Il mondo nuovissimo (seconda parte)

Nessuna descrizione disponibile.Tenta di concentrarsi nuovamente sul lavoro, ma il discorso rabberciato del vecchio gli ha instillato nella mente un tarlo. Vorrebbe scacciarlo: il rilevatore che monitora la prestazione è ovviamente in funzione, inerzie e disattenzioni sono sanzionabili, lui lo sa bene anche se non è mai stato nemmeno ammonito… tuttavia avverte una forte, inedita inquietudine, che svia i suoi ragionamenti. Che significa Natale? E chi sarà mai quell’uomo con un cognome?

La telecamerina del pc non smette di inquadrarlo – lui le fa uno sberleffo, seguitando a digitare agilmente sulla tastiera: in fondo i compiti affidatigli sono ripetitivi, non all’altezza delle sue capacità, anche se non se ne è mai lamentato. Perché? Si domanda. Forse perché gli hanno inculcato sin da piccolo che l’obbedienza è la prima virtù del cittadino lavoratore…

Marco rivolge un’occhiata di sfuggita all’orologio appeso alla parete, che lo disillude: sono appena le quattro e quaranta, anche se fuori sta già facendo buio. Soffoca un moto di stizza, poi – vincendo le sue titubanze – si risolve ad alzarsi: sarà colpa del freddo, della prostrazione o dell’aria viziata del locale, fatto sta che per la terza volta nella giornata deve andare al bagno. Compone un codice e sul display scatta il conto alla rovescia: se non torna al suo posto entro cinque minuti da adesso dovrà recuperare il tempo perduto, e la mancanza verrà annotata sul fascicolo personale. Uscito dalla sala imbocca di fretta il corridoio lungo e angusto che conduce ai servizi igienici: raggiunta la meta si accosta al primo pissoir. Chiude gli occhi, avvertendo un senso di liberazione, ma a un tratto una voce maschile lo fa trasalire, gettandolo quasi nel panico: «Eh, caro Marco: siamo tutti umani, abbiamo tutti di base gli stessi bisogni!» L’intonazione è gioviale, alcuni timbri vocalici suggeriscono un’origine meridionale, forse campana. Lo sconosciuto si sistema al suo fianco e sorride, esibendo una dentatura regolare e bianchissima. È bruno, basso di statura, brizzolato e ha sopracciglia folte e occhi ambrati da seduttore: difficile attribuirgli un’età precisa, ma nonostante l’aria giovanile e la quasi totale assenza di rughe sul volto levigato deve essere vicino ai sessanta. Sono però gli indumenti ad impressionare l’impiegato, mettendolo in soggezione: la giacca di panno nero, i pantaloni grigi attillati e le scarpe lucide rivelano l’appartenenza al ceto sociale egemone (il termine “classe” è stato espunto dai vocabolari), quello dei manager. Un pezzo grosso, dunque, forse molto grosso: Marco vorrebbe scapparsene via, ma un sordo timore si è impadronito di lui, paralizzandolo o quasi. Costui sa il mio nome, devono avermi visto tirar su dal pavimento quel maledetto pezzo di carta, ho ceduto all’impulso, mica ho fatto apposta… o forse mi avranno letto nel pensiero, che scuse posso accampare? E poi devo tornare alla postazione subito, sennò… La mente del giovane è in subbuglio.

L’uomo in giacca non sembra intenzionato a rimproverarlo, tutt’altro: ostenta affabilità, anche se nella voce risuona a tratti una nota falsa (ma forse l’impressione di Marco nasce dalla paura): «Non è il posto migliore per fare conoscenza, lo ammetto, perciò mi scuserai se non ti porgo la mano! (ride) A ogni modo il mio nome è Luigi, Luigi e basta: della zavorra dei cognomi ci siamo liberati da un pezzo, no? Ho sentito parlare bene di te, stai facendo carriera – ammicca – ed è da parecchio che volevo incontrarti. Non preoccuparti per la durata della pausa: lo sforamento ti sarà abbonato. Talvolta quattro chiacchiere sono più utili e proficue di un’interminabile giornata di lavoro, non sei d’accordo con me?».

Stranito com’è Marco risponde meccanicamente di sì, e l’uomo prosegue: «Benissimo, mi fa piacere. A proposito, lo sai cosa si celebra domani… o per meglio dire cosa si celebrava il 25 dicembre

Nat, nati… quella parola pronunciata da otto eccetera ronza nella testa del giovane senza riuscire a prendere forma. Risponde, esitante: «Domani è il 25 (ma perché il suo interlocutore ha chiamato “dicembre” il dodicesimo mese?), quindi è la festa del consumatore vegano» – festa a metà, perché la giornata lavorativa è comunque piena, ma a ciascun dipendente viene accreditato sulla card individuale, oltre al salario giornaliero, un piccolo bonus. Dall’alba al tramonto è inoltre proibita la vendita di carni bianche e insetti commestibili nei supermercati.

Luigi scuote divertito il capo: «Il veganesimo è una grande conquista della nostra civiltà, ma il giorno 25 cadeva il Natale cristiano. Lo abbiamo… è stato abolito decenni fa, perché nessun figlio di Dio è mai disceso sulla terra, figuriamoci, e perché la superstizione è incompatibile con la modernità, fa soltanto danni e crea stupide illusioni; in ogni caso era una ricorrenza molto amata. La sera prima, la notte della vigilia era consuetudine scambiarsi auguri e regali: perciò ho deciso di fartene uno – gli consegna una tessera magnetica – con questa potrai acquistare alla rivendita una bottiglia di vino, vino autentico… e spumante per festeggiare, oltre a prelibatezze altrimenti introvabili. Non sei contento? In più domani usufruirai di un giorno di permesso, darò disposizioni… e ti sarà persino pagato».

Marco afferra il tesserino con la destra ancora gocciolante dopo il risciacquo e balbetta un confuso grazie. Si direbbe che il bizzarro incontro sia terminato, ma il giovane non riesce a trattenere la propria trepida curiosità: «Mi perdoni, non è affar mio, lo so… ma l’episodio di oggi, cioè l’arresto di otto-tredici dopo che ha dato di matto… che conseguenze avrà, che ne sarà di lui?»

Luigi inarca un sopracciglio: «Non gli accadrà naturalmente nulla di male: più che spirito di rivolta è stato lo stress evidentemente accumulato negli ultimi mesi a causare… la sceneggiata, la vigilanza è intervenuta per impedirgli di farsi del male. D’altronde quel dipendente ha quasi sessant’anni, verrà collocato anzitempo in quiescenza e si godrà il meritato riposo. Tutto qua. Dovrei quasi invidiarlo – soggiunge con un sorriso sardonico – dal momento che io sono più vicino agli ottanta che ai settanta, eppure sono ancora in piena attività. Ora devo andare, gli impegni mi reclamano, ma ci rivedremo presto».

Sentendosi un po’ sollevato Marco si congeda e, dopo essersi nuovamente profuso in ringraziamenti, fa ritorno alla sua postazione: come promesso il countdown risulta interrotto, non gli toccherà recuperare nemmeno un minuto. Qualche compagno lo guarda storto, ma lui non si avvede di nulla: è distratto, assente, fatica a districare il groviglio di emozioni e pensieri generati da quel pomeriggio straordinario… e inquietante. Chi sarà mai questo Luigi? Perché ha voluto conoscerlo? Lui è uno dei tanti, non ha mai ottenuto un encomio, non si è mai particolarmente segnalato… fa il suo, come il maghrebino spelacchiato alla sua sinistra di cui manco conosce il nome. Non ci sarà sotto qualcosa di… torbido?

Finalmente alle 18 in punto suona la campanella: i lavoranti si alzano e si avviano ordinatamente verso l’uscita dopo aver spento le macchine. In uno degli spogliatoi Marco infila il suo cappottino e si annoda la sciarpa intorno al collo: non vuole rischiare un mal di gola e un periodo di malattia non retribuito. All’aperto fa davvero freddo, soprattutto a causa del vento: la tonalità rossastra, uniforme del cielo preannuncia una prossima nevicata e già cade una pioviggine fitta mista a nevischio. Le strade sono buie per via del razionamento energetico: Marco cammina svelto, diretto al grande spaccio di generi alimentari dove si rifornisce abitualmente. Incrocia qualche passante, e per la prima volta in vita sua realizza quanto siano rari i vecchi: Otto (d’ora innanzi lo chiamerà così, il nome è di suo gusto) ha meno di sessant’anni, eppure è tra i colleghi più anziani. L’età media negli uffici è intorno ai quaranta: i cinquantenni appaiono già rinsecchiti, e sono quasi tutti calvi oppure canuti (il nostro direbbe “bianchi”, poiché il suo vocabolario è limitato all’essenziale). Pure lui ha già qualche capello grigio… Dove finiscono i pensionati? In giro non se ne vedono… si parla di villaggi della terza età con tutti i confort edificati lontano dal centro, sulle colline del circondario, ma chi ci è mai stato? Ricaccia un lugubre sospetto partorito dalla sua fantasia sovraeccitata: ce ne saranno tanti invece, solo che non ci ho mai fatto caso… ma che Luigi abbia ottant’anni è impossibile: certo i signori fanno tutt’altra vita rispetto alla nostra, ma non può avere più anni di Otto, proprio no… mi sa che mi ha preso in giro. Entrando nel supermercato estrae il tesserino e prende nervosamente a rigirarselo in mano: davvero presentando questo pezzo di plastica potrò ottenere gratis tante cose buone? Non sarà che ‘sto… Luigi ha voluto divertirsi alle mie spalle? Lo scopriremo fra poco… Di solito Marco acquista i generi standard concessigli dal suo stipendio di impiegato: acqua, pane nero, bottiglie di vino sintetico, zuppe liofilizzate e cosce di pollo da allevamento intensivo. Gli insetti invece non riesce proprio a mangiarli, anche se confezioni di larve, locuste e coleotteri riempiono gli scaffali: saranno pure ricche di proteine quelle creature aliene, ma vive o morte che siano suscitano in lui un’invincibile ripugnanza.

L’emporio è pressoché vuoto, sul maxischermo costantemente acceso scorrono immagini del conflitto che si combatte a est da tempo immemorabile: viene ripresa una compagnia di fanti, laceri e approssimativamente armati, poi un carro robot di ultima generazione che si avventa su di loro. Che senso ha scannarsi a vicenda?, si interroga Marco.

Abituato a un’estrema frugalità il giovane impiegato non sa neppure dove cercare il ben di Dio che gli sarebbe stato garantito: si rivolge perciò alla cassiera che, letta la carta, strabuzza gli occhi e lo scruta come se fosse un marziano: «È per lei tutta questa roba? Una bottiglia di bianco del Collio, una di spumante brut – enumera i prodotti – una confezione di gamberoni del Pacifico, una di capesante nostrane, salmone norvegese, pane bianco… devo andare a prendere questi generi in deposito, non sono esposti… ci vuole una tessera oro per averli, complimenti!» si leva in piedi, e Marco la osserva: è alta poco meno di lui, snella, ha capelli biondastri e occhi verdi. L’espressione del viso, punteggiato di efelidi, è mite, vagamente malinconica; lui sa che si chiama Francesca (del numero non gli importa), ma non ha mai osato rivolgerle la parola se non per un frettoloso saluto. Prova un tremendo imbarazzo: lei di sicuro non l’ha mai gustato il salmone – senza indugiare troppo le propone di cenare assieme a lui, sì, cioè… a casa sua. Subito si pente della propria audacia, perché la ragazza avvampa e fa cenno di no col capo: «No, che sta dicendo? Io non posso proprio… non lo sa che è vietato?»

«Mi perdoni – si scusa lui, vergognoso – è solo che mi è stato detto che stasera è la vigilia di Nat… ale, cioè di una festa che una volta contava, e allora speravo di condividere il dono che mi è stato fatto con qualcun altro. Non volevo metterla a disagio, ci mancherebbe, è solo che sono un poco… scombussolato dagli avvenimenti odierni, che non le sto a raccontare». Il suo rossore è talmente evidente che la tensione si scioglie all’istante e Francesca abbozza un timido sorriso: «Non era mia intenzione farla restar male, il suo invito… mi ha fatto piacere, si vede subito che lei è una persona buona e onesta – abbassa gli occhi luminosi – è che proprio non posso, ma apprezzo la sua generosità… veramente, Marco, veramente».

Conosce il suo nome! Più che ringalluzzirsi il giovane si commuove, la mano gli trema un poco mentre riceve da lei, cinque minuti dopo, il sacchetto pieno di leccornie. «Grazie Francesca delle sue belle parole, le auguro… buone feste» riesce solamente a dire.

«Buona festa del consumatore vegano», risponde piano la ragazza, e con un pizzico di rimpianto il suo sguardo gli si appiccica addosso mentre a passi lenti riguadagna l’uscita.

Nevica a larghe falde adesso: il marciapiede si sta ricoprendo di uno spesso manto candido. Per fortuna l’abitazione non è distante: è situata al sesto piano di un gigantesco caseggiato grigio, risalente all’epoca oscura, e consta di una stanza e di un minuscolo bagno. C’è pure un piccolo balcone dal quale di mattina è possibile scorgere il mare, perennemente avvolto di brume. Quell’appartamento è un buco, ma Marco non ha termini di raffronto e non si lamenta dei pochi metri quadri a disposizione. Accende il forno a microonde, taglia accuratamente in quattro parti uguali ciascuna fetta di pane. Il visore si è attivato automaticamente al suo ingresso, ma lui non desidera ascoltare le news, ansiogene e stereotipate: cerca qualche filmato d’epoca su questo misterioso Natale, ma non ne trova. Fuori infuria la bufera; Marco imburra un paio di tartine, poi vi aggiunge fette di salmone. Il sapore è del tutto nuovo, strano ma non sgradevole; con qualche difficoltà ha aperto la bottiglia di vino bianco, e ne manda giù un sorso. Avvezzo com’è a consumare quello analcolico prova all’istante una leggera euforia: «Buono però, accidenti!» Decide di cuocere i gamberi, e neanche tutti, lasciando per l’indomani le capesante: mangia poco di solito (come la stragrande maggioranza dei concittadini, peraltro) e l’antipasto l’ha già quasi saziato. Riempitosi un secondo bicchiere effettua una nuova ricerca: ci sarà pure qualcosa in rete sul Madagascar! Pesca un documentario girato un decennio prima: si vedono risaie, capanne e foreste – di campi di frumento manco l’ombra. Che Otto abbia ragione? Scoppia in una risata irrefrenabile: la bevanda alcolica sta facendo effetto, ma non è solo quello… Assaggia un gambero, intingendolo in una salsetta piccante: la polpa biancastra, compatta ha un gusto delizioso, qui mi ci vuole un altro bicchiere di ottimo vino. Perché deve essere un privilegio nutrirsi bene? La domanda sorge spontanea in una testa che inizia a girare. Meglio smettere di bere! Strano che sui villaggi della terza età non ci sia nulla, proprio strano… barcollante e con il bicchiere in mano il giovane spalanca la porta-finestra, ricevendo in faccia il gelido schiaffo della bora. I fiocchi vorticano nell’oscurità, paiono sdegnare il contatto con la terra; lui si appoggia alla balaustra, inspirando a pieni polmoni l’aria rigida e pulita della notte invernale. «Buon Natale!» grida a squarciagola, senza attendersi alcuna risposta, poi rientra intirizzito in casa.

Sono le nove e mezza: è ora di coricarsi.

 

 

UN GIORNO D’OTTOBRE DELL’ANNO 202X

La notizia, diffusa da un’edizione straordinaria del telegiornale, piombò con un improvviso fragore di tuono sulla piccola folla di avventori che gremiva il giardino della trattoria rionale; benché fosse già metà ottobre la gente indossava ancora polo e camicie a maniche corte, qualcuno girava in bermuda. Non si ricordava a memoria d’uomo un autunno così mite e soleggiato: candide nubi fluttuavano pigramente in un cielo azzurrissimo. Anche l’inizio estate del 1914 era stato un succedersi di giornate splendide, per non parlare della primavera infettata dal virus…

La voce concitata dell’annunciatore gracchiava in un silenzio spettrale, rotto solo da colpi di tosse secca e da qualche lamentosa bestemmia. «No xe possibile, no pol esser vero, devi esser tipo elprograma radiofonico de quel matode Orson Welles – smaniava Ciano, stringendo fra le dita il bicchiere come se volesse stritolarlo: si accontentò di scagliarlo lontano assieme al suo contenuto, che si sparse luccicando sulla ghiaia – Solo una canaia[1] completamente fora dei copi[2]podeva far una porcada del genere!  Maladeti ‘sassini, maladeti

L’irreparabile era avvenuto: neanche un’ora prima, “alle 16 e 25 di oggi – annunciava sgomento lo speaker – due, forse tre missili hanno colpito il cuore della capitale polacca. Le prime notizie parlano di missili balistici a testata termo… (pausa) barica, in ogni caso sono stati centrati il parlamento, il palazzo del governo e il ministero della difesa… completamente distrutti, ma l’intero centro cittadino è in fiamme. Secondo le primissime stime ci sarebbero centinaia, forse migliaia di vittime, fra cui tutti i membri del gabinetto e numerosi alti ufficiali. Contemporaneamente truppe aviotrasportate nemiche hanno occupato alcuni centri urbani in prossimità del confine e le basi militari della NATO subiscono pesanti bombardamenti missilistici e dal cielo. Le comunicazioni sarebbero interrotte. Non ci sono conferme del possibile utilizzo di atomiche tattiche contro le truppe alleate che nei giorni scorsi avevano preso posizione nelle province occidentali del Paese aggredito al principio dell’anno in corso. Il Presidente americano è immediatamente salito a bordo dell’Air Force One, decollando per una destinazione ignota. Nessuna dichiarazione ufficiale da parte del governo di Mosca, ovunque in Europa serpeggia il panico…”

Affranto al pari degli altri, ma meno sorpreso, Sassinovich posò la destra sulla spalla dell’ex collaboratore e diede voce alle sue riflessioni: «Capisco la tua reazione, ciò che è successo è terribile e quel che sta per succedere sarà anche peggio, ma forse non poteva che andare così. Può darsi che questo bombardamento sia un crimine, ma non è per niente un atto di follia: forti del sostegno americano, e sentendosi perciò al sicuro, direi impuniti, i polacchi hanno alzato sempre più la posta… mesi di sfrontate provocazioni, e queste sono le conseguenze. Dall’altra parte non stanno giocando, fanno sul serio, perché a torto o a ragione ritengono che questa sia una lotta per la sopravvivenza… il loro presidente l’ha detto un’infinità di volte, ma i nostri governanti e il puparo di Washington alzavano le spalle e replicavano con salve di invettive: “folle”, “criminale”, “assassino”! Magari sarà pure un assassino, ma è bravo a fare i suoi calcoli e vede lontano. Adesso ha rilanciato, ribadendoci che è pronto a tutto, persino all’olocausto nucleare… però non ha ancora giocato l’asso dell’atomica. Solo che “i nostri”… chiamiamoli così, anche se mi fanno ribrezzo… non possono permettersi di cedere. Chi comanda davvero e ha gettato i semi di questo orrendo conflitto è disposto a tutto pur di liberarsi dell’avversario, anche a veder ridotta l’Europa in macerie. Certo, potremmo anche estinguerci tutti… ma un mondo mezzo spopolato e da ricostruire ex novo potrebbe costituire un buon affare per l’élite economica occidentale…».

Il volto di Zanetti assunse un’espressione stralunata: «Ma come puoi giustificare una barbarie simile, che per tutti noi è l’inizio della fine? L’Occidente avrà le sue colpe, ma… non potrebbe mai fare una cosa del genere, con tutte le nostre pecche siamo comunque migliori di loro, qui non ammazzano i giornalisti per strada, né mettono in prigione chi la pensa… (stava per dire: come te, ma si corresse in tempo) diversamente».

«Ci rassicura crederlo – ribatté secco Libero – ma Storia e cronaca attestano che questa superiorità morale non esiste affatto. Il tuo amato Occidente ha spianato paesi interi a suon di bombe, solo che tutte quelle volte a crepare erano gli altri, i cattivi… cattivi tutti, intendo, anche i bambini in fasce e le vecchiette sdentate… e la televisione trasmetteva spettacoli di luci e suoni e interviste a impettiti generali vittoriosi. No, Ciano: questa non è una guerra tra aggressori cattivi e aggrediti buoni, tra l’orda asiatica e i paladini della democrazia e della libertà… la narrazione che ci propinano è una fiction: semmai è una sfida tra cattivi e pessimi, e i pessimi sono coloro che esigono un mondo fatto a misura dei propri interessi e prono ai loro voleri…»

Zanetti allargò esasperato le braccia: «Stai dicendo che ce la siamo cercata, che meritiamo il nostro destino?»

«Forse sì – riconobbe Libero – ma è anche vero che ci hanno cucinato al fuoco lento di incessanti e drammatizzate emergenze, annebbiando il pensiero critico e abituandoci a una depressa passività. Da cittadini siamo tornati sudditi senza manco accorgercene, purtroppo».

L’idea di poter essere dalla parte del torto era quasi altrettanto dolorosa della prospettiva di un annientamento imminente. Ciano consultò il suo vecchio smartphone alla ricerca di video, dettagli, smentite, ma la rete era in tilt: tre quarti dell’umanità stava provando a connettersi. «Che ne sarà di noi?» Più che una domanda era un lamento, un’invocazione rivolta al cielo.

«Il treno è ormai lanciato, nessuno potrà fermarlo… nessuno nemmeno vuole – proseguì Sassinovich, lo sguardo perso nel vuoto – se non ci sarà l’Armageddon ci saranno comunque decine di milioni di morti, forse più… e i sopravvissuti si ritroveranno senza niente: acqua, elettricità, riscaldamento, cure mediche, cibo… tutto sparito. Siccità, carestie e pestilenze spazzeranno via popoli interi, assisteremo… non noi, non tu ed io… a immense migrazioni, a scontri feroci per accaparrarsi un fazzoletto di terra coltivabile. Su questo caos disperato, su questa evitabilissima sventura i potenti rimasti in vita fonderanno l’incubo del mondo nuovo…»

I bevitori lentamente sfollavano a capo chino; Ciano e Libero occuparono un tavolinetto accanto alla porta d’ingresso del locale. «Ciolemose[3] ‘ncoraun mezìn devitovska[4] – suggerì il commissario in pensione – e concediamoci quest’ultimo brindisi… al vecchio mondo, quello della nostra giovinezza». Zanetti annuì: ci sarebbero mai state occasioni di rivedersi?

Non si erano accorti che un ragazzetto li stava osservando da un pezzo, sorbendosi attento e accigliato i loro dialoghi. Era sui tredici, quattordici anni, aveva gli occhi color cobalto e i capelli fulvi tagliati corti; sotto l’orecchio sinistro la pelle diafana era macchiata da una piccola voglia di fragola di un rosso tenue, che non lo imbruttiva. «Scusate signori se mi intrometto – esordì timidamente – ho ascoltato quello che vi siete detti, e se ho ben compreso il suo discorso (additò per un momento Libero) la responsabilità di questa guerra non è solo loro, ma anche nostra… e i nostri governanti non sono migliori di quelli russi. Però la televisione, la radio dichiarano tutto il contrario: che noi siamo nel giusto, che difendere un Paese aggredito è sacrosanto. Mettiamo che mentano tutti: come facciamo a comprendere come stanno davvero le cose e di chi possiamo fidarci?»

Sassinovich si volse verso il ragazzo, cui diede un tenero buffetto sulla guancia coperta di efelidi. A giudicare dal corretto utilizzo del congiuntivo doveva essere uno scolaro diligente: gli sarebbe servito in futuro conoscere l’italiano? si domandò, sentendosi invadere da una profonda, desolata mestizia. «Non è che i media mentano sempre – spiegò – mentono sulle cose decisive, importanti… sul quadro generale più che su singoli eventi. Soprattutto diffida sempre delle storie troppo coerenti, in bianco e nero, quelle in cui il buono è eccessivamente buono, il cattivo una caricatura: il reale è un intreccio di sfumature. Ci raccontano ad esempio che grazie alla liberazione avvenuta ottant’anni fa ora viviamo in uno stato democratico, amico e alleato di paesi simili che formano il “mondo libero”, così lo chiamano… e che le altre nazioni dovrebbero fare come facciamo noi, e se si rifiutano di imitarci vanno messe al bando, sanzionate. Non funziona così… e soprattutto non siamo liberi: a essere quasi liberi sono soltanto coloro che hanno ricchezza e potere… beh, forse a modo loro anche i frati in convento, noi no, perché le nostre esistenze sono scandite da ritmi che ci vengono imposti, e se vogliamo… se volevamo restare un po’ tranquilli non avevamo altra scelta che quella di obbedire e far finta che tutto andasse bene. Questa… accondiscendenza ci ha condotti fin qui, sull’orlo del burrone. Per capire come stanno davvero le cose, per formarti una tua opinione personale… beh, tieni sempre gli occhi aperti, osserva e annota… e ascolta, come hai fatto prima, noi vecchi finché ci siamo… non perché siamo meglio dei giovani, anzi… solo perché abbiamo sperimentato periodi in cui molte cose erano diverse e abbiamo assistito a grandi cambiamenti. Non mi sento di darti altri consigli… se non quello di non esporti invano, tenendo però presente che esistono ideali, convinzioni… per cui vale la pena di battersi e perfino morire. Ti auguro – la voce gli tremò un poco – di vivere una vita piena, e che i cosiddetti grandi della terra si ravvedano in tempo, poiché centinaia di milioni di giovani come te hanno diritto alla speranza e alla felicità».

L’adolescente assentì serio col capo e corse via, mentre l’oste, scuro in volto, poggiava una fiaschetta da mezzo litro sul tavolo intorno al quale erano seduti Ciano e Libero. «Bevé presto, però, perché fra ‘namezoretaserobaraca: no son ‘ssai de voiaogi, capiré ‘l motivo».

«Ci rimane un ultimo compito, ma è anzitutto un dovere morale – stabilì Sassinovich, sorseggiando il bianco – lasciare un messaggio nella bottiglia per questa gioventù incolpevole, per questi poveretti precipitati nell’abisso».

Imbruniva il cielo, solcato da innumerevoli scie di aeroplani.

(fine seconda parte)

[1]Canaia=canaglia.

[2]Fora dei copi=pazzo, impazzito.

[3]Cior=prendere.

[4]Vitovska=vino bianco del Carso triestino.

 

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