Marxismo e teoria della forma valore

Riceviamo e volentieri pubblichiamo:

Introduzione.

La forma valore del prodotto del lavoro è la forma piú astratta, ma anche piú generale, del modo di produzione borghese, che ne risulta caratterizzato come un genere particolare di produzione sociale, e quindi anche storicamente definito.[1]

[..] Marx era stato chiaro: ciò che contraddistingueva il suo approccio, e che fa di esso una critica piuttosto che una continuazione dell’economia politica, era la sua analisi della forma valore. Nella sua celebre espo­sizione de «Il carattere feticistico della merce e il suo segreto» egli scrive:

Ora, l’economia politica ha bensí analizzato, seppu­re in modo incompleto, il valore, la grandezza di valore, e il contenuto nascosto in tali forme. Ma non si è nemmeno posto il quesito: perché questo contenuto assume quella forma? Perché, dunque, il lavoro si rappresenta nel valore, e la misura del la­voro mediante la sua durata temporale si rappresen­ta nella grandezza di valore del prodotto del lavo­ro? Formule che portano scritta in fronte la loro ap­partenenza ad una formazione sociale in cui il pro­cesso di produzione asservisce gli uomini invece di esserne dominato, valgono per la loro coscienza borghese come ovvia necessità naturale quanto lo stesso lavoro produttivo.[2]

Nonostante affermazioni del genere da par­te di Marx, la connessione tra forma valore e feticismo — il rovesciamento perverso all’in­terno del quale gli uo­mini sono dominati dai risultati della loro stessa attivi­tà — non ha avuto un gran ruolo nell’interpretazione del Capitale fi­no al 1960. Al contrario, alcune inter­pre­ta­zioni del «pensiero economico di Marx» hanno enfatizzato l’idea, in apparenza semplice, contenuta nei primi due paragrafi del primo capitolo del Capita­le, dove il lavoro è riconosciuto come fonte del valore delle merci. Gli ultimi due paragrafi del capitolo — sulla forma valore e il feticismo — venivano general­mente intesi come un modo piú o meno complicato di descrivere il mercato e venivano quindi letti frettolo­sa­mente. Di conseguenza non venne approfondito il modo attento con cui Marx distinse la propria conce­zione dall’economia politica classica di Ricardo.[3]

Quando i marxisti si sono occupati della teoria del valore lavoro, l’hanno fatto secondo l’aspetto quantitativo della sostanza e grandezza del valore piuttosto che da quello qualitativo della forma del va­lore. Contro la rivoluzione neoclassica nell’economia borghese, che a­ve­va rinnegato la teoria del valore lavoro, i marxisti cercarono di riaffermare la posizione classica secondo cui il lavoro è la sostanza del valore e il valore è il lavoro incorporato nel prodotto. Proprio come l’economia politica classica, i marxisti non afferrarono la peculiarità del processo di riduzione so­ciale necessario affinché grandezze incommensurabili possano venire comparate. Anch’essi quindi non pose­ro la questione del perché il lavoro appare nella forma valore del suo prodotto e quale tipo di lavoro possa apparire in questo modo. Tuttavia, secondo le indicazioni di Marx, è solo capendo la complessità della forma valore che si possono capire le forme suc­cessive del denaro e del capitale o il modo in cui l’attività umana assume la forma del­l’accumulazione di capitale.

Per Marx, la forma valore è l’espressione del ca­rattere duplice del lavoro nel capitalismo: da una parte lavoro concreto che si manifesta nel valore d’uso della merce e dall’altra lavoro astratto che si manifesta nel­la forma valore. Nonostante il lavoro astratto sia una caratteristica storicamente specifica del capitalismo, il mancato raggiungimento di un’adeguata di­stin­zione di questi due aspetti del lavoro conduce a considerare la forma valore come espressione del semplice e natura­le lavoro umano in quanto tale. Il lavoro come conte­nuto o sostanza del valore era inteso come lavoro fi­sio­lo­gico, come qualcosa di indipendente dalla sua forma sociale. In questo senso la sostanza è intesa co­me qualcosa che risiede naturalmente nell’oggetto, ma per Marx il lavoro astratto e il valore sono qualcosa di piú complesso. Il valore è una relazione o un processo che si dispiega e si mantiene attraverso forme diffe­renti — in un determinato momento come denaro, poi come merce necessaria al processo di produzione (merce forza lavoro compresa), successivamente co­me merce-prodotto, e poi ancora come denaro — an­che se mantiene sempre una relazione con la merce quando è denaro e viceversa. Per Marx dunque, il va­lore non è né l’incarnazione del lavoro nella merce e nemmeno una sostanza immobile. È piuttosto una re­lazione o un processo che domina coloro che lo metto­no in moto: una sostanza che è allo stesso tempo sog­getto. Tuttavia nella tradizione marxista ortodossa non si comprendeva che il «lavoro astratto» è una forma socialmente e storicamente determinata di una parte del­l’attività umana, che implica la trasformazione de­gli esseri umani in fattore per l’incremento senza limi­ti di questa attività e la conversione dei suoi risultati in un fine in sé. Comprendere il valore come una for­ma semplicemente imposta (dalla proprietà privata dei mezzi di produzione) su un contenuto di base non pro­blematico in sé stesso andò di pari passo con una vi­sione del socialismo inteso essenzialmente come una versione a direzione statale di quella stessa divisione industriale del lavoro che però nel capitalismo viene organizzata dal mercato. In questa visione il lavoro, governato dal mercato nel capitalismo, diventerebbe nel socialismo il principio cosciente di organizzazione della società.

Un’importante eccezione alla tradizionale man­canza di attenzione del marxismo per la forma valore e il feticismo fu rappresentata dall’economista russo Isaak Rubin. In un pionieristico lavoro svolto negli anni ’20, ha riconosciuto che la teoria del feticismo è anzi la base del­l’intero sistema economico di Marx, e in particolare della sua teoria del valore,[4] e che il la­voro astratto in quanto contenuto del lavoro non è un in sé a cui si aggiunga dal di fuori la forma; ma è piut­tosto il contenuto stesso che, nel corso del proprio svi­luppo, si dà la forma già latente in esso.[5]

Ma il lavo­ro di Rubin, occultato in Russia, rimase piú o meno sconosciuto. Per l’ortodossia (ovvero «l’economia po­litica marxista») il fatto che la critica borghese vedes­se in Marx essenzialmente un seguace di Ricardo non era da mettere in discussione. Piuttosto egli veniva di­feso proprio su questa base, come colui che a­veva cor­retto e messo in ordine il riconoscimento di Ricardo del lavoro come contenuto del valore e del tempo di lavoro come sua gran­dezza, e aggiunto ad esso solo una teoria dello sfruttamento definibile come «ricar­diana di sinistra».

In questa visione il lavoro esiste quasi natural­mente nel prodotto, e lo sfruttamento è visto come un problema di distribuzione di quel prodotto — per que­sto la «soluzione» al capitalismo è intesa come un rio­rientamento della distribuzione in favore dei lavorato­ri, operata da questi tramite lo stato o altri mezzi. Se si concepisce lo sfruttamento come sottrazione di una porzione del prodotto sociale da parte di una classe dominante parassitaria allora il socialismo non deve modificare sostanzialmente la forma della produzione di merci, ma può semplicemente prenderne possesso, eliminare la classe parassitaria e distribuire il prodotto equamente.

Un retroterra comune.

La mancata considerazione della forma e del feti­cismo nella lettura del Capitale ha iniziato ad essere seriamente messa in discussione solo dalla metà degli anni ’60 — in parte grazie ad una riscoperta di Rubin — in un numero di approcci etichettati in momenti di­versi come «teoria della forma valore». Il dibattito sulle sottigliezze della forma valore, su questioni di metodo, sulla questione del rapporto tra Marx e Hegel e cosí via, emersero allora, contemporaneamente alla teoria del­la comunizzazione. Sia la teoria della forma valore sia la comunizzazione sono l’espressione di un’insoddisfazione per le comuni interpretazioni di Marx e quindi di un rifiuto del marxismo «ortodosso» o «tradizionale». Per noi c’è un’implicita conver­genza tra la teoria della forma valore e la teoria della comunizzazione, a tal punto che entrambe si pos­sono influenzare reciprocamente in modo positivo. Analiz­zeremo qui i parallelismi sto­rici tra queste due tenden­ze e i loro punti di convergenza.

Tra la metà degli anni ’60 e la fine degli anni ’70 il capitalismo a livello mondiale era caratterizzato da intense lotte di classe e movimento sociali radicali: dalle rivolte urbane negli USA agli scioperi insurre­zionali in Polonia, passando dai i movimenti studente­schi e la «ribellione giovanile» alla caduta di governi eletti democraticamente o meno in seguito alle agita­zioni dei lavoratori. Consolidate relazioni sul posto di lavoro venivano ora messe in discussione, cosí come la famiglia, le questioni di genere e la sessualità, la sa­lute mentale, e il rapporto tra uomo e natura, in un cli­ma di generale contestazione che attraversava tutta la società. Collegato a queste lotte, il boom postbellico terminò in una crisi di accumulazione di capitale con inflazione alta e disoccupazione crescente. A molti il superamento del capitalismo e delle sue pseudoalter­native dell’est sembrava essere all’ordine del giorno.

La comparsa sia del marxismo critico caratteristi­co della teoria della forma valore sia della teoria della comunizzazione trovavano i loro presupposti in queste lotte e nelle speranze rivoluzionarie da esse generate. Nello stesso mo­do in cui le due tendenze emersero in contemporanea, cosí tramontarono insieme al­l’on­data di lotte che le aveva prodotte. La crisi del­l’ac­cumula­zione degli anni ’70, invece di condurre ad un’intensi­ficazione delle lotte e al loro sviluppo in una direzione rivoluzionaria, provocò piuttosto una ristrutturazione radicale del capitalismo durante la quale i movimenti e le aspettative rivoluzionarie a loro collegati vennero globalmente sconfitti. Questa ristrutturazione portò al­la relativa eclissi di queste discussioni. Cosí come la discussione sulla comunizzazione emerse in Francia nei primi anni ’70, per poi affievolirsi negli anni ’80 e primi ’90 e infine riapparire di nuovo recentemente […].

Comunizzazione.

Non l’unità degli uomini viventi e attivi con le con­dizioni naturali inorganiche del loro ricambio con la natura, e di con­seguenza la loro appropriazione della natura, bensí la separazione di queste condi­zioni inorganiche dell’esistenza u­ma­na da questa esistenza attiva, una separazione che è posta com­piutamente solo nel rapporto tra lavoro salariato e capitale, ha bisogno di una spiegazione ovvero è il risultato di un processo storico.[6]

La teoria della comunizzazione comparve come critica di varie concezioni della rivoluzione ereditate sia dalla Seconda che dalla Terza Internazionale, cosí come anche dalle tendenze dissidenti e dalle opposi­zioni. L’esperienza del fallimento della rivoluzione nella prima metà del 20° secolo sembrava porre come questione fondamentale il sapere se i lavoratori pote­vano o dovevano esercitare il loro potere attraverso lo stato e il partito (Leninismo, Sinistra Comunista Ita­liana) o organizzandosi sul posto di lavoro (anarcosindacalismo, Sinistra Comunista Tedesco-Olandese). Da una parte alcuni sostennero che fu l’assenza del partito — o del tipo giusto di partito — che condusse al mancato successo rivoluzionario in Germania, Italia o Spagna, dall’altra parte altri dissero che fu proprio il partito, e la concezione «statista» e «politica» della ri­voluzione, che fallí in Russia e che giocò un ruolo ne­gativo anche altrove.

Coloro che svilupparono la teoria della comuniz­zazione si rifiutarono di interpretare la rivoluzione in termini di forme di organizzazione, e al contrario ten­tarono di concepire la rivoluzione in termini di conte­nuto. La comunizzazione presupponeva il rifiuto della visione della rivoluzione come di un evento in cui i la­voratori prendono il potere seguito da un periodo di transizione: veniva invece concepita come un movi­mento caratterizzato dall’adozione di misure comuni­ste immediate (come ad esempio la distribuzione di beni) non solo per il pregio intrinseco a tali misure, ma anche come mezzo di distruzione delle basi mate­riali della controrivoluzione. Se, dopo una rivoluzio­ne, la borghesia viene espropriata ma i lavoratori con­tinuano a produrre in aziende separate, dipendendo dal rapporto con quel posto di lavoro per la propria sussistenza, e continuano a commerciare con altre aziende, rimanendo in poche parole dei lavoratori, a quel punto che il cambiamento sia autoorganizzato dai lavoratori o diretto centralmente da uno «stato operaio» conta poco: il contenuto capitalistico rimane, e prima o dopo il ruolo distinto o la funzione del capi­talista risorgerà. Al contrario, la rivoluzione come mo­vimento comunizzatore distruggerebbe — smettendo di costituirle e riprodurle — tutte le categorie capitali­stiche: scambio, denaro, merce, l’esistenza di aziende separate tra loro, lo stato e — piú fondamentalmente — il lavoro salariato e la stessa classe lavoratrice.

Perciò la teoria della comunizzazione sorse in parte dal riconoscimento che opporre al modello par­tito-stato leninista un differente set di forme organiz­zative — consigli democratici, antiautoritari — non avrebbe portato alla radice del problema. In parte, questo nuovo modo di pensare alla rivoluzione sorse dalle caratteristiche e dalle forme della lotta di classe che uscí allo scoperto in quel periodo — come il sabo­taggio, l’assenteismo e altre forme di rifiuto del lavoro — e da movimenti sociali e­sterni al luogo di lavoro, i quali negavano l’af­fermazione del lavoro e dell’identi­tà operaia come base della rivoluzione. Un grande sprone allo sviluppo della nozione di comunizzazione fu il lavoro dell’Internazionale Situazionista (IS) che, con la propria prospettiva di una rivoluzione totale ba­sata sulla trasformazione della vita quotidiana, aveva percepito e teorizzato i nuovi bisogni espressi nelle lotte, e che venne poi riconosciuta come miglior anti­cipazione ed espressione dello spirito del ’68 francese.

Ma se il concetto di comunizzazione fu in un senso il prodotto delle lotte e degli sviluppi del tempo, la capacità dell’ambiente francese di esprimerlo fu in­separabile da un ritorno a Marx, e in particolare la scoperta e la diffusione di un «Marx sconosciuto» pre­sente in testi come i Grundrisse e i Risultati del pro­cesso immediato di produzione (da qui in poi Risulta­ti). Prima che questi testi fossero resi disponibili nei tardi anni ’60, l’IS e altri critici del marxismo ortodos­so tendevano ad attingere ad esempio dal giovane Marx dei Manoscritti economico-filosofici del 1844. Anche nel caso dell’IS e della Scuola di Francoforte, dove pure c’era un uso della teoria del feticismo e del­la reificazione presa dal Capitale, questo era mediato tramite Lukacs, e non era il prodotto di un’appropria­zione dettagliata dei tre volumi del Capi­tale. Perciò la critica matura del­l’economia politica come un tutto unico tendeva ad essere lasciata nelle mani del marxismo tradizionale. Come abbiamo già indicato, al­l’interno dell’in­terpretazione positivistica, la rilevanza della descrizione di Marx del suo stesso lavoro come una critica dell’economia politica e l’im­por­tanza della forma valore e del feticismo ven­nero quasi del tutto tralasciate. Testi nuovamente di­sponibili come i Grundrisse erosero le letture tradizio­nali e permisero di riconoscere la radicalità della criti­ca matura.

Attraverso la loro marginale relazione con il mar­xismo ortodosso, coloro che si identificavano con la critica della Sinistra Comunista del bolscevismo e di ciò che avvenne in Russia erano in una buona posizio­ne per leggere i testi di Marx nuovamente disponibili.

M Jacques Camatte e la rivista Invariance.

Molto importante nel contesto francese fu Jacques Ca­matte e la rivista Invariance che apparve la prima vol­ta nel 1968. Oltre ad aver espresso un’apertura dell’eredità della tradizione della Sinistra bordighi­sta italiana sia al­l’esperienza della Sinistra tedesco-olandese che alle lotte attuali del tempo, Invariance fu la sede di una nuova lettura di Marx. L’ex collaborato­re di Camatte, Roger Dangeville, tradusse i Grundris­se e i Risultati in francese — mettendo i bastoni tra le ruote all’interpretazione di Marx antihegeliana di Al­thusser dominante in Francia. In Invariance Camatte pubblicò un importante commento a questi testi.[7]

Il testo di Camatte ebbe per la Francia post ’68 un ruolo simile a quello avuto nello stesso periodo da Genesi e struttura del Capitale di Marx di Rosdolsky per le discussioni in Germania.[8] Entrambi ricorrono abbondantemente alle citazioni per introdurre ed esplorare il significato dei testi marxiani che erano lar­gamente sconosciuti all’epoca. Rosdolsky offre uno studio esauriente dei Grundrisse, mentre il resoconto meno sistematico di Camatte attinge da altri mano­scritti di Marx, in particolare i Risultati. Nonostante Camatte riconosca i meriti del libro di Rosdolsky,[9] una differenza sta nel fatto che mentre Rosdolsky in ultima analisi riduce i Grundrisse a una mera prepara­zione per il Capitale, Camatte è piú in sintonia con il modo in cui questo e gli altri manoscritti del Capitale vanno al di là dell’interpretazione che i marxisti han­no ricavato dal lavoro piú maturo. Camatte riconobbe che i differenti modi in cui Marx introdusse e sviluppò la categoria di valore nelle varie versioni della critica del­l’e­conomia politica hanno un significato che va al di là del progressivo miglioramento del­l’e­sposizione. Alcune delle prime analisi espongono aspetti come l’autonomizzazione del valore, la definizione del capi­tale come valore in processo e l’importanza della cate­goria di sussunzione, in una forma piú chiara rispetto alle versioni pubblicate. Nella lettura da parte di Ca­matte dei testi nuovamente disponibili troviamo il ri­conoscimento del fatto che le implicazioni della criti­ca dell’economia politica marxiana erano di gran lun­ga piú radicali di quanto non avesse creduto l’inter­pretazione positivista ad opera del marxismo.[10]

Nel lavoro di Camatte c’è un’affascinante rottura con i presupposti marxisti tradizionali, una rottura che spicca nettamente nel contrasto tra il suo commento originale di metà anni ’60 e le note da lui aggiunte nei primi anni ’70. Mentre il commento antecedente è alle prese con la classica teoria marxista della transizione, nelle note posteriori gli assunti di questa teoria vengo­no respinti.[11] Cosí Camatte conclude le sue note del 1970 con un appello alla comunizzazione:

Dal momento che la quasi totalità degli uomini si leva contro il capitale e contro il lavoro, si tratta di una lotta contro il capitale e contemporaneamente contro il lavoro, come due aspetti della stessa real­tà. In altri termini, il proletariato deve lottare contro il proprio dominio al fine di potersi negare in quan­to classe e, dunque, distruggere sia il capitale sia le classi. Una volta conseguita la vittoria — su scala mondiale — la classe universale che si è realmente formata nel corso dell’ampio processo che ha pre­ceduto la rivoluzione stessa, nella lotta contro il ca­pitale (formazione del partito secondo Marx), che si è trasformata psicologicamente e ha trasformato a sua volta la società, non può che scomparire giac­ché diventa l’umanità stessa. Non ci sono piú grup­pi al di fuori di essa. Soltanto allora il comunismo può svilupparsi liberamen­te. Non c’è piú da realiz­zare nessun comunismo inferiore e la fase di ditta­tura del proletariato si riduce alla lotta per la distru­zione della società capitalistica, del potere del capi­tale.[12]

Frammenti e manoscritti.

Per la maggior parte dei teorici posteriori della comunizzazione, gli scritti di Marx precedentemente non disponibili divennero testi fondamentali. La tra­duzione dei Grundrisse e del suo famoso «frammento sulle macchine» influenzò direttamente il ragionamen­to originale di Gilles Dauvé sulla comunizzazione.[13] In questo frammento Marx descrive come il capitale, nel suo impulso ad aumentare la grandezza del pluslavoro, riduca il tempo di lavoro necessario al minimo attraverso l’applicazione massiccia della scienza e delle conoscenze alla produzione. Questo genera la possibilità dell’appropriazione da parte di tutti di quel sistema alienato di conoscenza, permettendo la riap­propriazione del tempo di pluslavoro come tempo di­sponibile. Il comunismo è perciò inteso non nei termi­ni di una nuova distribuzione della stessa tipologia di ricchezza fondata sul tempo di lavoro, ma come fon­dato su una nuova forma di ricchezza misurata sul tempo disponibile.[14] Il comunismo non è altro che una nuova relazione con il tempo, o addirittura un altro ti­po di tempo. Per Dauvé, attraverso questa attenzione sul tempo, Marx sottintende una rottura radicale tra capitalismo e comunismo che «esclude l’ipotesi di qualsiasi via gradualistica al comunismo attraverso la progressiva distruzione della legge del valore» e di­mostra pertanto l’inadeguatezza dell’alternativa consi­gliarista e democratica al leninismo.[15]

I primi manoscritti mostravano inoltre una con­cezione piú radicale della rivoluzione, ad un piú fon­damentale livello ontologico. I manoscritti rivelano che per Marx la critica dell’economia politica chiama in questione la divisione tra soggettività e oggettività, cosa significhi essere un individuo e ciò in cui consi­ste o meno il nostro stesso essere. Per Marx queste questioni ontologiche sono essenzialmente sociali. Egli considerò che gli economisti politici erano piú o meno riusciti a chiarire le categorie che definivano le forme sociali di vita nel capitalismo. Ma mentre la borghesia tendeva a presentare queste come necessità astoriche, Marx le riconobbe in quanto forme storica­mente specifiche della relazione tra gli uomini e tra gli uomini e la natura. Il fatto che l’attività umana sia me­diata da relazioni sociali tra cose imprime alla sogget­tività umana un carattere atomizzato e senza oggetto. L’e­sperienza individuale nel capitalismo è pura sog­gettività, con tutta l’oggettività esistente contro di essa sotto forma di capitale:

La separazione della proprietà dal lavoro si presen­ta come legge necessaria di questo scambio tra ca­pitale e lavoro. Il lavoro posto come il non — capi­tale in quanto tale è 1) lavoro non oggettivato, ne­gativamente concepito […] separato da tutti i mezzi e gli oggetti di lavoro, dalla sua intera oggettività. È il lavoro vivo esistente come astrazione da questi momenti della sua effettiva realtà (e altresí come non valore); questa completa spoliazione, pura esi­stenza soggettiva, priva di ogni oggettività del lavo­ro. È il lavoro come miseria assoluta: la miseria non come privazione, ma come completa esclusio­ne della ricchezza oggettiva. […] 2) È lavoro non oggettivato, non valore, concepito positivamente, o negatività riferentesi a se stessa […]. È il lavoro non come oggetto, ma come attività non come va­lore esso stesso, ma come sorgente viva del valore. […] Non è affatto una contraddizione dunque affer­mare che il lavoro per un lato è la miseria assoluta come oggetto, per l’altro è la possibilità generale della ricchezza come soggetto e come attività o piuttosto i due lati di questa tesi del tutto contrad­dittoria si condizionano reciprocamente e derivano dalla natura del lavoro, giacché questo, come anti­tesi, come esistenza antitetica del capitale, è il pre­supposto dal capitale, e d’altra parte presuppone da parte sua il capitale.[16]

[…]

Il dibattito in Germania

La nuova appropriazione di Marx dalla quale è sorta la prospettiva della comunizzazione fu parte di un processo molto piú vasto di riappropriazione e svi­luppo di letture radicali di Marx. Dopo la rivoluzione ungherese del 1956, il comunismo ufficiale perse l’e­gemonia sul dissenso e sull’interpretazione di Marx nei paesi occidentali. Mentre Marx aveva detto «dubi­tate di tutto», il marxismo ortodosso o tradizionale tendeva a presentarsi come una visione del mondo unitaria con una risposta per ogni questione. Aveva una fi­lo­sofia onnicomprensiva (il «materialismo dia­lettico»), una visione meccanicistica della storia (il «materialismo storico») e il proprio pensiero econo­mico (l’«economia politica mar­xista»).[17] Questi pila­stri della versione ufficiale del marxismo furono messi in discussione attraverso un ritorno allo spirito critico di Marx, che ricordava da vicino il modo in cui una generazione precedente di marxisti critici era fiorita nel periodo immediatamente successivo alla rivoluzio­ne russa.[18]

La rivitalizzazione della teoria marxiana in quel periodo, cosí come negli anni ’20, comportò una rot­tura dalla visione del marxismo come un sistema posi­tivo di conoscenza e un rinnovo del riconoscimento della sua dimensione critica — un passaggio nel quale la relazione di Marx con Hegel fu nuovamente messa in questione. Da metà anni ’60, il rifiuto delle inter­pretazioni generalmente accettate di Marx iniziò ad estendersi al Capitale, il suo lavoro centrale. Nuove letture attinsero a precedenti manoscritti della critica dell’economia politica, ed erano interessate non solo ai risultati a cui Marx giunse, ma anche al metodo uti­lizzato per arrivarvi. Il Capitale venne in Francia ri­letto in modo strutturalista, in Italia Tronti e l’operai­smo vi si dedicarono «dal punto di vista della classe operaia» e in Germania sorse una Neue Marx-Lektüre («nuova lettura di Marx»).

La lingua tedesca dette alla Neue Marx-Lektüre un chiaro vantaggio sullo studio di Marx rispetto ad altri paesi. Questi nuovi testi del «Marx sconosciuto» generalmente divennero disponibili e conosciuti prima in tedesco che nelle altre lingue, e non si presentavano problemi legati alla traduzione.[19] Inoltre, la grande ri­sorsa culturale che Marx usò nella critica dell’econo­mia politica — l’idealismo classico tedesco — non era soggetto agli stessi problemi di ricezione che il pensiero hegeliano aveva in altri paesi. Cosí, mentre in Italia e in Francia le nuove letture di Marx tendeva­no ad avere una forte impronta antihegeliana in rea­zione a precedenti fascinazioni per l’hegelismo e con­tro il «marxismo hegeliano», le discussioni in Germa­nia furono capaci di sviluppare un quadro piú sfumato e informato del vincolo Hegel-Marx. Fondamental­mente si resero con­to che, nella descrizione della struttura logica della totalità reale delle relazioni so­ciali capitalistiche nel Capitale, Marx era in debito non tanto con la concezione hegeliana di una dialetti­ca storica, ma con la dialettica sistematica della Logi­ca. Il nuovo marxismo critico (a volte spregiativamen­te chiamato Kapitallogik) aveva di conseguenza meno in comune con il precedente marxismo critico di Lu­kacs e Korsch che con quello di Rubin e Pašukanis. La Neue Marx-Lektüre non fu una scuola omogenea ma un approccio critico con all’interno accese discus­sioni e vere divergenze tra interlocutori che nondime­no condividevano una certa direzione.

Il contesto politico in cui sorsero i dibattiti tede­schi fu l’ascesa di un movimento studentesco radicale. Il movimento aveva due poli: uno tradizionale, alle volte collegato con lo Stato della Germania dell’est e con un orientamento marxista ortodosso verso il movimento operaio, e un piú forte polo antiautorita­rio influenzato dalla teoria critica della scuola di Francoforte, in modo particolare dalla sua dimensione psicoanalitica, che offriva una spiegazione al perché i lavoratori sembravano disinteressati alla rivoluzione.[20] Grazie, e non in piccola par­te, all’influenza della scuola di Francoforte, il movimento studentesco tede­sco ottenne rapidamente fama per la sofisticatezza teorica dei suoi dibattiti. La visione, ma anche l’insta­bilità e l’ambivalenza, del polo antiautorita­rio trovarono espressione nella traiettoria del suo lea­der carismatico Rudi Dutschke. Nel 1966, influenzato fortemente da Korsch, decretò anacronistica «la teoria dei due stadi» della rivoluzione comunista e «del tutto discutibile per noi» dal momento che

pospone l’emancipazione reale della classe lavoratrice nel futu­ro e considera la presa del potere statale borghese da parte del proletariato come di primaria importanza per la rivoluzione sociale.[21]

Ma coniò anche lo slogan «lunga marcia nelle istituzioni» che divenne la ragion d’essere del partito tedesco dei Verdi (a cui lui aderí, insieme all’altro leader antiautoritario Daniel Cohn-Bendit). Oggi è la riformista e del tutto statista Die Linke (il partito di sinistra in Germania) che si identi­fica piú fortemente con la sua eredità politica. Una fi­gura piú importante dal punto di vista teorico all’inter­no della SDS fu Hans Jürgen Krahl, in modo partico­lare dopo che spararono a Dutschke. Krahl era uno studente di Adorno e portò molti dei concetti chiave delle «teoria critica» nel movimento, ma era anche un attivista (in un episodio tristemente famoso, Adorno denunciò alla polizia Krahl e i suoi compagni quando occuparono uno degli edifici dell’Istituto) e mantenne un orientamento ancorato al proletariato e alla lotta di classe.[22] Nonostante la Scuola di Francoforte, dedican­dosi a questioni di psicoanalisi, cultura e filosofia, avesse in gran parte abbandonato lo studio della criti­ca marxiana dell’e­conomia politica nelle mani dei marxisti, furono Krahl e altri studenti di Adorno — Hans George Backhaus, Helmut Reichelt — che die­dero inizio alla Neue Marx-Lektüre.

Cosí, mentre a rendere aperto il milieu «comu­nizzatore» alla radicalità dei nuovi testi marxiani fu il background nel comunismo dei consigli e in altre po­sizioni della sinistra comunista critiche del bolscevi­smo, in Germania — dove queste tendenze erano state distrutte nel periodo nazista[23] — fu Adorno e la scuola di Francoforte a giocare un ruolo in qualche modo equivalente. Sia il comunismo dei consigli che la scuola di Francoforte si svilupparono a partire dalla ri­flessione circa il fallimento della rivoluzione tedesca nel 1918–1919. Mentre la relazione del consigliarismo con la rivoluzione tedesca è piú immediato, Sohn-Rethel, parlando della scuola di Francoforte e di pen­satori vicini come Lukàcs e Bloch, cattura con un’espressione paradossale la loro relazione piú com­plessa con quel periodo:

lo sviluppo moderno del pensiero marxista in Ger­mania, di cui testimonia ad esempio la scuola di Francoforte, deriva da impulsi di allora, e quindi, in un certo senso, dipende dalla struttura teoretica ed ideologica della mancata rivoluzione tedesca[24]

Sebbene distaccata da qualsiasi ambiente proleta­rio, la scuola di Francoforte aveva provato a mantene­re vivo un marxismo critico ed emancipatore contro il suo sviluppo come ideologia apologetica per l’accu­mulazione statale in Russia. L’affinità con il comuni­smo dei consigli è piú evidente nei primi testi come Lo stato autoritario di Horkheimer, che gli studenti antiautoritari pubblicarono con la disapprovazione dello stesso Horkheimer, divenuto col tempo piuttosto conservatore. Ciononostante, una critica radicale della società rimane al centro dei testi meno immediata­mente politici di Adorno come quelli degli anni ’50 e ’60 e forse proprio per il fatto di evitare la logica dell’efficacia politica immediata. Mentre «l’ultrasini­stra» ha pro­vato a mantenere viva la promessa eman­cipatrice della teoria marxista contro gli sviluppi con­creti del movimento dei lavoratori enfatizzando l’autonomia contro la rappresentazione e le istituzioni della classe lavoratrice, la scuola di Francoforte ha provato a fare lo stesso, paradossalmente allontanan­dosi dalla lotta di classe immediata e dalle «questioni economiche».

Questo fece sí che la riappropriazione radicale di Marx negli anni ’60 in Germania assunse necessaria­mente la forma al contempo di una continuazione e di una rottura con la tradizione della scuola di Francofor­te. L’intersezione tra una sensibilità ispirata dalla scuola di Francoforte e l’attenzione per lo studio ap­profondito della critica dell’economia politica da essi evitata, viene espressa da un aneddoto su Backhaus. Secondo Reichelt, l’origine del programma della Neue Marx-Lektüre può essere individuata nel mo­mento in cui Backha­us, mentre era in un alloggio per studenti a Francoforte, incappò accidentalmente in una prima edizione del Capitale,[25] all’epoca molto ra­ra. Notò che le differenze con la seconda edizione bal­zavano immediatamente all’oc­chio, ma anche che questo fu possibile esclusivamente perché egli seguí le lezioni di Adorno sulla teoria dialettica della società, per cui:

Se Adorno non avesse ripetutamente presentato l’idea di un «concetto nella realtà stessa», di un ve­ro universale che può essere individuato nell’astra­zione dello scambio, senza le sue domande sulla costituzione delle categorie e la loro relazione in­terna con l’economia politica, e senza la sua conce­zione di una struttura oggettiva che è diventata au­tonoma, questo testo sarebbe rimasto silenzioso — semplicemente come lo fu per i già (allora!) cento anni di discussione sulla teoria del valore di Marx.[26]

I dibattiti sulla nuova lettura del Capitale inizia­rono realmente dopo il 1968. Le questioni che porta­rono allo scoperto, che vennero generalmente affron­tate solamente anni dopo e spesso in maniera meno profonda all’in­terno di discussioni in altre lingue, ri­guar­davano: il carattere del metodo marxiano e la va­lidità della sua interpretazione engelsiana; la relazione tra lo sviluppo dialettico delle categorie nel Capitale e la dialettica hegeliana; il significato degli a­spetti non completati del programma di Marx per la sua critica; l’importanza del termine critica e la differenza tra la teoria del valore di Marx e quella delle economia poli­tica classica; la natura dell’astrazione nel concetto marxiano di lavoro astratto e nella critica dell’econo­mia politica in generale.

Nonostante il loro carattere spesso filologico e astratto, ai dibattiti sulla nuova lettura del Capitale ve­niva attribuita un’importanza politica nell’attrito tra il polo antiautoritario e quello tradizionale all’interno del movimento studentesco, dove il secondo sosteneva che la cornice del marxismo ortodosso necessitava so­lo di essere aggiornata e aggiustata.[27] La Neue Marx-Lek­türe mise in discussione questo progetto di un’ortodossia rinnovata schierandosi niente meno che per una ricostruzione fondamentale della critica dell’economia politica.[28]

Al tempo, la visione dominante del metodo di la­voro utilizzato nel Capitale era una variante di quello logico-storico proposto da Engels in testi come la sua recensione del 1859 del Contributo ad una critica dell’economia politica di Marx e la sua prefazione e integrazione al terzo volume del Capitale. In questa visione, la progressione delle categorie del Capitale segue da vicino il loro reale sviluppo storico, cosí che i primi capitoli del Capitale sono intesi come descri­zione del periodo precapitalistico di «produzione semplice di merci» quando la «legge del valore» avrebbe agito in un modo puro. Nei dibattiti in Ger­mania e successivamente a livello internazionale, l’autorità di Engels — cosí come quella del marxismo tradizionale che da essa derivava — venne del tutto messa in discussione. La Neue Marx-Lektüre affer­mava che né l’interpretazione di Engels, né una delle sue modifiche proposte,[29] diedero giustizia al movi­mento che stava dietro l’ordine e lo sviluppo delle ca­tegorie nel Capitale. Piú che un avanzamento da un stadio non capitalistico, o un ipotetico modello sem­plificato, di semplice produzione di merci verso uno stadio avanzato, o un modello piú complesso, della produzione capitalistica di merci, il movimento nel Capitale doveva venire inteso come presentazione della totalità capitalistica fin dall’inizio, muovendo dall’astratto al concreto. In The Logical Struure of Marx’s Concept of Capital (La struttura logica del concetto di capitale in Marx), Helmut Reichelt svilup­pò un concetto che, sotto diverse forme, è ora basilare per i teorici della dialettica sistematica: ossia che la «logica del concetto di capitale» in quanto pro­cesso autodeterminato corrisponda all’andare al di là di se stesso del concetto nella Logica di Hegel.[30] Se­condo questa visione il mondo del capitale può essere visto come oggettivamente idealista: per esempio la merce è una «cosa sensibile sovrasensibile».[31] La dia­lettica della forma valore dimostra come, partendo dalla piú semplice forma merce, gli aspetti materiali e concreti del processo della vita sociale sono dominati dalle astratte e ideali forme sociali del valore. Per Marx, come Reichelt nota:

Il capitale è concepito come un continuo cambia­mento di forme, nel quale il valore d’uso è costan­temente integrato e allo stesso tempo espulso. In questo processo, anche il valore d’uso, assume la forma di un oggetto eternamente evanescente. Ma questa scomparsa continuamente rinnovata dell’oggetto è la condizione per la perpetuazione del valore stesso — è attraverso il cambio di forme costantemente rinnovato che si conserva l’unità im­mediata di valore e valore d’uso. Ciò che dunque viene a costituirsi è un mondo capovolto nel quale il sensibile nel suo senso piú vasto — come valore d’uso, lavoro, scambio con la natura — è degradato a mezzo della auto riproduzione di un processo astratto che sottostà all’intero mondo oggettivo in continuo cambiamento. […] L’intero mondo sensi­bile degli esseri umani che riproducono se stessi at­traverso il soddisfacimento dei propri bisogni e il lavoro è, pezzo per pezzo, risucchiato in questo processo, nel quale tutte le attività sono «in sé stes­se capovolte». Sono tutte nella loro apparenza eva­nescente, immediatamente il loro opposto, la persi­stenza del generale.[32]

Questo è il capovolgimento ontologico, la pos­sessione della vita materiale da parte del capitale. È ciò che Camatte comprese nel suo riconoscimento dell’importanza della comprensione del capitale in quanto valore in processo e come sussunzione. Se non c’è valore d’uso che non sia nella forma di valore nel­la società capitalistica, se valore e capitale costituisco­no una potente, totalizzante forma di socializzazione che modella ogni aspetto della vita quotidiana, il loro superamento non è una questione di semplice sostitu­zione dei meccanismi del mercato attraverso un con­trollo statale o l’autogestione dei lavoratori di que­ste forme, ma richiede la trasformazione radicale di ogni sfera della vita. Per contrasto, la concezione tra­dizionale del marxismo derivata da Engels — secondo cui la legge del valore preesisteva al capitalismo — creò una separazione tra la teoria del mercato e del va­lore e quella del plusvalore e dello sfruttamento e cosí facendo creò la possibilità di idee come la legge del valore socialista, una forma di denaro socialista, un «mercato socialista» e cosí via.

Un Marx incompleto?

Parte della natura dogmatica del marxismo orto­dosso consisteva nel considerare i lavori di Marx co­me un sistema completo al quale si doveva aggiungere solamente l’analisi storica degli stadi successivi del capitalismo, come l’imperialismo. La scoperta dei ma­no­scritti e del piano di lavoro per la critica del­l’e­cono­mia politica dimostrò che il Capitale era incompleto, non solo nel senso che i volumi due e tre, e le Teorie sul plusvalore, non sono stati terminati da Marx e so­no stati redatti rispettivamente da Engels e Kautsky,[33] ma anche che questi costituivano solo il primo di sei libri pianificati, insieme ai libri sulla proprietà della terra, il lavoro salariato, lo stato, il commercio estero, e «Il mercato mondiale e le crisi.»[34] Il riconoscimento del fatto che ciò che esiste è solo un frammento del progetto di Marx fu di grandissima importanza, poi­ché implicò una visione della teoria marxiana come progetto radicalmente aperto e diede inizio allo svi­luppo di aree di indagine che vennero a malapena toc­cate dallo stesso Marx. Il cosiddetto dibattito sullo sta­to e il dibattito sul mercato mondiale furono tentativi di sviluppare alcune di quelle aree che Marx stesso non trattò sistematicamente nel Capitale.[35]

Attingendo al pionieristico lavoro di Pašukanis, i partecipanti al dibattito sulla derivazione dello stato intesero la separazione tra «sfera economica» e «sfera politica» come caratteristica peculiare della domina­zione capitalistica. L’implicazione fu che — lontana dal dar vita ad un’economia socialista e uno stato dei lavoratori, come nel marxismo tradizionale — la rivoluzione dovrebbe essere concepita come di­struzione sia della «sfera economica» che dello «sta­to». Nonostante l’aspetto astratto, e alle volte scolasti­co, di questi dibattiti, si inizia in questo modo a vede­re come il ritorno critico a Marx, sulla base delle lotte dei tardi anni ’60 in Germania, ebbe implicazioni spe­cifiche e radicali per la concezione del superamento del modo di produzione capitalistico.

Questo è ugualmente vero per il centrale concet­to marxiano di lavoro astratto per come è concepito nei dibattiti tedeschi sul valore. Mentre nella scienza sociale borghese, e nella forma dominante del marxi­smo, l’astrazione è un fatto mentale, Marx affermò che nel capitalismo era presente una forma differente di astrazione: «astrazione reale» o «pratica» che le persone mettono in atto nello scambio senza nemme­no rendersene conto. Come indica l’aneddoto di Rei­chelt su Backhaus, fu l’idea di Adorno di un concetto oggettivo nella vita sociale capitalistica ad ispirare l’approccio caratteristico della Neue Marx-Lektüre al­la critica marxiana dell’economia politica. Questa idea di Adorno e la sua nozione di «pensiero dell’i­dentità» sono state a loro volta ispirate dalle idee che Alfred Sohn-Rethel gli comunicò negli anni ’30. Il dibattito in Germania avanzò cosí in seguito alla pubblicazio­ne, avvenuta nel 1970, di queste idee nel libro di Sohn-Rethel Lavoro manuale e lavoro intel­lettuale.[36] In questo lavoro Sohn-Rethel identifica l’astrazione dall’uso che si da nel processo di scambio come la radice non solo dello strano tipo di sintesi so­ciale nella società della merce, ma proprio dell’esi­stenza del ragionamento concettuale astratto e dell’esperienza dell’intelletto indipendente. La tesi di Sohn-Rethel è che il «soggetto trascendentale» teoriz­zato esplicitamente da Kant non è altro che un’espres­sione teoretica e allo stesso tempo cieca dell’unità o identità della cose costituite attraverso lo scambio. Ta­li idee, insieme a quelle di Pašukanis su come il «sog­getto legale» e la merce siano storicamente coprodot­te, fanno parte di un periodo di disamina critica in cui tutti gli aspetti della vita, incluso il nostro senso di soggettività interna e la coscienza, vennero concepite come forme determinate dal capitale e dal valore.

Per Marx l’esempio piú calzante di «astrazione reale» è la forma denaro del valore, e probabilmente il contributo piú longevo del dibattito tedesco consiste nello sviluppo di una «teoria monetaria del valore» lungo la via già tracciata da Rubin. In un passaggio importante della prima edizione del Capitale Marx de­scrive il denaro come un’astrazione che perversa­mente prende un’esistenza nel mondo reale in maniera indipendente dalle sue particolarità —

È come se a fianco e al di là di leoni, tigri, conigli e tutti gli altri animali reali… esistesse in aggiunta anche l’animale, l’incarnazione indipendente dell’in­tero regno anima­le.[37]

I prodotti del lavoro privato devono essere scambiati con queste rappresentazioni concre­te di la­voro astratto affinché la loro validità sociale possa es­sere realizzata in pratica. Cosí un’astrazione, piú che essere un prodotto del pensiero, esiste nel mondo co­me un oggetto dotato di oggettività sociale di fronte al quale tutto si deve inchinare.

Il marxismo tradizionale non diede importanza a questo dibattito, e seguí generalmente Ricardo e gli economisti borghesi nel vedere il denaro come un semplice mezzo per facilitare lo scambio di valori-merce preesistenti. Al contrario il dibattito tedesco no­tò lo strano tipo di oggettività del valore — che non fa parte di nessuna merce particolare, ma esiste solo nel­la relazione delle equivalenze tra una merce e la totali­tà delle altre merci — un qualcosa che può essere ge­nerato solo attraverso il denaro. Questo ruolo del de­naro in una società mercantile generalizzata influisce sull’esperienza dello stesso lavoro vivo. Dal momento che il lavoro è semplicemente un’attività svolta per il denaro, il tipo di lavoro svolto non ha importanza ed è casuale. Il legame organico che esisteva in società precedenti tra individui particolari e specifiche forme di lavoro è spezzata. Un soggetto capace di muoversi indifferentemente tra diverse forme di lavoro si è for­mato:

Qui, dunque, l’astrazione della categoria «lavoro», il «lavoro in generale», il lavoro sans phrase, che è il punto di partenza dell’economia moderna, divie­ne per la prima volta praticamente vera. Così l’astrazione piú semplice che l’economia moderna pone al vertice e che esprime una relazione anti­chissima e valida per tutte le forme di società, si presenta tuttavia praticamente vera in questa astra­zione solo come categoria della società moderna.[38]

Il lavoro astratto, quindi, in quanto astrazione pratica è una forma di lavoro fondamentalmente capi­talistica, un prodotto della riduzione di tutte le attività all’attività astratta finalizzata al generare denaro. Nel­la visione tradizionale, il superamento del modo capi­talistico di produzione non necessita di abolire il lavo­ro astratto: il lavoro astratto, secondo questa visione, è una astrazione generica, una verità generale e transtorica sottostante l’apparenza della forma mercantile nel modo di produzione capitalistico. Questa verità ri­splenderebbe nel so­cialismo, dopo avere eliminato il ruolo parassitario dei capitalisti e aver rimpiazzato l’organizzazione anarchica del mercato del lavoro so­ciale con la pianificazione statale. Da un punto di vi­sta critico, il marxismo tradizionale aveva trasformato delle forme e leggi capitalistiche in generali leggi sto­riche: in aree relativamente arretrate come la Russia, dove il marxismo diventò l’ideologia di uno sviluppo industriale a guida statale, il Capitale divenne una sor­ta di «manuale delle istruzioni». Al contrario, per i teorici della forma valore, la teoria del valore di Marx, in quanto teoria monetaria del valore, non è una teo­ria circa la distribuzione della ricchezza sociale, ma piuttosto una teoria della costituzione della totalità so­ciale sotto i dettami della produzione capitalistica del­la merce.39

La questione venne dunque spostata dalla distribuzione al superamento della forma del lavoro, della ricchezza e del modo di produzione stesso.

In diversi paesi, alle volte grazie alla conoscenza dei dibattiti tedeschi ma anche indipendentemente, ispirati da testi come i Grundrisse e i Saggi di Rubin, sorsero questioni simili a cui vennero trovate simili ri­sposte. Per esempio, l’importanza della forma valore venne ripresa da Jacques Ranciere, allora seguace di Althusser. Althusser aveva correttamente identificato la completa rottura con il terreno teoretico di Ricardo e dell’economia politica classica ma fu incapace di identificare l’analisi della forma valore come centrale per questa rottura, perché la rifiutò a causa del suo «hegelismo». Ranciere, ad ogni modo, notò che ciò che distingue radicalmente Marx dalla teoria econo­mica classica è l’analisi della forma valore della mer­ce (o della for­ma merce del prodotto del lavoro).[40]

Questo riconoscimento fu fatto proprio anche da un altro antihegeliano, Colletti,[41] e alimentò un dibattito in Italia iniziato da lui stesso e Napoleoni,[42] che giun­se a conclusioni vicine a quelle dei teorici della forma valore. Nel dibattito anglofono, dove pochissi­mo del dibattito tedesco venne tradotto fino alla fine degli anni ’70, Rubin ebbe una grande importanza.[43] Nella Conferenza degli economisti socialisti, un fo­rum centrale per queste discussioni, ci fu un acceso conflitto tra la teoria del valore basata sul lavoro so­ciale astratto e ispirata da Rubin e u­na piú tradiziona­lista teoria del valore basata sul lavoro incarnato. Quelli del primo gruppo si diressero verso una teoria monetaria del valore, come nelle discussioni tedesche, ma la Logica di Hegel venne discussa troppo poco e la sua rilevanza troppo poco apprezzata per comprendere la relazione sistematica delle categorie nel Capitale.[44] In assenza di una traduzione di Reichelt e Backhaus, i pochi anglofoni che seguirono i tedeschi nell’intento di ricostruire il Capitale,[45] la scuo­la di Konstanz-Syd­ney, identificata come «value-form school» (scuola della forma valore), veniva vista dalla maggior parte dei partecipanti come eccessivamente estrema. È una caratteristica della dialettica sistematica, per come è emersa recentemente, quella di avere al centro della discussione le suggestioni del bisogno di una ricostru­zione piú radicale.

(Anti)Politica della teoria del valo­re.

 

La rilevanza critica della teoria della forma valore consiste nel mettere in questio­ne qualsiasi conce­zione politica basata sul­l’affermazione del proletariato in quanto produttore di valore. Riconosce il lavoro di Marx come una critica essenzialmente negativa della società capitalista. Attraverso la ricostruzione della dialettica marxiana della forma valore, dimostra come il processo della vita sociale venga sussunto, o deter­minato nella sua forma, dalla forma valore. Ciò che caratterizza tale «determinazione della forma» è una perversa priorità della forma sul contenuto. Il lavoro non preesiste semplicemente alla sua oggettivizzazio­ne nella merce capitalista come terreno positivo da li­berare nel socialismo o nel comunismo attraverso la modificazione della sua espressione formale. Piutto­sto, in modo fondamentale, il valore, in quanto prima­ria mediazione sociale, preesiste e di conseguenza ha il dominio sul lavoro. Come argomenta Chris Arthur:

Al livello piú profondo, il fallimento della tradizio­ne che usa il modello della «simple commodity pro­duion», consiste nel focalizzarsi sull’individuo umano come origine delle relazioni del valore, piú che vedere l’attività umana come oggettivamente inscritta nella forma valore… Ad ogni modo, in ve­rità, la legge del valore è imposta alle persone attra­verso l’efficacia di un sistema con il capitale al suo cuore, il capitale che subordina la produzione di merci è l’obbiettivo della valorizzazione ed è il ve­ro soggetto (identificato in quanto tale da Marx) che ci affronta.[46]

Mentre sembra vero e politicamente efficace[47] di­re che noi produciamo capitale con il nostro lavoro, è in realtà piú corretto dire (in un mondo che è vera­mente sottosopra) che noi, in quanto soggetti del la­voro, siamo prodotti dal capitale. Il tempo di lavoro socialmente necessario è la misura del valore solo per­ché la forma valore pone il lavoro come suo contenu­to. In una società non piú dominata da forme alienate, non piú organizzata attorno l’autoespansione di ric­chezza astratta, l’ossessione per il lavoro che caratte­rizza il modo capitalistico di produzione scompa­rirà.[48] Con la scomparsa del valore, il lavoro astratto scom­pare in quanto categoria. La riproduzione degli indivi­dui e i loro bisogni diventano il vero fine in sé. Senza le categorie di valore, lavoro astratto e salario, il «la­voro» cessa di avere il suo ruolo sistematico come de­terminato dalla primaria mediazione sociale: il valore.

Questo è il motivo per cui la teoria della forma valore, per quanto riguarda la nozione di rivoluzione che muove da essa, è orientata nella stessa direzione della comunizzazione. Il superamento delle relazioni sociali capitalistiche non può comprendere una sem­plice «liberazione del lavoro»; piuttosto, l’unica «via di uscita» è la soppressione del valore stesso, della forma valore che pone il lavoro astratto come misura della ricchezza. La comunizzazione è la distruzione della forma merce e la simultanea fondazione di rela­zioni sociali immediate tra gli individui. Del valore, inteso come forma totalitaria della mediazione sociale, non ce ne si può sbarazzare solo a metà.

Il fatto che pochi teorici della forma valore han­no esplicitamente dedotto queste radicali conclusioni politiche dal loro lavoro è del tutto irrilevante: queste conclusioni politiche (o antipolitiche) radicali sono per noi le implicazioni logiche dell’analisi.

Un ritorno a Marx?

 

Il riconoscimento da parte della teoria della forma valore del «nocciolo nascosto» della marxiana critica dell’economia politica potrebbe suggerire che già nel 1867 Marx comprese il valore come una forma totalizzante di mediazione sociale da superare in bloc­co. In questo senso il marxismo, con la sua storia dell’affermazione del lavoro e l’identificazione con «l’accumulazione socialista» a guida statale, potrebbe essere visto come una storia del fraintendimento di Marx. La lettura corretta, che punta ad una negazione radicale del valore è stata, secondo questo punto di vi­sta, in qualche modo mancata. Ad ogni modo, se la teoria marxiana della forma valore implicava la co­munizzazione nella moderna accezione, allora era un’implicazione che lo stesso Marx evidentemente non scorse.

Infatti, l’atteggiamento di Marx verso l’im­por­tanza della sua teoria del valore fu ambivalente. Da una parte Marx insistette sul­l’im­portanza «scientifi­ca», ma in reazione alle difficoltà che i suoi lettori eb­bero nel comprendere le sue sottigliezze sembrò voler venire a compromessi su di essa per il bene della rice­zione del resto del proprio lavoro.[49] Oltre a voler vol­garizzare il suo lavoro e «nascondere il suo metodo», permise ad Engels (che come abbiamo visto fu uno di quelli che ebbero difficoltà su questo aspetto del lavo­ro del proprio amico) di scrivere varie recensioni in cui l’analisi del valore e del denaro veniva minimizza­ta in modo da non «ridurre l’argomento principale». Sembra che Marx ebbe questa posizione:

La teoria del valore è il prerequisito logico della sua teoria della produzione capitalista, ma non è in­dispensabile per la comprensione di ciò che questa seguente teoria significhi, e specialmente cosa sia la critica della produzione capitalista. Il dibattito marxista negli ultimi anni ha adottato questa pre­sunta attitudine marxiana (cfr. anche il consiglio di Marx alla signora Kugelmann)[50] in o­gni direzione ponendo il problema se la teoria marxiana del valo­re è necessaria per la teoria marxiana dello sfrutta­mento di classe.[51]

Marx sembrò accettare che una lettura piú o me­no ricardiana di sinistra del suo lavoro potesse essere adeguata per le necessità del movimento dei lavorato­ri. I suoi scritti politici supponevano che una potente classe lavoratrice, unendosi attorno un’identità di clas­se sempre piú omogenea, avrebbe semplicemente esteso, tramite i suoi sindacati e i suoi partiti, le sue lotte quotidiane in un superamento rivoluzionario del­la società capitalistica. Contro Lassalle e il marxismo socialdemocratico dei suoi tempi, Marx scrisse la cau­stica Critica del Pro­gramma di Gotha nella quale ne attaccò fortemente le posizioni a favore del lavoro e gli assunti incoerenti in materia di politica economica. Ma non pensò fosse necessario pubblicarlo. E in piú le idee che propone anche nella Critica (che venne poi pubblicata da Engels) non sono per niente prive di problematiche. Includono una teoria della transizione nella quale il diritto borghese continuerebbe a prevale­re nella distribuzione attraverso l’uso di buoni lavoro e in cui la descrizione del «primo stadio del sociali­smo» è molto piú vicino al capitalismo di quanto lo sia al piú attraente secondo stadio, ma senza spiegare il meccanismo secondo cui il primo evolve nel secon­do.[52]

Sarebbe sbagliato suggerire che i dibattiti tede­schi ignorarono la distanza tra la posizione radicale che molti di loro stavano deducendo o sviluppando a partire dalla critica marxiana e la politica dello stesso Marx. Nei tardi anni ’70 un modo significativo in cui questa questione iniziò ad essere compresa fu nei ter­mini di una differenza tra un «Marx esoterico» con una critica radicale del valore in quanto forma di una mediazione sociale totalizzante e un «Marx essoteri­co» in sintonia e in appoggio degli obbiettivi del mo­vimento dei lavoratori del suo tempo.[53] Il Marx esso­terico veniva inteso come se fosse basato su una lettura sbagliata del potenziale radicale del proletaria­to del 19° secolo. Una forte tendenza nel contesto te­desco divenne quella di rifiutare il Marx essoterico in favore del Marx esoterico. L’idea di Marx del capitale come soggetto automatico e inconscio rimpiazzò l’idea, che anche lui sembrò avere, di un proletariato come soggetto della storia. La lotta di classe non vie­ne negata in questa visione ma vista come «immanen­te al sistema» — come qualcosa che si muove attra­verso le categorie — e l’abolizione delle categorie viene ricercata altrove. Secondo questa visione Marx semplicemente sbagliò a identificarsi con il movimen­to dei lavoratori, che con il senno di poi ci ha dimo­strato essere un movimento per l’emancipazione all’interno della società capitalistica e non il movi­mento di abolizione di quella società. Questa tendenza è esemplificata dai gruppi della «critica del valore» Krisis e Exit. Nonostante non usi la distinzione esote­rico/essoterico, Moishe Postone, che ha sviluppato il suo pensiero a Francoforte nel primi anni ’70, argo­menta essenzialmente in favore dello stesso tipo di posizione. In Time, Labor and Social Domination (Tempo, lavoro e dominazione sociale) vede Marx offrire una «critica del lavoro nel capitalismo» (il Marx esoterico) piuttosto che, come nel marxismo tradizio­nale, una «critica dal punto di vista del lavoro» (il Marx essoterico). È interessante rivelare che a parte il fatto di aver tolto l’attenzione dalla classe, Postone è piú esplicito della maggior parte dei marxisti accade­mici della forma valore nel dedurre le conclusioni dal­la sua teoria che in termini politici lo posiziona nell’ultrasinistra o addirittura in accordo con le tesi della comunizzazione.[54] […]

 

XXXXXXXXXXXXXXXXX

 

Nota redazionale.

Di piú, il marxismo si è decomposto nelle due forme del materialismo dialettico e del socialismo; il processo del comunismo è orientato verso l’accettazione dei valori della società opulenta, misurata dal sociologismo. Dunque perdita della dimensione del passato (è ciò che la società borghese ha accettato dal marxismo realizzandosi come puramente borghese, separata dal riferimento ad ogni altro valore che la «mistificava»), ma insieme di quella dell’avvenire. Dunque, alla realizzazione della pienezza e della libertà umana si è sostituito il processo di involuzione dell’uomo nell’animalità, cioè il nichilismo radicale. Espressione di questa borghesia soltanto tale, cioè di una società ridotta ai puri rapporti economici, è l’attuale democrazia pura, come democrazia elevata a valore, che differisce dal totalitarismo nei precisi termini in cui la «perdita del sacro» differisce dall’ateismo, e soltanto in essi: perché è anch’essa fondata, in ultima analisi, sulla forza, come quantità di voti, né riconosce, oltre alla forza, autorità di altri valori. (Augusto Del Noce. l problema dell’ateismo, Il Mulino, Bologna, 1990, pp. 566–569

Il lettore del Covile si sarà forse chiesto  perché una rivista di taglio conservatore è da qualche tempo attenta ad aree culturali che si richiamano al marxismo, cercando di vedere i risvolti e gli esiti della discussione al loro interno. Abbiamo definito gli autori di queste aree marxisti antimoderni, a significare che attingono il loro pensiero da quello di Marx in modo diverso ma  altrettanto legittimo rispetto ai partiti comunisti protagonisti della lunga e tragica stagione rivoluzionaria del novecento conclusasi con la dissoluzione dei socialismi reali, ma anche rispetto a coloro che, prendendo atto del fallimento delle rivoluzioni comuniste, intendono ancora riferirsi a Marx come campione del progressismo culturale. Abbiamo voluto cioè far risaltare che nell’analisi marxiana del capitale esistono concetti quali quelli ad esempio di alienazione e estraniazione, mai rinnegati dal suo autore anche se largamente trascurati dalla sua lettura egemone, che pongono o dovrebbero porre serissimi interrogativi: ovviamente a chi al marxismo si richiama, ma non solo a costoro. Come sostenne Giovanni Paolo II dopo la caduta dei regimi comunisti atei, per la quale si era molto adoperato, ora un altro e ancor piú temibile avversario si stagliava all’orizzonte: quello di un capitalismo altrettanto ateo, o meglio a-religioso, attento solo agli aspetti materiali del­l’e­sistenza. Le parole di Augusto Del Noce riportate sopra hanno identico significato. Oggi, a ormai tanti anni di distanza, possiamo ben dire che ciò che allora appariva solo come una possibilità, in realtà era consustanziale all’essenza stessa del capitale. Se Del Noce parlava di una borghesia soltanto tale, cioè di una società ridotta ai soli rapporti economici, e senza discutere in questa sede se la borghesia (e il proletariato) esistono ancora all’epoca del capitalismo finanziario globalizzato, appare ormai chiaro che la desacralizzazione, l’alienazione e l’estraniazione generalizzate, la deidentificazione e l’omologazione degli esseri u­mani ridotti a macchine per il consumo, cloni l’uno dell’altro a dispetto del conclamato sdoganamento di ogni diversità, non sono aspetti accidentali o contingenti del capitale, ma la sua vera realtà, il suo begriff (concetto). Finalmente liberatosi da bardature e freni che lo appesantivano (irrilevanza concreta delle religioni col loro portato di esigenze etiche e morali, sottomissione ferrea del politico all’e­conomico), il capitalismo può dispiegare pienamente sé stesso. Tutto ciò interroga necessariamente il marxismo, soprattutto la lettura di Marx in chiave progressista sul piano culturale col corollario della inesistenza di una natura in sé degli esseri umani, e la pretesa della sua scientificità come scoperta definitiva delle leggi di trasformazione sociale. Sempre Del Noce, trattando de Il suicidio della rivoluzione, ebbe a scrivere parole illuminanti:

Ma la riduzione della ragione marxista a semplice ragione scientifica, non sembra significare affermazione della naturalità filosofica del marxismo? E affermare questo non è anche smorzarne lo spirito rivoluzionario? Si può ancora parlare di rivoluzione quando questa non attinge i valori?

Ma gli esiti oggi evidenti del capitalismo interrogano pesantemente anche il pensiero conservatore classico [55] e quello cattolico, o meglio quella sua parte, del resto assolutamente prevalente, che, legatasi al capitalismo liberale in opposizione all’ateismo marxista dei paesi comunisti, ha creduto di poter realizzare in esso, o per suo tramite, le proprie istanze. Lo vediamo ogni giorno, ad esempio nell’illusione di conciliare il capitalismo con la difesa della vita dal concepimento alla sua fine o con la difesa della differenza sessuale; in generale nell’illusione che le liberaldemocrazie occidentali siano il luogo politico, economico e culturale in cui le istanze conservatrici in termini di etica e di morale ma anche di consolidati usi, costumi, tradizioni popolari e religiose, insomma in tutto ciò che Burke definiva come ordine sociale, possa meglio essere preservato.

Si dà allora la necessità di una reciproca, profonda riflessione, senza cadere nel sincretismo o perorare alleanze politiche spurie. Crediamo che il testo di Endnotes sulla forma valore che proponiamo in questo numero, esemplare nella sua chiarezza, possa essere un contributo importante di rivisitazione della propria cultura, non solo per chi si richiama al marxismo, ma anche per coloro che, da posizioni cultu­rali opposte, intuiscono gli esiti finali della modernità. Del resto, cosí come il marxismo piú intelligente è debitore verso il grande pensiero conservatore, non c’è nulla di scandaloso nell’am­mettere anche il contrario.

[1] Marx, Il Capitale, a cura di Aurelio Macchioro e Bruno Maffi, Torino, Utet, 2009, vol. 1, p. 160, nota a.

[2] Marx, Il Capitale, cit., vol. 1, pp. 158–59.

[3] Allo stesso tempo, Marx stesso sembrò riconoscere l’esistenza di un problema nella sua analisi della forma valore, che lo portò a redigere al­meno quattro versioni sull’argomento. Ci sono differenze notevoli nello sviluppo del concetto di valore nei Grundrisse, Urtext, il Contributo, la prima edizione del Capitale con la sua appendice, e la seconda edizione del Capitale; e le versioni successive non possono in nessun modo esse­re considerate come miglioramenti generali rispetto a quelle precedenti. Infatti le presentazioni in qualche modo piú popolari — che Marx svi­luppò in risposta alla difficoltà che persino chi gli era vicino ebbe nel comprenderlo — persero alcune sottigliezze dialettiche, e si prestarono di piú alle letture «ricardiane di sinistra» del ragionamento marxiano che avrebbero poi dominato il movimento dei lavoratori. Vedi Hans-Georg Backhaus, «On the Dialeics of the Value-Form» Thesis Eleven 1 (1980); Helmut Reichelt, «Why Marx Hid His Dialeical Method» in Werner Bonefeld et al., eds, Open Marxism vol. 3 (Pluto Press, 1995).

[4] Isaak Rubin, Saggi sulla teoria del valore di Marx, Milano, Feltrinelli, 1976, p. 5.

[5] Ibid., p. 94. Riccardo Bellofiore ha fatto notare che Rosa Luxemburg fu un’altra eccezione all’interno del marxismo tradizionale nell’aver posto attenzione alla forma valore. Vedi la sua introduzione a Rosa Luxem­burg and the Critique of Political Economy (Routledge 2009), p.6.

[6] K. Marx, Forme che precedono la produzione capitalistica, Editori Riu­niti, Roma, 1991, pp. 29–30.

[7] Jacques Camatte, Il Capitale totale. Il «capitolo VI» inedito de «Il Ca­pitale» e la critica dell’economia politica. Edizioni Dedalo, Bari, 1976. Originariamente pubblicato in Invariance Prima serie n.2 (1968).

[8] Roman Rosdolsky, Genesi e struttura del Capitale di Marx. Edizioni Laterza, Bari, 1971. Originariamente pubblicato in tedesco nel 1968.

[9] Camatte tuttavia critica Rosdolsky per «non giungere al punto di affer­mare ciò che crediamo sia fondamentale: il capitale è valore in proces­so, che diventa uomo.» Jacques Camatte, Il Capitale totale, cit., p.19.

[10] Questo è una lettura dei Grundrisse che piú tardi verrà identificata con Negri. Infatti è stato sostenuto che i primi lavori di quest’ultimo siano debitori per certi versi nei confronti di Camatte. Al di là delle notevoli ambivalenze della politica dell’autonomia, il capitolo «Comunismo e transizione» in Marx oltre Marx (1978) di Negri argomenta essenzial­mente in favore della comunizzazione.

[11] Commentando la sua precedente idea di un «dominio formale del co­munismo» Camatte scrive: «la periodizzazione perde oggi la sua validi­tà; inoltre la rapidità della realizzazione del comunismo sarà accelerata rispetto a quanto si è pensato in precedenza. Infine dobbiamo specifica­re che il comunismo non è ne un modo di produzione, né una società..» Questa nota compare nell’edizione inglese a p. 148, n.19 mentre nella traduzione italiana la stessa nota compare a p. 466 n. 25 ma senza l’aggiunta del 1972 qui riportata. La traduzione dall’inglese è quindi nostra.

[12] Ibid., p. 25 (Nota del 1970).

[13] Gilles Dauvé (Jean Barrot) «Sur l’Ultragauche» (1969), prima edizione in inglese con il titolo «Leninism and the Ultraleft» in: Jean Barrot (Gil­les Dauvé) e François Martin, Eclipse and Re-Emergence of the Communist Movement, Black and Red, 1974, p. 104.

[14]«Giacché la ricchezza reale è la produttività sviluppata di tutti tutti gli individui. E allora non è piú il tempo di lavoro, ma il tempo disponibile la misura della ricchezza.» Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, Firenze, 1978, II volu­me, p. 405. È interessante il fatto che Moishe Postone, il quale ha chia­rito esplicitamente le implicazioni politiche radicali dell’approccio «forma valore» ponga questi passaggi alla base della propria reinterpre­tazione di Marx. Si veda: Time, Labor and Social Domination (Cam­bridge University Press 1993).

[15] Gilles Dauvé, Eclipse and Re-Emergence of the Communist Movement, Black and Red, 1974, p. 61, traduzione nostra

[16] K. Marx, Lineamenti, cit., I vol., pp. 279–80.

[17]Per un’interpretazione del «marxismo tradizionale» come «marxismo filosofico» («worldview marxism») si veda Michael Heinrich, «Inva­ders from Marx: On the Uses of marxian Theory, and the Difficulties of a Contemporary Reading», Left Curve 31 (2007) pp. 83.8. Questo mo­do di caratterizzare il «marxismo tradizionale» sembra avere origine con il marxista umanista Iring Fetscher, con il quale Reichelt e Postone studiarono. Si veda il suo Marx and Marxism (Herder and Herder 1971).

[18] Lavori di spicco di quel periodo sono Storia e coscienza di classe di Lu­kács, Marxismo e filosofia di Korsch, Saggi sulla teoria del valore di Marx di Rubin e La teoria generale del diritto e il marxismo di Pašuka­nis. Una delle caratteristiche del nuovo periodo fu la riscoperta di molti testi di questo periodo precedente, e un approfondimento delle loro te­matiche.

[19] Come nota Chris Arthur, un esempio significativo di ciò consiste nel fatto che quasi tutti i riferimenti al lavoro «incorporato» nel Capitale sono traduzioni del termine tedesco Darstellung che potrebbe essere tradotto in modo migliore con «rappresentato». Si veda «Reply to Cri­tics» Historical Materialism 13.2 (2005) p.217

[20] Questo includeva un interesse per Freud e Reich combinato con i feroci attacchi di Adorno al revisionismo della psicoanalisi contemporanea, il Marcuse di Eros e civiltà e L’uomo ad una dimensione e l’analisi della Scuola della «personalità autoritaria».

[21] Rudi Dutschke, «Zur Literatur des revolutionären Sozialismus von K.­Marx bis in die Gegenwart» SDS-korrespondenz Sondernummer 1966

[22] Krahl morí in un incidente automobilistico nel 1970. La collezione dei suoi scritti e discorsi pubblicata postuma — Konstitution und Klassen­kampf — non è stata ancora tradotta in inglese. [In italiano: Hans Jürgen Krahl, Costituzione e lotta di classe, Milano, Jaca Book, 1973. (N.d.R.)]

[23] Un eccezione significativa fu quella di Willy Huhn, che influenzò alcu­ni membri della SDS di Berlino. Membro di «Rote Kämpfer», un nuovo raggruppamento di membri del KAPD dei tardi anni ’20, Huhn fu im­prigionato per un breve periodo dai nazisti nel 1933–34, dopodiché tor­nò al lavoro teorico che include un’importante critica della socialdemo­crazia: Der Etatismus der Sozialdemokratie: Zur Vorgeschichte des Na­zifaschismus. Ciononostante fu solo dopo il picco del movimento che i comunisti dei consigli vennero riscoperti a dovere e pubblicati.

[24] Egli aggiunge: «La condizione paradossale di questo movimento ideo­logico può aiutare a spiegare la sua quasi esclusiva preoccupazioni per questioni sovrastrutturali, e l’evidente mancanza di attenzione per la ba­se economica e materiale sottostante.» Alfred Sohn-Rethel, Lavoro ma­nuale e lavoro intellettuale, Feltrinelli, 1977, p. 19 Cfr. la prima riga della Dialettica Negativa di Adorno: «La filosofia che una volta sembrò superata si mantiene in vita perché è stato mancato il momento della sua realizzazione.» Theodor Adorno, Dialettica Negativa, Einaudi, 2004, p. 5.

[25] La prima edizione tedesca del Capitale presentava grosse differenze — specialmente nella struttura e nello sviluppo del primo capitolo sulla merce e sul valore — rispetto alla seconda edizione, che fu la base delle successive edizioni leggermente modificate e delle traduzioni in altre lingue

[26] Helmut Reichelt, Neue Marx-Lektüre: Zur Kritik sozialwissenschaftli­cher Logik (VSA-Verlag, 2008) p.11.

[27] Mentre il polo marxista tradizionale della SDS fino al 1968 fu essen­zialmente riformista, appellandosi ad una transizione legale al sociali­smo, quello che emerse dopo il 1968 fu antirevisionista in senso maoi­sta-stalinista. Questo fu il periodo in cui molti che un tempo furono antiautoritar persero la loro critica del marxismo partitico e vennero coinvolti nella fondazione dei «K-Groups» («K» stava per Kommunist).

[28] Si veda Michael Heinrich, «Reconstruion or Deconstruion? Metho­dological Controversies about Value and Capital, and New Insights from the Critical Edition» in Riccardo Bellofiore e Roberto Fineschi, eds., Re-Reading Marx: New Perspeives after the Critical Edition (Palgrave Macmillan 2009).

[29] Ad esempio, Grossman propose l’idea di successive approssimazioni nelle quali Il Capitale avrebbe presentato una serie di modelli analitici via via piú complessi in relazione all’aggiunta di ulteriori aspetti della realtà.

[30] Helmut Reichelt, Zur logischen Struktur des Kapitalbegriffs bei Karl Marx (Suhrkamp Verlag 1970). Quanto stretta sia da essere intesa que­sta corrispondenza è oggetto di grande dibattito. Si veda la discussione tra Chris Arthur, Tony Smith e Roberto Finelli in Historical Materiali­sm (numeri 11.1, 15.2 e 17.1). In Germania Michael Heinrich e Dieter Wolff criticherebbero, sotto diversi aspetti, l’idea di «un’omologia» tra capitale e spirito.

[31] Questa è la piú accurata traduzione ad opera di Bonefeld di «sinnlich übersinnlich» tradotta malamente nelle edizioni inglesi del Capitale. Si veda la sua nota come traduttore a: Helmut Reichelt, «Social Reality as Appearance: Some Notes on Marx’s Conception of Reality», in: Werner Bonefeld e Kosmas Psychopedis, eds., Human Dignity. Social Auto­nomy And The Critique Of Capitalism (Hart Publishing 2005), p.31.

[32] Ibid., p. 46–47.

[33] Quando a Mosca vennero ripubblicate le Teorie sul plusvalore, furono in grado di mettere in discussione le decisioni editoriali di Kautsky, co­sa che non avrebbero mai preso in considerazione per i notevoli cam­biamenti apportati da Engels al Terzo Volume. Una pubblicazione dei Manoscritti originali (in tedesco) rivela che il lavoro di Engels com­prendeva importanti riscritture e discutibili decisioni editoriali, ma un tale mettere in discussione il corpus centrale del marxismo appariva co­me un anatema al marxismo tradizionale. Si veda Michael Heinrich: «Engels’ Edi­tion of the Third Volume of Capital and Marx’s O­ri­ginal Manuscript», in: Science & Society, vol. 60, no. 4, 1996, pp. 452–466

[34] Rosdolsky polemicamente sostiene che il secondo e terzo libro sono in­corporati in un piano modificato del Capitale, ma anche se uno dovesse essere d’accordo con lui piuttosto che con le controargomentazioni di Lebowitz e Shortall, i rimanenti tre libri sono chiaramente un’impresa incompiuta.

[35] Per il dibattito sulla derivazione dello Stato si veda: John Holloway e Sol Picciotto, eds,. State and Capital: A Marxist Debate (University of Texas Press 1978) e Karl Held e Audrey Hill, The Democratic State: Critique of Bourgeois Sovereignity (Gegenstandpunkt, 1993). È stato tradotto molto poco (in lingua inglese n.d.t) del dibattito sul mercato mondiale, ma si veda: Oliver Nachtwey e Tobias Ten Brink, «Lost in Transition: the German World-Market Debate in the 1970s», Historical Materialism 16.1 (2008), pp. 37–70.

[36] Alfred Sohn-Rethel, Geistige und körperliche Arbeit. Zur Theorie ge­sellschaftlicher Synthesis (Suhrkamp 1970). Trad. italiana: Lavoro in­tellettuale e lavoro manuale. Per la teoria della sintesi sociale (Feltri­nelli Editore 1977).

[37] Marx, «The commodity, Chapter One, Volume One of the first edition of Capital» in Value: Studies by Karl Marx, trad. di A. Dragstedt (New Park 1976), p. 27. Traduzione nostra.

[38] K. Marx, Lineamenti, cit., I vol., p. 32.

[39] Michael Heinrich, «Invaders from Marx: On the Uses of Marxian Theo­ry, and the Difficulties of a Contemporary Reading», Left Curve 31 (2007)

[40] Jacques Rancière, «Le Concept de Critique et la Critique de l’Economie Politique des Manucrits de 1844 au Capital», in Althusser et al, Lire le Capital (RUF 1996), p.128. Ed. italiana in commercio: Leggere il Capi­tale (Mimesis, 2006) oppure Critica e critica dell’economia politica. Dai «Manoscritti del ’44» al «Capitale», Feltrinelli, 1973.

[41] Lucio Colletti, Il marxismo e Hegel: Materialismo dialettico e irrazio­nalismo (Laterza, 1969).

[42] Si veda Riccardo Bellofiore, «Quanto vale il valore lavoro? La discus­sione italiana intorno a Marx: 1968–1976», Rivista di Politica Econo­mica, vol. 89 (1999).

[43] Tuttavia, stranamente, l’importanza di Rubin venne sottostimata nei di­battiti tedeschi. Gli Studi vennero tradotti dall’inglese in tedesco solo nel 1973, e venne omesso il primo capitolo sul feticismo. Si veda Devi Dumbadze «Sachliche Vermittlung und soziale Form. I.I. Rubins Re­konstruktion der marxschen Theorie des Warenfetischismus» in Kritik der politischen Philosophie Eigentum, Gesellsschaftsvertrag, Staat II

[44] Un’importante eccezione è rappresentata dal pionieristico saggio di Jai­rus Bnaji: «From the Commodity to Capital: Hegel’s Dialeic in Marx’s Capital», in Diane Elson, ed., Value: The Representation of La­bour in Capitalism (CSE Books 1979).

[45] e.g: Michael Eldred, Critique of Competitive Freedom and the Bour­geois-Democratic State: Outline of a Form-Analytic Extension of Marx’s Uncompleted System (Kurasje 1984).

[46] Chris Arthur, «Engels, Logic and History» in Riccardo Bellofiore, ed., Marxian Economics a Reappraisal: Essays on Volume III of Capital, vol. 1 (Macmillan 1998), p. 14. Trad. nostra.

[47] Mike Rooke per esempio critica Chris Arthur e l’approccio della dialet­tica sistematica per il fatto di «reificare la dialettica» e di perdere il suo significato di «dialettica del lavoro». «Marxism, Value and the Dialeic of Labour», Critique Vol. 37, No. 2, May 2009, pp. 201–216.

[48] Al di là della società di classe «il lavoro» — il bisogno umano di scam­bio con la natura («il corpo inorganico dell’uomo…con il quale deve ri­manere in perpetuo scambio se non vuole morire [Manoscritti econo­mico-filosofici]) non è un obbligo esterno ma un’espressione della pro­pria natura. La decisione, ad esempio, di dover fare qualcosa per man­giare, non è un obbligo.

[49] Per una discussione (sulla scorta di Backhaus) [in lingua inglese, N.d.T] si veda Michael Eldred, Prefazione a Critique of Competitive Freedom and the Bourgeois-Democratic State (Kurasje 1984), xlv-li.

[50] Marx consigliò alla moglie del suo amico di saltare, a causa della sua difficoltà, la prima parte del Capitale (sul valore e il denaro) — Eldred si riferisce qui al fatto che molti lettori di Marx come quelli influenzati da Sraffa e Althusser che questo sia il modo giusto per approcciarsi a Marx.

[51] Michael Eldred, Ibid. pp. Xlix-l.

[52] Si veda R. N. Berki, Insight and Vision: The Problem of Communism in Marx’s Thought (JM Dent 1984) capitolo 5.

[53] Nonostante possa benissimo derivare da Backhaus, secondo Van der Linden la distinzione fu coniata da Stefan Bruer in «Krise der Revolu­tionstheorie» (1977). Marcel van der Linden, «The Historical Limit of Workers’ Protest: Moishe Postone, Krisis and the Commodity Logic», Review of Social History, vol. 42 no. 3 (December 1997), pp. 447–458.

[54] Come Dauvé, Postone prende il «Frammento sulle macchine» per inde­bolire le tradizionali concezioni marxiste del socialismo; egli vede il marxismo come un marxismo ricardiano alla ricerca dell’autorealizza­zione del proletariato piuttosto che, come in Marx, la sua autoabolizio­ne, concepisce l’URSS come capitalista, e […] sottolinea la costi­tuzione storica sia dell’oggettività che della soggettività. Ad ogni modo quando si tratta di giungere a posizioni pratiche nel presente si orienta verso riforme, affermando significativamente che le sue analisi «non si­gni­fi­cano che io sono un ultra». Moishe Postone e Timothy Brennan, «Labor and the Logic of Abstraion: an interview» South Atlantic Quar­terly 108:2 (2009) p. 319.

[55] Sulle differenze all’interno del conservatorismo, che qui non possiamo discutere, si veda Il Covile 841, marzo 2015.

Fonte articolo: https://www.ilcovile.it/scritti/COVILE_928_EndNotes.pdf

Karl Marx – Il nostro imprescindibile punto di partenzaKarl Marx ...

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Dichiaro di essere al corrente che i commenti agli articoli della testata devono rispettare il principio di continenza verbale, ovvero l'assenza di espressioni offensive o lesive dell'altrui dignità, e di assumermi la piena responsabilità di ciò che scrivo.