Lo “sconfittismo” di G. La Grassa funzionale al neoliberismo

Fallimenti e ricostruzioni teoriche

Gianfranco La Grassa (Conegliano, 19 gennaio 1935) è un post-marxista definizione generica e nel contempo embrionale, perché la galassia del post-marxismo è abitata da un mondo plurale, in cui convivono una molteplicità di posizioni e tendenze, ma non è ancora chiaro quale prevalga.  È un pensatore che segna il passaggio dal crollo del marxismo a una nuova postura di sinistra ancora incerta, quindi, dai tratti indefiniti, benché usi le categorie marxiane per leggere il presente. Il punto di partenza di La Grassa è il constatare il sostanziale fallimento del comunismo reale, poiché la classe operaia non è stata capace di gestire l’apparato industriale. Di fondo vi è un limite teorico di Marx e del marxismo che ha “ridotto” la contrapposizione tra capitale e salario a semplice opposizione giuridica tra proprietari e non proprietari. La realtà storica effettiva, invece, non è semplice antitesi giuridica, ma opposizione tra  capacità di gestione manageriale della proprietà (dominanti) e  sulla sponda opposta l’incapacità decisionale dei subalterni (dominati), i quali sono subalterni non solo per la condizione economica, ma specialmente perché sono esclusi dai circuiti decisionali delle imprese e del capitale. Il comunismo reale ha palesato tale “privazione culturale” con l’effetto che la rivoluzione è ricaduta su se stessa, si è burocratizzata, ha nuovamente escluso gli operai ed i contadini dalla gestione del potere. Il lavoratore collettivo produttivo ipotizzato da Marx, quale punto nodale per la messa in atto del comunismo non si è materializzato, poiché si è riformata una nuova classe di gestori del potere economico di cui la classe operaia è stata suddita. Nella visione di Marx il capitalismo si sarebbe trasformato in capitalismo finanziario (III Libro del Capitale), per cui i padroni avrebbero lasciato la gestione delle fabbriche agli ingegneri e  ai tecnici, i quali si sarebbero dovuti alleare con gli operai, al fine di controllare collettivamente le fabbriche, ribaltando il potere, e liberando operai e classe media. I padroni,  ormai “aristocrazia della finanza”, si sarebbero  dedicati a “produrre” plusvalore in borsa, il parassitismo finanziario con la loro autoesclusione dalla diretta gestione della produzione sarebbe stato l’inizio  della rivoluzione.

La classe operaia idealizzata da Marx quale motore universale della storia, non aveva e non ha le competenze per una simile operazione politica e strutturale, essa è stata un mito catalizzatore che ha mostrato “nella storia” la sua verità. Il comunismo non ha mantenuto le sue promesse, il disincanto per le condizioni dei subalterni si è congiunto con il fallimento predittivo di Marx. La successione stadiale ipotizzata da Marx è stata cancellata dalla storia effettiva. I due elementi hanno prodotto il collasso del comunismo, la sua effettiva scomparsa e il disincanto generalizzato.

La Grassa non si definisce marxista, sperimenta una nuova identità partendo dall’analisi delle condizioni presenti del capitalismo. La verità nuda e cruda del comunismo è davanti a noi, distogliere lo sguardo significa solo rimandare il problema senza risolverlo:

“Perché l’elemento decisivo di tale teoria consisteva nella supposta oggettiva funzioni emancipatrice universale della classe operaia considerata nella sua (quasi) totalità ( le “masse proletarie”) oppure con più specifico riferimento alla sua  presunta avanguardia che ne rappresentava la coscienza – il manifestarsi dell’incapacità rivoluzionaria di detta classe, che non si volle mai riconoscere formulando una sequela di ipotesi ad hoc sempre più inconsistenti, condusse infine al ripiegamento su una costruzione socialistica da parte dello Stato. In definitiva, ebbe la sua rivincita il socialismo di Stato Lassalle, aspramente criticamente e sbeffeggiato da Marx[1]”.

L’incapacità operaia di gestire la produzione con la classe media si è confermata non solo ad Est, ma anche ad Ovest. Dinanzi ad una simile verità storica non resta che prendere atto dell’incapacità della classe operaia di essere la protagonista del movimento rivoluzionario, per cui bisogna congedarsi dai miti marxisti e marxiani per un sano principio di realtà da cui riteorizzare ex novo l’alternativa:

“Il passaggio dalla proprietà al potere di disporre fu per l’epoca – in cui la lotta dei comunisti rivoluzionari (che si consideravano neoleninisti) e dei marxisti rinnovatori mirava a sconfiggere dall’interno il presunto  neorevisionismo delle dirigenze PCUS e di praticamente tutti i partiti comunisti, salvo per un breve periodo (fino alla morte di Mao nel 1976) quello cinese – un evento liberatorio, di cui è oggi estremamente difficile rendersi conto. Tale passaggio manteneva ferma la convinzione della centralità rivoluzionaria della classe operaia, non riprendendo quindi il concetto di lavoratore collettivo cooperativo, poiché era fin troppo evidente, anche in seguito all’esperienza accumulata nell’ambito del capitalismo occidentale, che le potenze mentali e le funzioni direttive della produzione (in realtà dei processi di lavoro) dimostravano di non essere per nulla in grado, malgrado alcune speranze sollevate dal movimento del 1968, di staccarsi dal potere delle classi proprietarie e di criticare queste ultime in funzione di una – in realtà mai innescata, né all’ovest né all’est – riappropriazione reale dei mezzi di produzione (capacità di utilizzarli per i propri fini, ecc.) da parte dell’intero corpo lavorativo[2]”.

 

Capitalismo e razionalità strategica

L’analisi “oggettiva” di La Grassa per teorizzare il movimento anticapitalistico parte dall’errore teorico di fondo dei marxisti, i quali hanno effettuato un riduzionismo puramente giuridico ed economicistico, per cui bisogna “ripartire” da un macroelemento economico, tecnico e sociale, ovvero più che la lotta tra capitale e lavoro salariato, è la lotta strategica tra gli imprenditori ad essere la forza sostanziale e dinamica del capitalismo che ha raggiunto la sua espressione evidente nella contemporaneità. Tale lotta non può che avvenire in presenza di altissime competenze manageriali che si traducono in strategie per conquistare i mercati e per conquistare le strutture statali al fine di affermare la supremazia dei gruppi in lotta tra di loro. La razionalità strategica diviene il perno operativo dei gruppi imprenditoriali-manageriali in lotta che per conquistare mercati, politica e Stato con forme concorrenziali aggressive che La Grassa denomina “conflitti strategici” con cui appropriarsi di quote di mercato e con esso “zone d’influenza” sociale, culturale e politica. Il denaro è per i “dominanti” un mezzo per conquistare un potere sempre più vasto, per penetrare in aree sempre più vaste della politica come della produzione culturale. In questo contesto “i dominanti” non sono assimilabili alle classi agiate, perché per essi il denaro è solo uno strumento per ritagliare porzioni sempre più larghe di potere, e lo stesso Stato è interno a questa strategia, esso non è caratterizzato da omogeneità strutturale, ma dietro la parvenza dell’unità è mosso dalle forze strategiche in campo:

“Concentrare l’attenzione teorica e analitica solo sull’oligopolio e/o la concorrenza, in quanto forme diverse di mercato, è appunto conseguenza di quella impostazione che pone al centro i problemi della proprietà o meno dei mezzi di produzione e che considera l’impresa solo come unità produttiva. Se teoria e analisi vengono fondate sul concetto di conflitto strategico, la lotte per le quote di mercato, e le varie forme di quest’ultimo, vengono ricomprese nel più vasto orizzonte dello scontro interdominanti per le zone d’influenza, sia con riguardo alle diverse sfere sociali (economica come politica e culturale) sia riferendosi, in senso geopolitico, alle diverse aree della formazione capitalistica mondiale[1]”.

La lotta strategica produce nuovi bisogni, per vendere nuovi prodotti. L’agire strategico si rafforza mediante la cultura del consumo, con l’omogeneizzazione delle scelte dei consumatori/dominati orchestrata dai gruppi manageriali. La razionalità strategica non agisce semplicemente incrementando la produzione, ma “studia” strategie di condizionamento sociale per cambiare modi di vita, tradizioni e morali, per cui il “nuovo prodotto” non è solo un elemento materiale che produce plusvalore, ma è veicolo di nuovi modelli culturali che calano dall’alto delle strategie manageriali e che colgono i consumatori nel ruolo dei “dominati” nel lavoro come fuori di esso:

“L’anello di congiunzione tra esterno e interno dell’impresa capitalistica, tra i ruoli della strategia di conflitto interimprenditoriale e quelli di coordinamento interno orientato al minimax, è rappresentato dalle innovazioni di prodotto[2]”.

 

Crisi e opportunità

Il conflitto strategico interimprenditoriale è il tallone di Achille del capitalismo, poiché le lotte per la conquista imperiale di quote di mercato e potere sempre più ampie a livello globale, e le tensioni interne per controllare gli apparati  statali da usare per favorire i gruppi in ascesa espone il capitalismo a crisi, le quali possono essere un’opportunità per il suo ribaltamento. Non vi sono le fasi stadiali marxiste a profetizzare il cambiamento, pertanto la crisi è una partita  aperta, in cui si muovono sia movimenti anticapitalistici, sia movimenti ed ideologie di diverso genere. La crisi è un momento fluido come il potere del capitale, è un’improvvisa fessurazione del potere all’interno del quale possono agire  forze dinamiche di opposizione. Non vi è nulla che assicuri il risultato, ma nelle crisi ci si gioca una possibilità di cambiamento verso destra o verso sinistra non realizzabile nei momenti di “solidità fluida” del capitalismo:

“E’ in una situazione di simile complicatezza – per nulla affatto caratterizzata da un’omogenea massa di dominati in movimento in movimento contro la minoranza dei dominanti – che deve destreggiarsi l’eventuale gruppo di azione strategica per la trasformazione anticapitalistica. La tensione morale, di cui ho detto, è condizione necessaria ma non sufficiente; ad essa deve aggiungersi la capacità di analisi delle condizioni di possibilità che la crisi, con la lotta acuta scoppiata tra i dominanti per il rivoluzionamento delle posizioni di supremazia precedenti la crisi stessa, apre alla trasformazione anticapitalistica. Non c’è nulla di precostituito, nessuna ricetta di carattere generale in grado di indicare le modalità, storicamente specifiche, delle azioni strategiche che i gruppi  mossi da intenti trasformativi della formazione sociale esistente debbono compiere per ottenere successo; mai immancabile, più spesso contrarie[1]”.

Gianfranco La Grassa ha sicuramente posto in essere problematiche rimosse dal marxismo ufficiale. Non si può per le sue posizioni teoriche definirlo un comunista, diventa difficile collocarlo all’interno di una categoria ben determinata, ciò non necessariamente è negativo, benché senza un’appartenenza esplicita il quadro teorico rischia di desertificarsi in assenza di tensione dialettica. Nella teoria del filosofo di Conegliano non vi è un fondamento metafisico, pertanto non è chiaro il percorso che  “le forze morali anticapitalistiche dovrebbero percorrere”. Le crisi possono essere momenti congiunturali di grandi opportunità, ma in assenza di un fondamento metafisico è  facile che l’opposizione anticapitalistica si sciolga in una pletora di posizioni, poiché il semplice “anticapitalismo”, non può tenere assieme  movimenti e partiti che si connotano sempre più per la loro pluralità frammentata, mentre i fondamenti metafisici comuni permettono con più facilità di trovare compromessi e progettualità chiare da perseguire. Il soggetto che dovrebbe in situazione di crisi operare la svolta, non è in alcun modo esplicitato. Si può dubitare della formazione improvvisa in una situazione emergenziale  di un soggetto rivoluzionario, credo che esso debba configurarsi nei periodi di apparente quiete del sistema, giacché il capitalismo non è solo conflittuale a livello globale, ma anche al suo interno agisce secondo modalità “distribuitive” che creano squilibri economici e di potere e specialmente produce una “qualità di vita” non rispondente ai bisogni umani. Il tema dell’alienazione è aggirato e la “normale violenza” che scorre nel sistema può, invece, diventare il nucleo concettuale trasversale per aggregazioni progettuali condivise. La Grassa ci offre strumenti per decodificare il presente, ma non ci aiuta ad orientarci verso il futuro che, in tale contesto, risulta nebuloso e distante, e ciò può demotivare la ricerca di un’alternativa al capitalismo come “stile di vita”. I gruppi che tumultuosamente si muovono nella crisi, in assenza di fondamenti metafisici e preparazione dialettica, possono sviluppare tendenze distruttive quanto il capitalismo:

“Nella crisi dunque – ma è solo in essa che si muovono in senso proprio, e tumultuosamente, le masse  – i gruppi strategici trasformativi debbono attuare la guerra di movimento, e puntare piuttosto direttamente al controllo degli apparati del potere statale[2]”.

                                             

Ricominciare da Marx?

L’incapacità manageriale degli operai evidenziata da La Grassa  ha un senso all’interno del capitale, ma rovesciato  il capitalismo la gestione delle imprese e delle fabbriche dovrebbe essere non certo fondata sul paradigma manageriale che risponde alla logica della razionalità strategica e competitiva, ma sul servizio e sulla soddisfazione dei bisogni delle comunità. Non sono pochi gli esempi, anche se isolati, di operai che gestiscono direttamente imprese con  un’organizzazione solidale. Il fallimento del comunismo e la momentanea vittoria del liberismo rischiano di oscurare la complessità dei fenomeni storici, i quali se sono letti sotto il “solo” cono d’ombra dell’evidente sconfitta storica, rischiano di eternizzare il liberismo. La storia non è prevedibile, pertanto si può ipotizzare che sia possibile ripensare il comunismo su nuova fondamenta e concettualizzando la sconfitta storica. Se si rinuncia a tale progetto si diventa complici della trasformazione della società in un “eterno mercato”. Un punto teorico da cui ricominciare, lo esplicita lo stesso La Grassa, il comunismo teorizzato da Marx  esaltava l’individualità comunitaria, mentre il comunismo reale ha appiattito le individualità come la partecipazione:

“Sono tuttavia convinto che secondo Marx e il migliore marxismo – non certo quello, ad es., dei “sessantottini”; né quello sindacale, ecc. – il comunismo volesse e dovesse esaltare l’individualità, non avvilirla né soffocarla. Non si predicava un egualitarismo grigio, conformistico, piatto, buono per portare in primo piano i mediocri, privi di ogni idea propria, annientando invece le qualità di spicco, come purtroppo accadde nel “socialismo reale” (e in molti partiti comunisti). A ciascuno secondo il suo lavoro non significava, per Marx, far soltanto riferimento alla quantità, al tempo di lavoro, ma anche alla sua creatività e originalità. Altrimenti non nasce mai il nuovo, tutto continua in una routine mortificante che, alla fine, provocherà la rivolta contro “l’uomo medio”, quello di cui vorrei ci si ricordasse sempre la definizione datane da Pasolini, tramite il personaggio del regista interpretato da Orson Welles, nel suo forse più bel gioiello cinematografico: La ricotta da Rogopag. Nemmeno però si può accettare il tipo di competitività che regna nella nostra società, nel capitalismo borghese e ancor più in quello dei funzionari del capitale: una lotta fondata sulla sopraffazione, la coercizione, l’inganno, la menzogna, l’ipocrisia, il raggiro, e chi più ne ha più ne metta; e molto spesso, ovviamente, sull’uccisione (di massa), le guerre e distruzioni immani, le torture, ecc[1]”.

Si potrebbe ricominciare da Marx per ricostruire il comunismo, malgrado gli errori teorici e storici senza abiurarlo: non si deve buttare il bambino con l’acqua sporca. Marx non è rimasto sepolto solo sotto il crollo del muro di Berlino, ma specialmente è stato ideologizzato dal comunismo reale fino a renderlo prigioniero delle nomenclature che lo hanno congelato in un lungo e sterile inverno. Prima di abbandonare Marx e il comunismo si potrebbe riprendere la lettura di Marx per trarne le potenzialità irrigidite dalla corrente fredda della storia, e per “esplorare” le potenzialità sistemiche non ancora esplicitate. Il comunismo ha una storia breve, pertanto come tutti i movimenti di grande respiro non possono essere giudicati e congedati per i risultati ottenuti in un tempo relativamente breve. Si “obliano”, pertanto, nella veloce liquidazione le conquiste che il comunismo ha favorito in Occidente come in Oriente.  Se si afferma che la vittoria del capitalismo è “totale[2]”, l’effetto inibente diventa drammatico, ed è facile perdere con la speranza, la creatività e la lucidità storica. La vittoria del capitalismo, può essere l’inizio della sua fine, perché è fondato sull’illimitato, e dunque, perso ogni limite ed opposizione è possibile che mostri la sua verità, maciullando Stati e persone, con l’effetto di svelare la sua “intima” verità spaventevole. La verità è tutto, affermava Hegel, per cui il giudizio dev’essere sulla totalità aperta al futuro dell’esperienza trascorsa, e non certo finalizzata solo a conteggiare gli errori. La posizione di Costanzo Preve verso il marxismo reale è indubitabilmente più complessa, rileva i limiti teorici di Marx, evidenzia le tragedie storiche del comunismo reale e le sue conquiste, il confronto dialettico con “il tutto” lo porta al comunitarismo quale forma di comunismo democratico con fondamenta metafisiche:

“Nell’ultimo saggio di La Grassa, insieme a una certa interpretazione di Marx che paradossalmente io stesso condivido in buona parte (ma per un settario se non la condividi tutta sei un analfabeta ignorante), ci sono due affermazioni: comunismo e marxismo sono morti, la prima; e la storia non è storia delle lotte di classe fra dominanti e dominati, la seconda. E’ possibile commentarle senza essere investiti di pittoreschi insulti e di accuse di non conoscere Marx, oppure no? Tutti capiscono che non appena alcune tesi vengono affidate alla carta stampata diventano “pubbliche”, ed esiste ancora il kantiano “uso pubblico della ragione”. Esiste per tutti, salvo che per La Grassa. Ripeto quello che per me è il punto essenziale: chi si mette sul terreno della falsificazione epistemologica del marxismo e del comunismo sceglie di interpretare Marx come il portatore di una semplice scienza previsionale non filosofica, che come tutte le scienze previsionali non filosofiche cade sotto il criterio popperiano della falsificazione[1]”.

Il crollo del comunismo teorico e storico lascia uno spazio aperto di potenzialità, si può uscire dal comunismo, ma questa è una possibilità, non è una necessità determinata da “ragioni superiori”, si può scegliere anche di proseguire il cammino di emancipazione all’interno della storia comunista senza dogmatismi, e trasformando i fallimenti in spessore teorico da cui riprendere l’iter della storia emancipativa.

 

[1] Gianfranco La Grassa Il capitalismo oggi dalla proprietà al conflitto strategico Per una teoria del capitalismo Petite Plaisance Pistoia 2004 pag. 15

[2] Ibidem pag. 24

[3] Ibidem pag. 89

[4] Ibidem pag. 81

[5] Ibidem pp. 180 181

[6] Ibidem pag. 183

[7] Gianfranco La Grassa Nel tempo della globalizzazione non si può invocare una rinascita di Karl Marx, occorre un ripensamento  ‘globale’ dell’intera sua prospettiva storica

[8] Costanzo Preve Gianfranco La Grassa, Oltre la gabbia d’acciaio, Vangelista, 1994 pag. 15

[9] Costanzo Preve, Note su Gianfranco La Grassa, 24/10/2011, in pauper class

Metrópolis”, de Fritz Lang (1926). - líneas sobre arte

6 commenti per “Lo “sconfittismo” di G. La Grassa funzionale al neoliberismo

  1. Silvio Andreucci
    7 marzo 2021 at 20:51

    In questo periodo sto lavorando a una recensione del breve libro ( circa 100 pagine) di Orazio Gnerre e Gianfranco La Grassa, edizione Scientifica. I conflitti attuali non possono più spiegarsi sulla base della dicotomia borghesia_ proletariato.storicamente, le rivoluzioni non sono state realizzate dal proletariato ma sono state il prodotto dello scontro tra Stati nazionali.
    Il proletariato ha dimostrato infatti di avere carica e valenza sovversiva rivoluzionaria soltanto nella fase primitiva del processo rivoluzionario, dopodiché tale carica rivoluzionaria ha finito progressivamente per smorzarsi.in altri termini​, una volta che il proletariato si è inurbato e integrato nella città ( lo stesso vale per i contadini) ha smesso di pensare in termini di produzione, si è orientato piuttosto alla distribuzione dei prodotti.ha mirato a un generale miglioramento delle condizioni sociali, ma sempre nell’ambito di un contesto capitalista
    Il capitalismo ( su questo concordano Preve la Grassa) in nessun caso può esaurirsi per lo scoppio di contraddizioni interne ( cocente smentita della previsione di Marx), perché​ esso è in grado di sfruttare l innovazione tecnologica per far fronte alle crisi ricorrenti di sottoconsumo/ sovrapproduzione.
    Come potrebbe il proletariato avere un ruolo palingenetico e catalizzare la rivoluzione? Una volta che si sarà integrato nel sistema capitalista ( non parlo di assetto borghese, perché l’ ultracapitalismo contemporaneo è di natura post_ borghese) sarà una classe massimamente reazionaria che penserà al televisore, allo smartphone di lusso, piantando in asso ogni legame solidaristico con le proprie radici operaie

  2. Silvio Andreucci
    7 marzo 2021 at 21:11

    Sostengono i veteromarxisti che la formazione di un assetto multipolare di tipo eurasiatico ( a partire dalla prima decade del duemila l’ unipolarismo della monarchia del dollaro ha dimostrato di perdere i colpi per l’ ascesa di colossi Cina, India, Iran in primis) non servirebbe la causa dell’ antimperialismo, perché in ogni caso le nuove potenze asiatiche avrebbero un assetto economico che non esce dal perimetro del capitalismo.ad esempio, la teocrazia sciita iraniana sarebbe una soprastruttura della borghesia del bazar.
    Cominciamo a considerare il fatto che un mondo multipolare, con una Cina forte, un Iran forte, una Russia forte, un’ India forte realizza sicuramente un mondo eticamente più giusto che fa da contrappeso all’ unipolarismo atlanticocentrico

  3. Roberto Di Giuseppe
    17 marzo 2021 at 22:28

    Faccio notare tre punti di “caduta”, tali da inficiare l’intero impianto di ragionamento critico intorno al sistema teorico di Gianfranco La Grassa. Questi errori comportano come conseguenza il titolo fuorviante dell’articolo. La Grassa non predica la sconfitta nè tantomeno la sanziona come definitiva ed inappellabile. Sarebbe sciocco oltrechè illogico che egli continuasse a spendere energia e tempo di vita intorno ad un tema considerato ormai definitivamente perduto e chiuso. Parlare quindi di “sconfittismo”, oltre che un brutto neologismo e per di più già nel titolo, appare più un mettere le mani avanti, caso mai ci si dovesse trovare eccessivamente d’accordo con il reprobo, che non il frutto di un’analisi che dovrebbe far vedere semmai tale giudizio, come risultato piuttosto che come premessa a titolo.
    Il primo punto di caduta sta nel definire La Grassa come ex o post marxista. Direi piuttosto che pochi o forse nessun autore contemporaneo possa definirsi più strutturalmente marxista del nostro. Egli infatti non cessa di lottare strenuamente contro la definizione castrante di un Marx filosofo, rivendicando piuttosto a quest’ultimo lo statuto assai più fecondo ed impegnativo di scienziato.
    Vale la pena di specificare che qui non si fa una gara di primato tra scienza e filosofia. Ciò che è in gioco sono le immagini di Marx e della sua produzione di pensiero. Una come icona filosoficamente immota, utile a qualunque gioco dialettico, proiettato nel futuro più remoto e perciò, per definizione, inverificabile, sostanzialmente sterile o peggio utile ad alimentare una classe di scrocconi “antisistema” da salotto. L’altra, molto più viva, inquieta e probabilmente per alcuni inquitante, di un Marx che sfida il pensiero dominante della sua epoca sul terreno della scienza sociale. Non un filosofo dunque, ma un ricercatore e scienziato sociale. Ovviamente, in quanto ricercatore e scienziato, Marx diventa superabile, non come possibilità ma come sviluppo naturale del pensiero scientifico in quanto tale. Questo è il nocciolo duro del pensiero lagrassiano. Un nocciolo a ben vedere molto più marxiano che marxista (per alcuni forse anche “marziano”, ma questo è un problema che non riguarda il nostro). Se proprio si vuole ricorrere alla banalità delle metafore, La Grassa fa tutt’altro che buttare via il bambino con l’acqua sporca. Egli semmai solleva questo bambino dalla tinozza di acqua ormai da lungo tempo stantia e se ne prende cura, lasciandolo crescere senza pretendere di trattenrlo per sempre in fasce, eterno infante inutile ed infelice . Superare Marx significa accettare la sua caducità in quanto pensiero umano volto al concreto realizzarsi della vita degli uomini, ricavando da esso, laddove effettivamente sussistano, gli elementi costitutivi, strutturali, per un effettivo avanzamento teorico e pratico.
    Marx insegna il “disvelamento” di un effettivo movimento delle cose, dialettico e conflittuale, dietro l’apparente calma del pensiero liberale, così come l’astronomo chiarisce come solo apparente il movimento del sole attorno alla terra. L’estrazione di plus-lavoro è caratteristica specie-specifica dell’umano. Il plus-valore che da esso deriva, è sottratto dal capitalista attraverso la proprietà dei mezzi della produzione. Ma non basta. La matrice dello sfruttamento non si costituisce nell’esasperato sfruttamento sul luogo della produzione. Questo, che pure esiste e muove le masse alla ribellione ed all’autodifesa, non è che circostanziale. Il punto nodale è prioprio l’estrazione di plus valore dal lavoro salariato ed il suo reimpiego a discrezione del capitalista. Uno sfruttamento sociale quindi prima e più che uno sfruttamento di fabbrica. Il capitale è fatto sociale e non cosa. Si vuole forse negare che la prospettiva marx-filosofista si sia mossa prima di tutto nel pathos dello sfruttmaneto dell’uomo-macchina, lasciando di molto indietro ogni altra più stringente e problematica considerazione?
    La Grassa, rivendicando il Marx scienziato non fa altro che rilevare questa incongruenza che nel lungo periodo ha prodotto i risultati nefasti di anchilosi arteriosclerotica che anche i più ciechi hanno dovuto riconscere. Cercando di procedere oltre Marx, La Grassa ne richiama di fatto la capacità di fondazione di un pensiero scientificamente strutturato, e rende Marx stesso assai più vivo e vitale del Marx filosofo, buono per qualche poster, ma assai meno utile per un processo di innovazione oggi più che mai necessario.
    Il secondo punto di caduta, allo stesso tempo premessa e conseguenza del primo, sta nel circoscrivere la tesi del conflitto stragico tra dominanti lagrassiano pressochè esclusivamente alla sfera economica, che tende, come nella consueta vulgata, ad invadere ed occupare stabilmente le altre. Il conflitto tra imprenditori NON è il conflitto strategico. Esso è il conflitto determinato dal minimax, la ricerca del massimo profitto con il minimo dispendio di forze. Il vero conflitto strategico è essenzialmente POLITICO, ovvero strutturato su mosse di largo respiro finalizzate alla conquista di spazi egemonici cioè di potere. Le tre sfere, politica in senso funzionale (apparati di rappresentanza, burocratico-amministrativi, gestionali-statali, militari), culturale ed economica, sono strettamente compentrati tra loro tanto da essere nella realtà effettiva non nettamente distinguibili. Essi vengono distinti unicamente per chiarezza teorica. Inoltre (è bene probabilmente chiarirlo) lo scontro tra gruppi dominanti non avviene tra sfera politica vs sfera economica vs sfera culturale, ma tra gruppi politico-economico-culturali contro gruppi politico-economico-culturali in lotta per la supremazia. Non solo. Questi conflitti, fisiologicamente presenti in ogni contesto geopolitico, vale a dire allo stato attuale, in ogni nazione, se sufficientemente ricomposti permettono la ricerca di una preminenza proiettata all’esterno, tanto da determinare la formazione di nazioni dominanti su nazioni dominate. Questo processo, fluido ed in continua trasformazione anche quando apparentemente stabilizzato, è quello che determina la concezione lagrassiana delle fasi monocentrica, multicentrica e multipolare. Per monocentrica va intesa la capacità di un’unica area geopolitica di definire e regolare, sia pure con momenti di maggiore o minore forza, a proprio vantaggio, i conflitti generali (vedi ad esempio l’Inghilterra della seconda metà dell’Ottocento o gli USA della seconda metà del Novencento, sia pure, fino ad un certo punto, in spuria coabitazione con l’URSS). Per multicentrica invece va intesa una fase come quella attuale, dove accanto alla presenza ancora preponderante di una area geopolitica, in questo caso gli USA, si vanno costituendo in competizione con quest’ultima, altre aree autonome, non ancora sufficientemente forti da sopravanzare la prima, ma comunque in grado di sottrarsi in modo pressochè completo dal controllo di questa. Tale epoca è caratterizzata da un crescente disordine tendente ad un caos generalizzato che rende difficile non solo qualsiasi tentativo di previsione sul futuro anche prossimo, ma anche valutazioni sufficientemente coerenti del presente. L’impostazione lagrassiana prevede infine, non per uso reiterato della sfera cristallo, ma sulla base delle precedenti fasi storiche, una terza situazione, possibile, forse probabile, ma ovviamente non inevitabile, di scontro diretto anche armato tra aree geopolitiche sostanzialmente equivalenti, in condizioni anche mutevoli di alleanza e conflitto. Non avere chiara questa lettura, limitandola alla solo sfera economica o anche alla semplice prevalenza di questa significa in definitiva, gurdare al lavoro di La
    Grassa con occhi particolarmente miopi, tale da spiegare, ma non giustificare, il neologismo del titolo.
    Il terzo punto infine riguarda proprio la definizione e l’adozione della parola Comunismo. Credo che La Grassa, con ragione, più che respingerla come tale, cerchi di evitarne esplicitamente una funzione caratterizzante, proprio perchè a tutt’oggi ne viene fatto un uso sconsiderato e foriero delle più fuorvianti interpretazioni.
    Un comunismo millenarista non ha senso. Il Comunismo si misura nella realtà presente altrimenti diventa francescanesimo. Molto comodo e riposante ma tutt’altra cosa.
    Il Comunismo marxiano si è definitivamente ed irreversibilmente dissolto. Se non se ne prende atto si ritorna dritti al Marx filosofo con la sterilizzazione che ne consegue. Resta il confronto con una lettura del Comunismo come produzione di rapporti sociali ed umani improntati alla condivisione. Ma qui si esula dalla lettura critica del pensiero lagrassiano per scendere sul terreno assai più infido del confronto tra coloro che ancora su questo termine intendono per varie ragioni cimentarsi.
    Il senso collettivo e di reciprocità tra comunisti, al di là delle apparenze, è stato nella gran parte dei casi, quasi inesistente.
    La tendenza alla frantumazione ed al, per lunghissimo tempo contrapposto, credo assolutistico del centralismo per così dire democratico, sembrano inscritti nel codice genetico dell’esperienza comunista.
    Rifugiarsi dietro esperienze, benchè significative, ma troppo sporadiche, di segno opposto, ricalca la penosa impressione di quell’uomo che ricercato, cercò di nascondersi dietro al proprio dito.
    Se ci si vuole cimentare con un’effettiva ricerca comunista occorre tenersi fuori da ogni prospettiva millenarista e prendere atto che la sua versione marxiana è definitivamente invalidata e conclusa.
    Fintanto che sussisteranno simili posizioni, la riflessione sul comunismo sarà purtroppo mero esercizio soggettivo, in sofferta contrapposizione con la stessa etimologia della parola, oppure esposizione esteriore sempre proclamata e sempre condannata alla pura esibizione folkloristica.

    • Fabrizio Marchi
      19 marzo 2021 at 12:32

      Naturalmente risponderà l’autore dell’articolo, se lo riterrà opportuno ma, per quanto mi riguarda, lo “sconfittismo” di La Grassa è in un punto fondamentale: l’abbandono del conflitto di classe che è la logica conseguenza del considerare quella di classe non più la contraddizione principale. Anzi, di non considerarla proprio più, avendola sostituita con il conflitto geopolitico fra stati o fra blocchi.
      Ora, che la storia dell’umanità non sia soltanto storia di lotte di classi a mio parere lo sapeva lo stesso Marx. La storia dell’umanità è molto complessa (oggi lo è ancora di più che nelle epoche trascorse perché la modernità e la postmodernità ha fatto emergere conflitti che prima erano solo allo stato latente o potenziale) ed è fatta di conflitti orizzontali e verticali, quindi conflitti fra classi ma anche fra stati e nazioni, fra gruppi sociali, economici e politici dominanti, fra imperi, fra stato e chiesa, fra singoli individui, fra i sessi (sissignore, ho detto proprio fra i sessi, un conflitto esploso solo oggi perché a differenza delle epoche trascorse si sono create le condizioni affinchè esplodesse…).
      Ora, è ovvio che in una fase storica in cui la coscienza di classe (delle classi subordinate) è pari allo zero se non sotto lo zero, perché le classi dominanti e l’ideologia capitalista hanno vinto (non ci è dato sapere il futuro in nessun modo…), cioè sono uscite vittoriose dal conflitto di classe che continuano comunque consapevolmente a praticare (la pace sociale attuale, nonostante l’enormità delle contraddizioni del sistema capitalista, è la conferma del trionfo del capitale, o meglio è la conferma che le classi dominanti la lotta di classe la fanno sempre, perché sempre provviste, a differenza di quelle dominate, di coscienza di classe), il focus si sposti altrove, in primis allo scontro fra potenze (capitaliste), seppur provviste di sovrastrutture, cioè di sistemi valoriali-culturali-ideologici diversi. Ma in fondo questo è sempre accaduto nella storia. Non mi pare una grande scoperta. I grandi stati-nazione (o anche gli imperi) si sono da sempre scontrati e tutti erano provvisti di sistemi valoriali-ideologici diversi, basti pensare agli ultimi due conflitti mondiali, ma potrei andare anche molto indietro nella storia. Solo il conflitto di classe dal basso (anche in un solo paese) riesce nel “miracolo” di unire le classi dominanti in continua competizione fra loro per il controllo e il dominio del pianeta, delle risorse, delle materie prime e degli esseri umani (e, naturalmente, in quest’ultimo caso, entrano in scena le ideologie e la loro capacità pervasiva).
      Mi pare che le cose non siano cambiate affatto anche se oggi uno degli “attori” principali sulla scena, la Cina, rappresenta una forma di capitalismo “atipico”, inedito, diciamo così, una strana (ma riuscita, anzi, riuscitissima, al momento) mescolanza di confucianesimo, mercato e statalismo (non voglio certo aprire in questa sede una discussione sulla natura dello stato e della società cinese anche perché ci vorrebbe ben altro tempo e spazio, anche se qualcosa ho scritto nel merito https://www.linterferenza.info/attpol/cina-socialismo-caratteristiche-cinesi-capitalismo-caratteristiche-cinesi-altro-ancora/ ).
      Ma, come ripeto, il conflitto di classe aperto e combattuto da ambo le parti, dominati e dominanti, è stato quasi sempre per lo più latente, soltanto a partire dal XVII secolo è esploso via via in modo sempre più palese e aperto (e con attori sociali diversi, ovviamente). Ciò non toglie il fatto che anche prima di quell’esplosione quella di classe fosse la contraddizione principale, anche se non manifesta. Certo, la lotta fra potere temporale e spirituale, fra papato ed impero, fra chiesa e stato ha caratterizzato la scena politica per secoli, ma questo non toglie il fatto che quello scontro di potere avesse alle spalle la stessa logica, cioè il controllo e il dominio sui popoli e sulle classi subordinate. Il fatto, quindi, che la contraddizione di classe non esplodesse in forme palesi di conflitto non significa che non fosse la contraddizione principale. Quella a cui i comunisti, ma direi tutti coloro che hanno a cuore il superamento del dominio di classe, dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo (non voglio essere retorico o “millenarista”, credimi, ma non trovo parole diverse…) dovrebbero considerare centrale. Il compito di questi ultimi dovrebbe proprio essere quello spostare il focus sulla contraddizione di classe. La qual cosa non significa affatto negare le altre contraddizioni, tutt’altro; significa riportare alla luce e al centro quella che viene oggi nascosta, occultata (lo è stata anche in epoche precedenti al capitalismo, sia chiaro…) oppure giace, diciamo così, assopita, anche se in un sonno profondo. E per lo più nella storia così è stato per lo meno fino ad un paio di secoli fa. Ora, a mio parere, stiamo vivendo – se mi passate il termine (si fa per capirci) – quella che io uso definire come una fase di “medioevo postmoderno” perchè, appunto, venuta meno, in questa fase storica, l’ idea “forte” di una grande inversione di rotta della storia, siamo tornati alla stessa musica di sempre: la competizione fra classi dominanti e fra stati (che rappresentano quelle classi dominanti), formati da apparati militari, mediatici, gruppi economici, di potere ecc. ciascuno provvisto della sua dose di “falsa coscienza necessaria”, cioè del suo apparato/sistema valoriale, culturale, religioso e ideologico (quello angloamericano-occidentale è diverso da quello russo che è diverso da quello cinese che è diverso da quello saudita ecc.).
      Dov’è la novità? Dove sta la scoperta di La Grassa? Quest’ultimo ci spiega che ogni ipotesi di trasformazione è impossibile (a partire da una logica di classe), che il proletariato ha fallito (lo sapevamo…) fino a scomparire o ad essere distrutto come classe in sé e per sé, cioè come classe dotata di coscienza (sapevamo anche questo…) e che quella che chiamavamo “classe” si è dissolta in mille e più rivoli, in un magma complesso, ultra frammentato e comunque incapace di elaborare un punto di vista autonomo e quindi di sviluppare quella coscienza di classe necessaria.
      Ora, ripeto, qui non si tratta di essere vetero marxisti o neo marxisti, ortodossi o eterodossi né si tratta di capire chi è più o meno marxiano o chi meglio interpreta la sua scienza e/o la sua filosofia. Sono assolutamente convinto – e su questo concordo con te – che il Marx-pensiero sia stato elevato (o ridotto…) dalla grandissima parte del movimento comunista ad una sorta di religione secolarizzata e ipostatizzata, ma questo è un altro discorso che prescinde da quello che stiamo facendo.
      Il punto centrale è: fermo restando l’esistenza di tutte quelle altre contraddizioni (di tante e troppe cose dovremmo allora parlare, della tecnica, del rapporto fra tecnica e capitale, della relazione fra i sessi , io ho umilmente provato a dire qualcosina qui https://www.linterferenza.info/attpol/capitale-tecnica-e-ideologia/ ) la prospettiva di una trasformazione sociale che non sia solo scontro fra elite dominanti (la vera grande prospettiva marxiana…) è possibile, è pensabile, è ipotizzabile?
      La Grassa dice chiaramente che non lo è. Da qui anche il titolo dell’articolo, che peraltro gli ha dato il sottoscritto. Meno male – aggiungo un po’ ironicamente – che non tutti nella storia hanno ragionato con lo stesso “pessimismo della volontà oltre che della ragione” di La Grassa, altrimenti saremmo combinati forse peggio di quanto non siamo oggi.
      Grazie comunque dell’interessante contributo.

  4. Francesco Scabar
    18 marzo 2021 at 16:51

    Ho sempre reputato il “lagrassismo” semplicemente come il rovescio della medaglia del “negrismo”: un’apologia indiretta di una sorta di “fare la rivoluzione senza farla”. Solamente che i negriani mettono al centro di tutto le moltitudini, i lagrassiani i movimenti geopolitici tra le potenze.

  5. Gp
    19 marzo 2021 at 19:02

    Sul sito sinistra in rete a questo link (https://www.sinistrainrete.info/teoria/19961-salvatore-bravo-lo-sconfittismo-di-g-la-grassa-funzionale-al-neoliberismo.html) è stato pubblicato un articolo di Salvatore Bravo con il titolo ‘Lo “sconfittismo” di G. La Grassa funzionale al neoliberismo’.

    Il titolo è già equivoco. Lo sconfittismo di La Grassa non è funzionale a nulla perché non esiste. Ammettere, come ha fatto il Nostro, che una stagione teorica si sia definitivamente chiusa, anche a causa di una deriva ideologica nella quale il pensiero ha smesso da tempo “di pensare” e di macinare comprensione, è atto di “scienza, coscienza e conoscenza”. La scienza deve continuamente superarsi per cogliere nuovi aspetti della vita che evolve in strutture sempre differenti. Facciamo un esempio caro a Marx o, meglio, a Engels che ne scrive nella prefazione al II libro del Capitale:
    “La storia della chimica ci può offrire un utile esempio. Ancora verso la fine del secolo scorso dominava, com’è noto, la teoria flogistica, secondo la quale l’essenza di ogni combustione consisteva nel fatto che dal corpo comburente si separa un altro corpo ipotetico, una materia combustibile assoluta, che veniva designata con il nome di flogisto. Questa teoria riusciva a spiegare la maggior parte dei fenomeni chimici allora conosciuti, se pure, in molti casi, non senza qualche violenza. Ora, nel 1774 Priestley descrisse una specie di aria «che trovò così pura, ossia così immune da flogisto, che l’aria comune al suo confronto appariva già corrotta». Egli la chiamò: aria deflogistizzata. Poco dopo Scheele in Svezia descrisse la stessa specie di aria, e ne dimostrò la presenza nell’atmosfera. Egli trovò pure che essa scompare se si brucia un corpo in essa o nell’aria comune, e la chiamò perciò aria di fuoco. «Da questi risultati trasse quindi la conclusione che la combinazione che nasce dall’unione del flogisto con una delle parti costitutive dell’aria» (dunque dalla combustione) «altro non è che fuoco o calore, che fugge attraverso il vetro». Sia Priestley che Scheele avevano descritto l’ossigeno, ma non sapevano che cosa avessero tra le mani. Essi «rimanevano prigionieri delle categorie “flogistiche” così come le avevano trovate belle e fatte». L’elemento che doveva rovesciare tutta la concezione flogistica e rivoluzionare la chimica, era caduto infruttuosamente nelle loro mani. Ma Priestley subito dopo comunicò la propria scoperta a Lavoisier a Parigi, e Lavoisier, avendo a disposizione questo fatto nuovo, sottopose ad esame l’intera chimica flogistica, e scoperse solo che questa specie di aria era un nuovo elemento chimico, e che nella combustione non si diparte dal corpo comburente il misterioso flogisto, ma che questo nuovo elemento si combina con il corpo; così soltanto egli mise in piedi l’intera chimica, che nella sua forma flogistica se ne stava a testa in giù. E se anche non ha descritto, come più tardi ha preteso, l’ossigeno contemporaneamente agli altri e indipendentemente da essi, tuttavia egli rimane il vero e proprio scopritore dell’ossigeno di fronte a quei due, i quali lo hanno meramente descritto, senza minimamente sospettare che cosa avessero descritto”.

    La teoria “flogistica” che pure riusciva a spiegare molti fenomeni si era rivelata sbagliata, occorreva sopravanzarla. Col senno di poi possiamo dire la stessa cosa della teoria di Marx nella parte in cui costui aveva previsto la formazione, nelle viscere medesime del processo produttivo capitalistico, di una nuova classe intermodale portatrice di rapporti sociali avanzati che avrebbero scavalcato quelli capitalistici. Perchè? Perché lo sviluppo delle forze produttive avrebbe rotto l’involucro dei vecchi rapporti di produzione (ormai troppo limitanti le potenzialità delle prime) causando il sovvertimento del modo sociale di produrre.
    Marx aveva colto l’importanza dei conflitti come chiave di lettura principale dei fatti sociali (abbiamo il flogisto) ma aveva frainteso la dinamica oggettiva che determinava la reale divaricazione delle soggettività in contrapposizione per la predominanza. Ora possiamo e dobbiamo dirlo, la storia non è storia di lotte di classi ma di classi dominanti (forse abbiamo l’ossigeno). In questa battaglia i ceti subalterni vengono, certamente, trascinati in ogni modo ma non posseggono l’intelligenza del dominio, ovvero la materia strategica per ergersi a classe superiore, figurarsi a classe universale che abolisce la società divisa in classi. Quest’ultimo aspetto era per Marx non una prerogativa della volontà soggettiva (dei buoni proletari in ascesa) ma una necessità oggettiva manifestantesi con gli innovativi rapporti sociali comunistici. Solo nel regno dell’abbondanza “oltrecapitalistico” i conflitti sociali si trasformano, finalmente, da lotta per la sopravvivenza in contraddizioni minori.
    Se pur dal grembo del proletariato emerge una qualche avanguardia (che solitamente è molto spuria perché coinvolge gli esclusi dei ceti superiori) questa si strutturerà necessariamente come un ristretto gruppo dominante (pensiamo ai bolscevichi) che governa il popolo. Il popolo non può mai governarsi da sé perché non c’è orchestra che suoni senza il suo direttore. Aver spostato il baricentro della disputa di classe nella sfera economica (anche più largamente intesa, come processo di ri/produzione sociale), quindi al livello del conflitto Capitale/Lavoro, ha portato Marx ancor più fuoristrada. Forse, Pareto aveva colto meglio di lui la questione quando parlava di Storia come cimitero di élite. Non, dunque, liberi contro schiavi, patrizi contro plebei, baroni contro servi della gleba, membri delle corporazioni contro garzoni, oppressori contro oppressi ma oppressori contro oppressori e anche oppressi. In Marx manca pertanto questa dimensione “politica” orizzontale a cui viene preferita una “verticale economica” dei rapporti di forza, dalla quale nasce anche l’internazionalismo contrapposto di capitalisti e operai (mai visto sulla faccia di questa terra, se non in occasioni eccezionali. Per di più i gruppi superiori riescono ad essere più solidali tra loro quando si tratta di colpire i sottoposti). La Grassa si concentra, invece, proprio sulla disputa politica (che declina in maniera originale, come insieme di mosse strategiche per la supremazia, ben oltre la stessa sfera politica, strettamente intesa). Lo evidenzieremo a breve.

    A Marx resta il grande merito di aver spiegato per primo che l’eguaglianza formale dei soggetti, scambiantisi le merci (compreso la forza lavorativa) sul mercato, al loro valore, avveniva in assenza di vincoli personali. Questa parità di diritti degli attori economici sul mercato mascherava però la disuguaglianza effettiva nel processo produttivo che discendeva dai differenziali di proprietà e, soprattutto, di potere tra chi detiene i mezzi produttivi e chi no. Chi non ha i mezzi vende liberamente la sua forza lavoro ma una volta inserito nella produzione produce più di quanto gli viene effettivamente pagato (è il plusvalore). Lo scambio delle merci quali equivalenti (in media) nasconde la fondamentale (sottostante) produzione, e appropriazione capitalistica, del plusvalore che è pluslavoro; ancor più decisiva è però la riproduzione del rapporto durante lo svolgimento del processo produttivo, da cui escono il capitalista, arricchito dal profitto (plusvalore), e l’operaio in quanto semplice possessore della sua forza lavoro pronta per essere rivenduta, dando così inizio ad un nuovo ciclo dello stesso processo. Tutto qui, si fa per dire! Però Marx non coglie nel segno allorché prevede l’avvento della società comunistica come parto ormai maturo (quindi da concretarsi in pochi decenni, non secoli) nelle viscere del capitalismo. Bisogna prendere atto che dalla prospettiva di Marx il comunismo è impossibile, inutile girarci intorno. Esso non si è realizzato e non si realizzerà.
    Gianfranco La Grassa si “appoggia” a questo primo disvelamento marxiano per costruire un avanzamento teorico. La Grassa fonda il suo disvelamento mettendo al centro dell’analisi:

    ‘senza più esitazioni, il principio della “razionalità” strategica, applicata al conflitto in quella che è la politica tout court, ovunque venga svolta: nella sfera politica vera e propria, in quella economica, in quella ideologico-culturale. Tale politica si condensa nei vari “macrocorpi” (Stato e apparati politici, imprese, ecc.) che diventano gli “attori” della battaglia nel campo del suo svolgimento, i portatori soggettivi di dinamiche conflittuali oggettive; non colte in sé ma sempre interpretate con ipotesi che nascono dalle teorie formulate all’uopo (e sempre riviste e ri-formulate di epoca in epoca). Il conflitto (strategico), “essenza” della politica, pur essendosi esteso – durante il passaggio al capitalismo, cioè alla sua prima formazione sociale, quella borghese – alla sfera economica, non fa di quest’ultima quella ormai predominante e da cui tutte le altre dipenderebbero (deterministicamente o con “azione di ritorno”, che è un semplice “meccanicismo incrociato”, una mera interazione)’.

    Il nostro, prendendo cognizione della falsificazione da parte degli avvenimenti della previsione di Marx sulla rivoluzione proletaria scaturente dall’irriducibile contraddizione Capitale vs Lavoro, l’ha sostituita con quella del conflitto strategico (attivato dal flusso squilibrante della realtà) innervante il complesso societario in tutte le sue sfere e determinante il continuo scontro tra insiemi in competizione (di individui, di drappelli, di formazioni geopolitiche ecc. ecc.) raggruppamenti nei quali risultano inclusi anche i dominati, però con un ruolo non più transmodale rispetto alla società capitalistica e con alterne fortune circa la soddisfazione delle loro legittime istanze, dipendenti dal livello dei rapporti di forza nelle diverse congiunture) per la predominanza, in ogni spazio antropico.
    Questo non è sconfittismo ma è analisi teorica della situazione pratica. Tanto più che lo stesso La Grassa parla della sua teoria quale pensiero di fase che necessita di approfondimenti e validazioni.
    Quando Bravo scrive: “Si potrebbe ricominciare da Marx per ricostruire il comunismo, malgrado gli errori teorici e storici senza abiurarlo: non si deve buttare il bambino con l’acqua sporca” contravviene alla stessa lettera di Marx che prediceva il comunismo di lì a breve (non a Preve, il nostro compianto Costanzo, perché sono i filosofi gli unici a potersi permettere di porre domande assolute e di attendere secolari risposte. La Grassa, invece, non è un filosofo, nonostante Bravo lo definisca tale, attirandosi le saette degli dei greci). No, il comunismo nella prospettiva di Marx è ormai impossibile. Non si è formato il General Intellect nell’ambito della formazione sociale capitalistica a matrice inglese, l’unica studiata da Marx. Il capitalismo di oggi è tutt’altra cosa, ammesso che si possa ancora appellare tale. Dirò di più. Il comunismo è possibile solo lasciando stare Marx, per quest’ultimo il comunismo era necessitato in quanto sbocco di determinate contraddizioni sistemiche, rivelatesi non tali. Ognuno può desiderare quel che vuole, anche il comunismo, il suo avvento in qualche luogo o epoca a venire, prescindendo da Marx che pensava allo stato di cose a lui presenti e non alle osterie dell’avvenire. Questa si chiama utopia ma non ha niente a che fare con la teoria sociale, la politica, la vita attiva. E’ fede alla quale si crede. Non si pensa.

Rispondi a Silvio Andreucci Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Dichiaro di essere al corrente che i commenti agli articoli della testata devono rispettare il principio di continenza verbale, ovvero l'assenza di espressioni offensive o lesive dell'altrui dignità, e di assumermi la piena responsabilità di ciò che scrivo.