreta. Stalin scrisse sul problema delle nazionalità, ma poi in Urss ci furono deportazioni di interi spezzoni di popolazione.
    D’altra parte, così non fosse non si spiegherebbero i tentativi riusciti degli USa di stravolgere quelle spinte a loro favore, ovviamente illudendo i popoli di poter avere maggiore libertà sotto il dominio del capitale.
    Ora, quella sottovalutazione dipende, è una mia opinione, dall’ideologismo (o anche dall’eccesso di razionalismo) del marxismo che, partito dalla struttura (rapporti di produzione e lotta di classe), lì si ferma troopo spesso, credendo di poter riunficare le cultuire dei popoli e le etnie sotto l’ombrello omnicomprensivo del socialismo, ma con ciò sottovalutando la loro forza. Come ha fatto con le religioni, d’altronde.Le etnie e le culture dei popoli, coi loro miti di fondazione, sono ciò che vive nei popoli e fa vivere i popoli, rappresentandone un cemento forte, ancestrale e archetipico, più ancora della lotta di classe. Non lo dico io, lo registra la storia. Altrimenti non si spiega l’esplosione e la molecolarizzazione di ogni esperienza del socialismo in paesi multietnici (dalla Yugoslavia all’Urss). E’ verissimo che la questione nazionale non può essere risolta dal e nel capitale, ma è anche vero che nessun Stato può resistere a lungo se sottovaluta o non valorizza come dovrebbe le diverse etnie e culture presenti nel suo seno. Cosa che, evidentemente i paesi a socialismo reale non hanno fatto, e nemmeno quelli che si sogliono definire i nazionalismi arabi. Non si tratta però solo di scelte politiche tattiche, diciamo così, che verrebbero alla luce ben presto nella loro insincerità, ma di convinzioni profonde. Non è scritto da nessuna parte che la valorizzazione delle culture diverse porti allo scontro ed alla contrapposizione fra i popoli anzichè all’incontro fecondo sulla base del rispetto di ciascuna di esse. La lotta di classe non cessa per questo, ma almeno in questa lunga fase storica (dopo non so, vedemo o vedranno) tenderei a rovesciare l’assunto che la lotta fra le classi sia la chiave principe di comprensione della realtà dei fenomeni sociali.

    Insomma, ” La politica di classe – con o contro l’imperialismo ed in particolare quello nord-americano – è il terreno di scontro entro cui ricollocare il discorso delle identità.” oppure oggi, “è il terreno delle identità, con o contro l’imperialismo etc, è il terreno di scontro entro cui ricollocare il discorso delle classi?”

    D’altra parte cosa significa che ” In questo modo al conflitto borghesia/proletariato si aggiunge, anche, il conflitto Imperialismo nordamericano ( in cui risiedono i centri della finanza mondiale )/Stati indipendenti e non allineati.” ?
    Aggiungere mi sembra un termine che non riesce a spiegare fino in fondo come quei conflitti si intrecciano e quale sia la contraddizione oggi prevalente. Voglio dire che il conflitto di classe all’interno di un paese indipendente e non allineato, come si dovrebbe posizionare rispetto al conflitto con l’imperialismo se non con una alleanza stretta con quella parte di borghesia anch’essa conflittuale con le rapine imperialistiche, ovvero con le borghesie interne ai paesi imperialsitici che hanno sposato il progetto del capitale?
    Ma su questo intreccio si inserisce anche il problema delle etnie, perchè come dicevo prima nessun Stato indipendente può riuscire a resistere se non si pone come spazio non dico unificante ma nel quale possano convivere le diverse culture che lo compongono, con le loro tradizioni etc. etc. , in ognuna delle quali esiste a sua volta una diversificazione di classe.
    In ogni caso, e so bene che la mia non è un’impostazione classicamente marxista nel senso della lettura del rapporto struttura sovrastruttura o meglio ancora del significato da attribuire ai due termini, occorre dire che le concezioni negriane delle così dette moltitudini sono perfettamente funzonali alla penetrazione culturale del capitale, significando in ultima analisi l’accettazione della sua egemonia unificatrice come condizione per la rivoluzione, la quale in questo modo immancabilmente non si realizzerà.

  2. stefano
    2 novembre 2015 at 19:59

    Concordo ,in toto,con Petras.Soprattutto,quando evidenzia ,il ruolo nefasto del post marxismo,che cerca,invano,di negare la feroce guerra di classe ,del capitale finanziario contro i diritti economici e sociali dei lavoratori,dei cittadini e dei popoli,attaccati nelle loro risorse materiali,come nella loro sovranità’ politico-statuale!!!!

  3. Animus
    3 novembre 2015 at 11:31

    > Un altro mondo è possibile … ma senza conflitto fra blocchi sociali contrapposti e senza violenza .. la conquista del potere … viene messo da parte.
    Il loro primo postulato è: tutte le ideologie sono totalitarie.

    Ed hanno ragione, maledettamente ragione.
    Non sono esperto in “marxismi” (post,neo,ortodosso,etc) , ma un punto problematico, una problematicità, rispetto alle suddette teorie economiche e sociali (e il loro fallimento avvenuto o a venire) , credo cmq di poterlo sollevare.

    >i post-marxisti non chiariscono cosa sia effettivamente fallito: il sistema politico oppure il sistema socioeconomico ?

    Domanda sciocca, che rimane all’interno di un circolo vizioso (l’uovo o la gallina?) senza soluzione…

    Ritengo, che il fallimento delle teorie socialiste, sia dovuto al fatto che la prassi politico/economica, non è stata accompagnata (e preceduta) da un cambiamento di morale, che richiede un certo tempo (prob. qualche secolo) per essere interiorizzata psicologicamente.

    Mentre loro, hanno agito sulla sovrastruttura (per cambiare la struttura, seee…), utilizzando, gli stessi mezzi (liceità della forza/armi/sopprusi) e dunque usando la stessa morale dominante: il furto, violenza, etc,etc…

    Con la differenza che qui gli attori sono invertiti (il dominanto sul dominante).
    Ma la morale è, che se non cambia la morale … non cambia nulla.

    .
    See….

    • Animus
      3 novembre 2015 at 12:04

      >Mentre loro, hanno agito sulla sovrastruttura (per cambiare la struttura, seee…)

      Scusate, pensando alle inversioni (delle inversioni), alla fine, ho invertito anch’io… 🙂

      Alla base non c’è la struttura (i rapp. economici) ma la “sovrastruttura” (è qui che le teorie marxiane, secondo me, cadono in errore).

      Certo che i rapp. di produzione determinano l’ideologia, ma ciò che è veramente fondante, che sta ancora sotto i rapp. economici, è la morale, che da un certo punto di vista, essendo “immateriale”, si presta per essere assimilata all’ideologia.
      Da cui, la confusione.

  4. Armando
    3 novembre 2015 at 13:49

    Meno male che ti sei corretto. Stavo già artigliandoti! Rimane però in sospeso, almeno per me, cosa voglia dire cambiamento di morale, che starebbe sotto ai rapporti di produzione. So che sei alieno dal dare spiegazioni, ma questa volta proprio ci vuole, per metetrci tutti in grado di discutere con te.

  5. Animus
    3 novembre 2015 at 16:49

    Iniziamo col dire che, uno, non faccio distinzione tra morale ed etica (c’è chi la fa), mentre i due termini li uso come sinonimi.

    Due, non “idee perfettamente chiare e distinte” su concetti così “sfuggenti”…diciamo che seguo più delle intuizioni maturate col tempo, che sono come un faro nella notte che da lontano serve più ad indicare quali sono le direzioni sicuramente sbagliate, piuttosto che l’esatto punto in cui la nave approderà..

    La sfida che però dovrebbero raccogliere i marxisti, roba da intellettuali certo, e di provare a distinguere nella “loro” “sovrastruttura” cosa rientra nell’ideologia (che dunque segue dalla struttura) e cosa fa parte della morale (che dunque la precede).
    Se non ci riescono, o arrivano a concludere che la “morale non esiste” (cioè al di fuori di struttura – rapp. materiali/economici- e sovrastruttura ideologica non c’è nient’altro perché la teoria è completa così), non mi stupisco che poi i frutti siano quelli che sono…

    Personalmente, per me la “morale” più che un insieme di norme, regole, divieti, etc, etc, è qualcosa che, prima di tutto, ha a che fare “con certi sentimenti originari” (nicce docet) e come conseguenza, con una specifica “visione del mondo”.

    Quando un falegname ed un poeta entrano in un bosco, non vedono lo stesso bosco/mondo.

    Il primo vi vede tante assi, sedie e tavoli, un mondo da depredare e dominare “fatto per lui” … l’altro no, la bellezza che vi coglie è superiore all’utilità che potrebbe trarne dalla sua “distruzione”, non affatto diversa, moralmente, dal sacrificio religioso (e dalla vis. del mondo data dalla religione).

    Questo, secondo me, per dire che l’unica rivoluzione possibile è quella culturale/interiore, quella che serve ad agire sulla coscienza (sensibilità e senso estetico).
    Se questo “lavoro” non viene fatto, ripeto, si misura in secoli, non in anni, le “buone intenzioni” (banale vendetta, e anche mal celata) serviranno sempre e solo a produrre, più che paradisi … inferni.

    Ma in fondo, diciamoci la verità, a chi interessa lasciare un mondo migliore dopo la propria morte?
    Si muore male, ancora peggio.
    Meglio andarsene sapendo che il mondo che si lascia andrà peggio, sempre peggio.
    La si abbandona con più serenità, con meno angoscia.
    Ops, ma un attimo, qui stiamo parlando d’ideologia o di morale?

    Sicuramente di cose troppo “sottili”, troppo sfuggenti per gente che sa fare solo di conto e sa maneggiare soltanti “questioni economiche”…

    Secondo, bisognerebbe chiarire che cos’è il bene e il male, sono soggetti – nel senso, invertendo le loro posizioni all’interno di una stessa morale, si inverte anche il bene e il male- o sono entità INDIPENDENTENTI DAL SOGGETTO?
    Secondo me dovrebbero essere indipendenti dal soggetto (pur non credendoci troppo)
    Perché in quel caso sono attori della stessa morale, e continuano a perpetuarla, dove uno occupa il posto che prima occupava l’altro, come infatti vediamo che accade, quando accade, se il sistema (morale) era marcio prima, i “rivoluzionari” che prendono il posto di quelli ceh hanno scalzato, non fanno altro che rivelare quelle che erano le loro intenzioni nascoste: scalzare gli altri per mettersial posto loro.

    Una morale “come si deve”, dovrebbe evitare questo, come qualunque altro, “conflitto d’interesse”.
    Vabbè, mi fermo perché mi pare d’aver scritto pure troppo… che ne dici Arma’?

    • Fabrizio Marchi
      3 novembre 2015 at 18:13

      Va bè, siete andati molto fuori tema e comunque ben oltre il senso dell’articolo che era di natura squisitamente politica e voleva dare un’interpretazione del moderno imperialismo…
      Comunque, se avrò tempo e voglia, interverrò. Se non lo farò non sarà perché considero il dibattito poco interessante ma solo, ripeto, per questioni di energie e tempo. Fra L’interferenza e UB sono ipersollecitato e se dovessi ogni volta rispondere a tutti quelli che mi tirano da una parte o dall’altra dovrei stare H 24 davanti al pc solo per rispondere a tutte le sollecitazioni che mi arrivano su face book. Se dovessi ora mettermi a scrivere di etica, morale, struttura e sovrastruttura, dal momento che non ho neanche il dono della sintesi, dovrei scrivere non per ore ma per giorni.
      Devo razionalizzare e razionare le energie e preferisco utilizzarle per scrivere articoli che raggiungono un numero molto maggiore di lettori piuttosto che commenti.
      Sono certo che capirete.
      P.S. una sola cosa al volo per Animus: quando scrivi “Quando un falegname ed un poeta entrano in un bosco, non vedono lo stesso bosco/mondo”, in qualche modo una prima risposta te la sei data. Perché uno fa il falegname e l’altro il poeta? Cosa ha determinato il fatto che uno faccia un determinato mestiere e l’altro possa permettersi addirittura di non lavorare ma di poetare? Questa differente condizione non condiziona anche la loro coscienza e il loro modo di interpretare ed approcciare il mondo? E non potrebbe determinare anche la “loro” morale”, sempre ammesso che sia veramente la loro e non l’abbiano interiorizzata dalle sovrastrutture dominanti?
      Ciò detto, chi scrive non condivide in toto l’assunto marxiano per il quale sono sempre le condizioni materiali a fare la coscienza. Esiste anche la hegeliana coscienza infelice di cui anche Marx che era un piccolo borghese e ancor più Engels che era un alto borghese, erano provvisti (quindi erano la dimostrazione vivente dell’intuizione hegeliana).
      Questo per dire che nessuno può ritenersi al di fuori di certi meccanismi, vale anche per i nicciani più spinti, cioè per coloro che negano qualsiasi idea di etica o di morale (o di coscienza) e riducono il tutto alla sola volontà di potenza in se e per se (c’è anche questa nello scibile umano, sia chiaro, mai negato, anzi…)…
      Poi è ovvio che ogni filosofo ha messo l’accento sulla propria interpretazione del mondo e ciascuno ha messo un pezzo o un pezzettino di verità (a seconda dei punti di vista di ognuno di noi) nella propria teoria.
      P.s. 2 “Sicuramente di cose troppo “sottili”, troppo sfuggenti per gente che sa fare solo di conto e sa maneggiare soltanto “questioni economiche”…(Animus).
      Se la critica è rivolta a Marx e ai marxisti, è come minimo, e sottolineo, come minimo, ingiusta, se non profondamente errata. Da Lukacs a Bloch, da Gramsci a Marcuse, da Adorno a Sartre, da Horkeimer a Korsch e così via tanti altri compresi gli italiani Labriola, Mondolfo, Tronti, Pasolini, Barcellona e Preve (e ne ho omessi molti…), c’è stato un fiorire di pensatori marxisti che hanno indagato i più diversi e disparati aspetti della realtà e non certo solo quelli economici…

      • Animus
        3 novembre 2015 at 20:43

        >Se la critica è rivolta a Marx e ai marxisti, è come minimo, e sottolineo, come minimo, ingiusta, se non profondamente errata. Da Lukacs a Bloch, da Gramsci a Marcuse, da Adorno a Sartre, da Horkeimer …

        Lo so, caro Fabrizio, anche se non sono esperto di marxismi, ciò non toglie che qualche testo l’ho letto, così, L’uomo a una dimensione, Dialettica dell’illuminismo e Minima moralia, ad es., i primi che mi vengono in mente, fanno parte della mia libreria, dato che se i testi economico/sociali li trovo decisamente indigesti (oltre che inutili), quelli della scuola di Francoforte sono invece anche interessanti.

        Io infatti volevo dire un’altra cosa, e così vengo subito all’ obiezione che mi hai mosso, e che anche quando i marxisti si spostano dal’analisi prettamente socio-economica per andare su quella psicologica-morale, è come se ci riuscissero solo a metà.

        Ne ebbi la netta sensazione quando, in un periodo, leggevo una sera un testo di nicce (ora non ricordo quale) ed un altro uno di questi (forse minima moralia o dialettica).

        Beh, io sono di parte e tu lo sai, ma dopo qualche giorno di lettura, di entrambi, mi apparve chiarissimo che tra la profondità psicologica dei due, non c’era paragone… 🙂

        Possiamo dire che questo è un limite insuperabile del marxismo (e dei marxisti)?
        Non lo so, non mi spingo a tanto, certo non si può approfondire tutto, ogni disciplina ha degli argomenti che gli competono a pieno, e altri meno ..

        Certo, se si ritengono importanti , vanno integrati da altri “approcci”.

        Tornando alla tua obiezione, e concludo, ad es. se prendiamo il concetto di alienazione del marxismo (e quello connesso di reificazione, io ad es. lessi tempo fa un testo di Axel Honneth, sempre di Francoforte), troviamo che si è alienati dai frutti del proprio lavoro, oppure si è alienati/reificati perché ridotti “ad ingranaggio di una catena di montaggio”, insomma, sempre perché sfruttati, ma non troviamo da nessuna parte (poi magari mi puoi correggere) che è il lavoro in sé, indipendentemente dalla condizione sociale e di sfruttamento di chi lo produce, ad alienare l’uomo dalla sua coscienza e ad imbruttirlo!

        E qui, l’accesso (solo l’entrata a dire il vero) a questa verità fondante, la troviamo nella religione ad es., il lavoro come espiazione/castigo per una colpa, ma nel marxismo….

        • Fabrizio Marchi
          3 novembre 2015 at 20:58

          Si, ma allora la stessa identica critica può essere mossa specularmente a Nietzsche (o ad altri)…e cioè che lui si occupa “solo” di morale” e tralascia tutto il resto…
          E’ come dire a Wittgenstein che si è occupato solo di linguaggio, a Platone solo di Iperuranio e via discorrendo…
          Anzi, le varie scuole di derivazione marxista sono forse quelle che complessivamente hanno avuto un arco di indagine fra i più ampi rispetto ad altre…Come dicevo, è del tutto ovvio che ciascun filosofo o ciascuna corrente focalizzi la sua attenzione su alcuni aspetti piuttosto che su altri.
          Anche il sottoscritto, ad esempio, si è ormai fatto la fama di uno che si occupa prevalentemente di femminismo, questioni di genere ecc.
          Non è vero affatto, ho molti altri interessi e chi mi segue ben lo sa e anche questo giornale lo conferma, e proprio perchè avevo anche altri interessi decisi di fondarlo e metterlo in rete. Però il marchio te lo appiccicano e non ci puoi fare nulla…

          • Animus
            4 novembre 2015 at 9:52

            >Si, ma allora la stessa identica critica può essere mossa specularmente…

            Sì. ma gli altri non volevano ricreare il paradiso terrestre…
            “Volavano un po’ più basso”, quantomeno non oltre l’altezza delle loro “stature”. (che sappaimo, erano giganti!)

            Invece, se guardo a chi ha questa ambizione (quanto meno dice di..), e poi non mi sa distinguere tra ideologia (falsa coscienza) e “morale” (pulsioni originarie/coscienza vera), tra l’originato/creato e l’originario (se non come “tabula rasa”), allora capisci bene, che, novelli icaro, forse stanno volando troppo, troppo alto: li seguiamo, cadiamo, ci facciamo male, ci rialziamo.
            Nuovi profeti, altre speranze, altra cadute.

            Che l’unico profeta vero allora, visti questi, sia “quell’altro”, a cui non vogliamo credere e da cui ci siamo allontanati?

            Forse servono solo a questo, marionette inconsapevoli che perpetuano un fallimento infinito, a questo servono, questo è il loro vero scopo d’essere: “L’ uomo è disposto a spendere la propria vita precisamente per qualcosa che sia capace di riempirla.
            E’ questo che chiamiamo l’ ideale.
            Per vivere con pienezza abbiamo bisogno di qualcosa di incantevole e perfetto che riempia esattamente il nostro vuoto.

            Quando ci pare di averlo trovato, il nostro essere si sente irrimediabilmente attratto, come la pietra dal centro della terra e la freccia dal bersaglio a cui aspira.
            Questa similitudine dell’ ideale come bersaglio e della nostra esistenza come freccia, non è mio: ha un alto lignaggio classico.

            (…)

            Secolo dopo secolo, l’ umanità ha continuato a sperimentare un ideale dopo l’ altro; secolo dopo secolo ha continuato a proiettarsi verso ideali illusori.

            A un certo momento le pareva di trovare una determinata cosa, poi un’ altra, la fisionomia dell’ ideale, della perfezione e della sufficienza, e appassionata si metteva al suo servizio, combatteva per realizzarlo, e quando era necessario sapeva morire nel tentativo.

            La religione e il potere politico, la scienza e la giustizia sociale… quante cose sono state per gli uomini bersaglio dei loro entusiasmi, metafora della loro frenesia!

            Ma, dopo il primo momento, l’ umanità capiva il proprio errore, notava l’ insufficienza dell’ ideale proposto e, variando l’ infaticabile cammino, faceva vela verso una nuova costa immaginaria.

            La storia ci presenta nel suo vastissimo panorama la peregrinazione della nostra specie attraverso il vasto repertorio degli ideali e attesta che furono, allo stesso tempo, affascinanti … e insufficienti.”

    • armando
      3 novembre 2015 at 22:19

      Dico che bene e male devono essere indipendenti dal soggetto. Altrimenti non esistono, o sarebbero tanti quanto i soggetti, il che è lo stesso. La possibilità di una loro definizione , o della ricerca di cosa sono, è l’unica ricerca di senso che abbia senso. Tu dici dovrebbero, allora credi non sia così o che è una strada troppo impervia perché sia percorsa da tutti? Detto questo, in un albero si possono vedere più cose, ma rimane sempre un albero. Ovvero, una verità oggettiva esiste, non esiste solo una perCezione soggettiva. In più, non credo al determinismo del falegname che vede solo assi etc perché ritengo che ognuno possa trascendersi .Vale anche per il poeta, ovviamente, perché non sempre i poeti sono migliori dei falegnami.

  6. Fabrizio Marchi
    4 novembre 2015 at 10:43

    Animus, la filosofia nietzschiana ha una peculiarità rispetto ad altre, e cioè che si potrebbe continuare all’infinito nel botta e risposta a meno di arrivare coerentemente al nulla, dal momento che tutto è inutile e privo di senso. Si può anche discutere di questo, sia chiaro, il tema in se esiste, dal momento che trascorriamo qui qualche tempo (molto breve) e poi ce ne andiamo (non si sa dove, molto probabilmente, ma io non ne ho certezza, per tornare ad essere quello che eravamo prima, cioè nulla).Dopo di che però, con questo approccio all’esistenza, bisogna spingere la propria coerenza fino in fondo e smettere anche di riflettere, di confrontarsi con gli altri e tutt’al più vivere cercando di imporre la nostra volontà di potenza, se ne siamo provvisti, oppure suicidarsi, se ne siamo capaci. Sempre ammesso che tutto ciò abbia senso. Ma sappiamo che il problema del senso è del tutto inesistente nel Nietzsche pensiero ed ecco quindi che il cane comincia a rimordersi la coda, in un circolo infinito di tautologie e contraddizioni in termini che non può avere fine.
    Altro non è possibile. In linea teorica potremmo continuare questo batti e ribatti all’infinito, come già è accaduto puntualmente e sistematicamente non solo con il sottoscritto ma anche con altri, in altre sedi e luoghi. E lo sai bene. E naturalmente ad un certo punto è necessario dargli un taglio, non per scortesia o perché filosoficamente il problema non esista, ma perché non è possibile fare altrimenti.
    Oltretutto, già l’ho detto in un mio precedente commento, non posso stare a fare il batti e ribatti all’infinito su questi temi, per varie ragioni. La prima, come già ho detto e ripeto, se ci mettessimo a discutere di ideologia, etica, morale, struttura e sovrastruttura, anche solo io e te, dovremmo stare per settimane inchiodati qui davanti al pc e comunque non ne usciremmo.
    Quindi, in questi casi, bisogna capire quando è il momento di fermarsi. E’ il buon senso che ce lo dice. Dopo di che posso anche lasciarti l’ultima parola, sia chiaro, non è che me ne viene in tasca nulla in un senso o in un altro. Oppure potrei agire in modo diametralmente opposto, e lasciar agire (si fa per dire…è solo per farti capire dove sta il limite oggettivo del tuo modo di procedere…) la mia volontà di potenza e bannarti. Perché non dovrei farlo, in fondo, dal tuo punto di vista (nietzschiano)? Devo forse rispondere a dei principi di libertà, di rispetto dell’altro? Ma di che stiamo parlando? Ma io me ne sbatto dei principi e faccio quello che mi pare e se qualcuno ci rimane male sono problemi suoi. A me “chemmefrega”? Problemi suoi, vorrà dire che farà due fatiche, si dice a Roma, una per incazzarsi e un’altra per farsi passare l’incazzatura. Io non devo rispondere proprio a nulla, tanto meno a dei principi ideali, etici ecc. ecc.
    Non se ne esce, caro Animus. Del resto il nietzscshiano consapevole sa anche che potrebbe andare incontro a situazioni di questo tipo, cioè a qualcuno provvisto di una volontà di potenza superiore alla sua che gli mette i tacchi in faccia. A quel punto, se ce la fa a toglierseli, buon per lui, altrimenti se li tiene in faccia e lo accetta coerentemente senza possibilità di appellarsi ad alcunché, in primis i diritti, l’etica, la morale, l’ideologia, ecc, cioè null’altro che escamotage inventati per coprire e camuffare la volontà di potenza che sta alle spalle di tutto quel pateracchio ideologico e moralistico. E come vedi il cane continua eternamente a mordersi la coda. Che fare? Nulla. Soluzioni? Nessuna. Se provo ad agitarmi è peggio e quello i tacchi me li mette ancora più negli occhi (e fa male…). Potrei astutamente appellarmi all’etica e alla morale consapevole del fatto che sto fingendo perché in realtà è vero che voglio liberarmi dai tacchi in bocca ma soltanto per poterli mettere io a lui e imporre la mia volontà di potenza. Bene, se uno ce la fa, tanto di guadagnato. Ma potrebbe non farcela. Che fare? Aspettare la morte. Però con i tacchi negli occhi e in bocca non è proprio una bella attesa. Quanto meno assai scomoda e dolorosa. Quindi? Sono costretto ad agitarmi per cercare di liberarmi dai tacchi in bocca. Non se ne esce e non c’è possibilità di uscita.
    Il pensiero nietzschiano (ed è giusto studiarlo perché al di là di tutto, pone questioni sulle quali è doveroso riflettere) porta al nulla, al nichilismo, alla totale paralisi dell’agire umano, oppure al fascismo (non mi riferisco in questo caso all’esperienza storica del ventennio fascista, ma parlo da un punto di vista concettuale) o al nazismo o a qualsiasi altra forma di totalitarismo, anche il più feroce, che può avere il bisogno di giustificarsi ideologicamente ma potrebbe anche non averlo. Se fosse coerente non dovrebbe averlo, però siccome la coerenza non esiste e c’è sempre bisogno di una ideologia/falsa coscienza (ne avevano bisogno pure i nazisti, figuriamoci un po’…), e della morale, per imporre il proprio dominio, allora se ne continuerà a fare ricorso.
    Come se ne esce? Non se ne esce. Di che stiamo a parlare qui, Animus, perché stiamo perdendo tempo ed energie? Che senso ha? Nessuno. E allora? Che si fa? Niente.
    Vedi tu…
    Il risultato? Siamo qui ad incartarci in una discussione che non può portarci da nessuna parte perché è il presupposto, il postulato ideologico che lo impedisce. Sissignore, anche la tua, cioè quella nietzschiana, è un’ideologia, forse ancor più delle altre (una bella contraddizione in termini, lo ammetterai). Anzi, oggi è sicuramente molto funzionale rispetto ad altre all’attuale sistema dominante (lo sarebbe di qualsiasi sistema, in realtà).
    Ora, io la chiudo qui, per ovvie ragioni, e penso che sia più utile e razionale darci un taglio (lo dico amichevolmente, sia chiaro). Dopo di che fai tu…

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