Socrate maestro eversivo, filo-oligarchico e “nemico del popolo”?

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Recensisco qui il libro di Guido Calenda, La Condanna di Socrate. Audiatur et altera pars’, Academia Verlag, Baden Baden 2022, di pp. 234 complessive, che includono un’importante appendice sulle procedure legali dell’antica Atene, per presentarlo all’attenzione dei lettori dell’Interferenza, fra i quali vi sono numerosi insegnanti, studenti e appassionati di Filosofia. Per questo motivo, eviterò di appesantire la mia recensione con molti riferimenti bibliografici.

Socrate (470-399 a.C.), comunque, travalica lo stretto campo disciplinare della storia della Filosofia, perché è un personaggio universalmente noto. Leggevo, infatti, proprio ieri su “Io Donna”, inserto del Corriere della Sera dell’8 maggio 2023, un invito di Cristina Dell’Acqua, educatrice del Collegio San Carlo di Milano, a parlare di Socrate alle donne e ai ragazzi. Col suo invito la Dell’Acqua si riferisce al Socrate maestro di saggezza, che con la sua ironia potrebbe aiutare i nostri giovani postmoderni a non cadere nella depressione; al Socrate psicologo, dunque, che avrebbe fondato una nuova Pedagogia sulla base del “conoscer se stessi”. Non è qui il caso di spiegare che quel “Conosci te stesso” era una sentenza delfica non originale di Socrate, né che in quell’epoca antica aveva un significato ben diverso da quello di tipo psicoanalitico che vi leggiamo oggi. Qui si può solo osservare che quest’immagine universalmente accettata è piuttosto un mito, che non ci restituisce il Socrate realmente vissuto.

La morte di Socrate (vedi foto), dipinta da Jacques-Louis David (1748-1825), lo rappresentò come l’eroe moralmente incorruttibile, che preferisce la morte pur di non rinnegare i suoi ideali. Il dipinto è, di fatto, un chiaro prodotto ideologico dell’Illuminismo: riproducendo l’iconografia rinascimentale del gesto solenne, Socrate (che era già anziano) è raffigurato nel pieno vigore giovanile, mentre punta il dito in alto verso l’Olimpo (in cui egli non credeva !) prima di bere dal calice la cicuta. La scena richiama l’atto sacerdotale di consacrazione dell’ostia. La sua drammatizzazione sul modello dell’Ultima Cena è rafforzata dalla presenza intorno a Socrate di 12 discepoli.

Ho qui ricordato il dipinto di David perché, trionfando nel 1787 alla mostra del Salon de Paris, impose (appena due anni prima della Rivoluzione francese) il mito di Socrate come eroe della libertà di pensiero, status che nessuno si era mai sognato di attribuirgli prima di allora, poiché nessuna persona colta poteva confondere Socrate con Giordano Bruno. Non esisteva affatto una siffatta tradizione premoderna, anche perché nessuno dei discepoli di Socrate, ad iniziare da Platone, si distinse mai per la liberalità di pensiero (anzi, tutto il contrario !). E tutti sapevano, nel mondo antico, che – a differenza dell’irreligioso Anassagora e dell’agnostico Protagora – Socrate non corse mai il rischio di essere espulso da Atene, a seguito del divieto promulgato da Diopide nel 432, a causa della sua “libertà di pensiero” (che, dunque, non fu mai eccessiva !), verso gli dei tradizionali. Ciò mi pare sufficiente a smentire anche un altro mito moderno: quello del presunto Socrate ateo, che è del tutto infondato, dal momento che, da un lato, col suo razionalismo Socrate non negò mai l’esistenza degli Dei (Theoi) e, dall’altro lato, con la continua professione di fede verso il proprio daimonion non faceva altro che prestare attenzione a una divinità minore, di certo collaterale, ma non del tutto estranea al pantheon ufficialmente venerato nelle Polis[1]. Suvvia, pensare che per questo singolare atteggiamento religioso Socrate fosse ateo, sarebbe assurdo[i] come pensare che lo sia, oggi, un credente cattolico che mostri più devozione verso il proprio angelo custode che verso la Madonna, Gesù e il Padre Eterno !

Vedremo tra poco, con Calenda, cosa significasse quindi la famosa empietà di Socrate. Prima però, per meglio illustrare l’importanza del suo libro recensito, ritengo necessario esporre anche un’altra premessa riguardo all’identità di Socrate, sicuro che questo breve excursus non dispiacerà al lettore di mente aperta, che desidera capire meglio chi era veramente Socrate.

Con il succitato dipinto di David, l’Illuminismo rielaborò per i propri scopi politici l’immagine di Socrate che era stata trasmessa nella moderna cultura europea, agli inizi del XVI secolo, da Erasmo da Rotterdam (1466-1536), il quale aveva manipolato e fuso due diversi miti tardo-antichi di Socrate, risalenti al III e al IV secolo d.C.: quello del Socrate saggio stoico e quello del Socrate proto-martire cristiano. Rammento ciò solo per sottolineare che neanche il mondo antico ebbe mai un’idea univoca su chi fosse veramente Socrate, dato che, dopo la condanna a morte (nel 399 a.C.), i suoi discepoli presero vie diverse e, a partire da quella di Antistene (444-365 a.C.),fondarono delle differenti e contrapposte “scuole socratiche”.

Tra di esse contrapposte sono anche le 4 principali testimonianze antiche che su Socrate ci sono pervenute. Così le riassumo schematicamente:

  • quella di Platone che lo idealizza fino a presentarcelo come “l’uomo più giusto e sapiente” del mondo, sempre impegnato a combattere per il bene della Polis contro la demagogia dei Sofisti e poi, alla fine, condannato a morte ingiustamente.
  • Quella di Senofonte, un altro discepolo di Socrate, che definisce invece il maestro come un moralista conservatore che – con vedute ristrette – difende i vecchi valori aristocratici contro la nuova cultura razionalistica dei Sofisti.
  • Quella di Aristotele (che neanche lo conobbe personalmente), che è ripresa come oro colato pressoché in tutti i manuali di Storia della Filosofia antica: Socrate è colui che ha rotto con le indagini sulla Natura (con la tradizione detta, appunto, “presocratica” dei phisiologoi) per portare la riflessione filosofica nel campo della morale, – ovvero, volendo parafrasare Karl Lowith, Socrate avrebbe spostato l’attenzione della filosofia dal Mondo all’Uomo…come se l’Uomo potesse vivere realmente separato dal Mondo !
  • Infine quella del commediografo Aristofane che è palesemente contraria alle altre 3: nelle Nuvole, Socrate è rappresentato derisoriamente come un imbroglione che, non diversamente dai Sofisti, corrompe i giovani insegnando loro i trucchi retorici e l’arte dell’eloquenza, grazie ai quali nelle assemblee pubbliche o nei tribunali è possibile far prevalere, fuori da ogni scrupolo morale,la propria tesi ingiusta su quella giusta,sostenuta dagli avversari[ii].

 

Quest’ultima testimonianza di Aristofane, che smentisce l’immagine platonica del Socrate “maestro di virtù morale”, è stata sempre ignorata non solo dagli studiosi, ma anche dagli artisti: ad esempio, qui da noi, non è stata tenuta in conto neanche dai due intellettuali più anticonformisti dell’Italia catto-fascista del dopoguerra: Pasolini[iii] e Roberto Rossellini, il quale nel film “Socrate” (1971) prese per buono anche il clamoroso falso dell’oracolo delfico, che avrebbe indicato Socrate come il più sapiente degli uomini[iv]. Ed è incredibile che nessun comico o commediografo contemporaneo abbia mai rivisitato e utilizzato le salaci gag di Aristofane su Socrate.[v]Sotto questo riguardo, va sottolineato che, per quanto caricaturale potesse essere la sua comicità, Aristofane non poteva di certo trasformare il Socrate reale in un’altra persona non più riconoscibile da quel pubblico locale, che conosceva il Socrate in carne e ossa che, ogni giorno, gironzolava per l’agorà di quel piccolo mondo-paese che era l’antica Atene. In ogni satira, la caricatura risulta efficace solo se possiede connotati reali immediatamente riconoscibili dal pubblico (ecco perché, ad esempio, anni fa ebbe tanto successo la satira politica che Oreste Lionello faceva in Tv o a teatro di Giulio Andreotti).

Pertanto,se l’infatuazione collettiva per Socrate non è così totalizzante da far calare due fette di prosciutto davanti ai nostri occhi, per superare il suddetto impasse delle testimonianze discordi tra Aristofane e Platone, nonché tra il predetto e Aristotele e Senofonte (ciascuno dei quali dice un cosa diversa), allora è necessario andare ad investigare, serenamente, il processo di Socrate. E’ proprio quello che fa Guido Calenda, poiché ogni processo giudiziario è sempre un momento particolare in cui si fa luce sui reati del presunto reo, sviscerandone il movente, la colpa o il dolo, le attenuanti o le aggravanti. E non c’è dubbio che, sotto questo profilo, Calenda si colloca nel novero di quei pochi intellettuali che, a partire dal XVIII secolo ad oggi, hanno tentato di demistificare la figura di Socrate; rari più delle mosche bianche, essi vengono ricordati dal Prof. Livio Rossetti nella sua Prefazione al saggio di Calenda. A questi coraggiosi va aggiunto, ad onor del vero, anche il Prof. Antonio Capizzi che, appena ci provò, si ritrovò isolato sotto il fuoco polemico di sbarramento dei neotomisti italiani e, in particolare, della Margherita Isnardi Parente, che fu subito appoggiata dai suoi pari della Cattolica di Milano (come, ad esempio, la Sofia Vanni Rovighi), che agivano nascosti dietro il mantello del Reale Gran Sacerdote socratico. Sorta nei corridoi di Villa Mirafiori, sede della Facoltà di Filosofia a Roma, l’accesa polemica ebbe poi un seguito, con toni non più scurrili ma sempre molto vivaci, sulle pagine della Rivista Critica di Storia della Filosofia.

E, dunque, adesso è ora di sottoporre all’esercizio del dubbio (come Socrate stesso faceva, metodologicamente, rispetto a ogni cosa) l’immagine mistificata del Socrate condannato ingiustamente, poiché – come scrive Calenda (p. 21) – essa ci è stata trasmessa «[…]quasi esclusivamente dalle narrazioni di Platone e Senofonte. Entrambi sono fonti apologetiche che descrivono la condanna come una profonda ingiustizia commessa da un tribunale ateniese, costituito da giudici incompetenti e indegni […] Platone e Senofonte erano però due irriducibili sostenitori dell’oligarchia: è ragionevole dunque il sospetto che le loro rappresentazioni del processo non furono imparziali». La mistificazione sulla (ingiusta ?!) condanna a morte di Socrate – continua Calenda (ibidem) – «è l’elemento fondante del mito socratico, che ha avuto enorme importanza nella cultura occidentale, ma ha anche introdotto un elemento di distorsione nella comprensione della storia e del pensiero greco di quell’epoca» (sottolineatura mia).

Questa clamorosa mistificazione bimillenaria dei fatti è avvenuta, fondamentalmente, sulla base del dogma fideistico che Platone sia lo specchio veritiero della vita e della gesta di Socrate! Invece, Calenda (ibidem) sottolinea che «[…] nell’Apologia di Socrate Platone si limita a mettere in scena un’autodifesa del personaggio, da cui quasi nulla trapela in merito alle argomentazioni degli accusatori; Senofonte, dal canto suo, non pretende neanche di descrivere aspetti del processo, ma si accontenta di difendere Socrate e di lodarne le virtù». Diamine! Noi ci siamo fatti l’idea di questo processo solo sulla base della Difesa di Socrate. Non sarebbe una cosa logica, normale e democratica voler ascoltare anche l’altra campana, cioè comprendere le ragioni della controparte, dato che un partigiano socratico come Platone potrebbe non averle riportate in maniera imparziale e veritiera ?

Con il suo coraggio intellettuale, Guido Calenda ha rotto finalmente questo tabù. Quanti altri studiosi di Socrate si sono spinti fino al punto di revisionarne il processo ? La stragrande maggioranza di essi si ferma al passaggio precedente, rifiutandosi di sbrogliare il problema delle discordanze delle fonti antiche su Socrate. Ad esempio, da un lato, anche uno studioso ritenuto equanime e innovativo, come Franco Ferrari, evita di affrontare la suddetta discordanza, limitandosi a dire che essa «costituisce uno degli enigmi maggiori dell’intera filosofia antica».[vi] E così Ferrari ci lascia con l’enigma irrisolto. Dall’altro lato, invece, appoggiandosi al concetto dell’ironia complessa escogitato da Gregory Vlastos[vii], Maria Chiara Pievatolo (della Uni-Pisa) mistifica ancora di più il predetto enigma, affermando che la discordanza esistente tra le fonti antiche sarebbe stata volutamente creata da Socrate stesso e, perciò, non deve costituire per noi un problema, bensì solo «una testimonianza dell’efficacia del suo insegnamento, che mirava non a “trasferire” conoscenza, ma ad indurre – accettando il rischio di venir frainteso – gli altri a pensare per proprio conto»[viii]. Ritengo superfluo commentare le acrobazie mentali della Pievatolo.

Volendo invece noi rompere, insieme a Guido Calenda, il predetto tabù, ne accogliamo il suo eccepire che la narrazione dell’Apologia (poi ripresa da Platone in alcuni passi del Critone, del Fedone e del Fedro) non è il verbale oggettivo del processo. Non è neanche la trascrizione fedele dell’arringa difensiva di Socrate; bensì è un’opera letteraria, scritta da Platone almeno 6 anni dopo la conclusione del processo, allo scopo politico di glorificare il suo maestro, gettando fango sull’antico regime democratico ateniese.

La questione è, dunque, quella di confrontare la Difesa platonica e senofontea di Socrate con l’Accusa contro Socrate. Il saggio di Calenda compie questo meritorio lavoro, analizzando un’altra fonte antica, diversa dalle 4 predette; una fonte che ancora nel 1935 neanche un insigne studioso di Filosofia Antica come Guido Calogero era riuscito a ricostruire: la Katēgoria Sōkratous (Accusa di Socrate) scritta dal retore Policrate nel 383-382 a. C[ix]. Già il fatto stesso di essere un’Accusa di Socrate avrebbe dovuto rendere il testo frammentario di Policrate un documento molto interessante da studiare; invece, è stato fin qui ignorato quasi da tutti !

Ora, a mio avviso, la lettura che Calenda dà del testo di Policrate va nel verso giusto, poiché non si ferma al livello della mera analisi filologica, come fece nel 2008, ad esempio, Costanza Pacini che si limitò solo a “distinguere e separare” (come direbbe Hegel) i 4 punti salienti di questa Accusa. Calenda, invece, cerca di comprendere la ratio dei 4 punti enucleati nell’Accusa giustapponendoli ai 2 capi d’accusa riportati nell’Apologia platonica. Credo che questo sia l’approccio corretto al testo di Policrate giacché, trattandosi di un processo giudiziario, le due versioni contrapposte di Platone e di Policrate vanno necessariamente comparate nel circolo ermeneutico, per così dire, del ragionamento giuridico. Solo in questo modo, infatti, si può gettare nuova luce sulle due accuse contro Socrate tramandateci da Platone: l’empietà e la corruzione dei giovani.

Riguardo alla prima, Calenda dimostra che lo scopo di Platone è quello di sminuirne la portata sul piano meramente etico-religioso, così da occultarne il carattere politico di fondo: tuttavia, «l’empietà (asébeia) – scrive Calenda (pag. 109) – copriva uno spettro più ampio di quello strettamente religioso». In altre parole, l’empietà non comprendeva soltanto la violazione dei riti religiosi o gli atteggiamenti irrispettosi verso gli oggetti sacri[x] e gli dei tradizionali (di cui Socrate non negò mai, almeno pubblicamente, l’esistenza). Nell’antico mondo ellenico, di fatto, era empia anche qualsiasi offesa arrecata ai valori politici fondativi della Polis (ad esempio, alla Polis stessa in quanto Patria[xi], all’onoranza verso i defunti, al rispetto verso entrambi i genitori, ecc.). Rimando per ogni ulteriore approfondimento alla lettura del saggio di Calenda, fermo restando che, già per quel poco che ho detto, qui ne esce distrutto anche il moderno mito del Socrate ateo.

Riguardo poi all’accusa di corruzione dei giovani, l’Apologia di Platone tende a derubricarla in maniera sofistica come infondata e generica; addirittura, tenta pure di rovesciarla in una controaccusa per calunnia ai danni di Socrate, preso di mira dalle maldicenze popolari sul suo conto da parte degli ateniesi (i cosiddetti πολλοΪ secondo il dispregiativo linguaggio politico aristocratico che si riscontra in Platone e non solo). Di contro, Calenda mostra che l’Accusa di Policrate rende invece questo capo d’accusa ben concreto e circostanziato: lungi dall’essere il frutto del fraintendimento, da parte degli ateniesi, dell’impegno profuso da Socrate “disinteressatamente”per renderli cittadini migliori (come argomenta Platone nell’Apologia), la corruzione dei giovani si riferiva invece, fattualmente, all’educazione negativa che Socrate aveva dato alla cerchia aristocratica dei suoi discepoli. Non è certo un mistero – perbacco ! – che il nobile socratico Carmide, che era anche lo zio di Platone, fu tra i protagonisti di quella lotta di classe eversiva che, nel 404 a.C., finì per rovesciare la democrazia di Atene ed instaurare il regime dei Trenta Tiranni. E Crizia non fu il leader supremo del regime tirannico, quello che si distinse – in base all’universale vox populi – come il più violento e sanguinario tra tutti i 30 Oligarchi ? Di Senofonte già si è detto che era uno stratega militare dalle idee apertamente antidemocratiche. Che dire allora del giovane Alcibiade (il discepolo di Socrate notoriamente più empio e tirannico – definito anche “sfrenato e tracotante” dall’Accusa di Policrate), che fu condannato all’esilio dal tribunale ateniese già nel 411 a.C. in seguito a un precedente tentativo (fallito) di realizzare un Colpo di Stato contro la democrazia ?

Ecco, dunque, che alla luce dell’Accusa di Policrate si capisce bene, finalmente, il significato particolare che rivestiva l’accusa contro Socrate di corruzione dei giovani: era l’incriminazione di un cattivo maestro che col suo insegnamento aveva corrotto l’animo dei suoi discepoli, rendendoli antidemocratici, violenti, crudeli ed eversivi.

Ma c’è ancora un’altra sorpresa: dall’Accusa di Policrate noi possiamo dedurre l’esistenza anche di un terzo capo d’imputazione, sul quale quel “grande specchio della verità”, che sarebbe stato Platone, ha taciuto completamente. E’ l’accusa, rivolta direttamente contro Socrate, di essere un soggetto “tyrannicos” e “misodémos”, cioè un oligarchico eversivo e “nemico del popolo” (quest’ultima accezione io la intendo in senso leninista; non lo fa Calenda ché non è un marxista ma, purtuttavia, fa un lavoro intellettuale che fino ad oggi i marxisti non sono stati in grado di fare: neanche un Luciano Canfora[xii], che pure aveva rilevato nel testo di Policrate il Socrate “misodémos”, ha avuto le palle di trarre quelle dovute conseguenze che andavano contro il mito di Socrate !). Quest’ultima accusa è collaterale a quella della corruzione dei giovani, giacché Socrate corrompeva i discepoli insegnando loro a disprezzare le regole e i meccanismi di funzionamento della Democrazia, in primis quello della rotazione delle cariche pubbliche fra tutti i cittadini.

Che Policrate non si sia inventato di testa sua questa terza accusa contro Socrate, è dimostrato dal fatto che, più tardi, durante un processo del 346 a. C., adito sempre ad Atene, contro l’eversivo Timarco e altri personaggi filo-oligarchici (difesi da Demostene), l’oratore filo-democratico Eschine (389-314 a.C.) richiamò alla memoria dei Giudici il precedente di Socrate, ovvero la sentenza del 399, connettendo in un rapporto di causa-effetto l’educazione impartita da Socrate alla proliferazione dei tiranni[xiii]. Ciò è la prova lampante, a mio avviso, che la condanna di Socrate rappresentò, e rappresentava ancora mezzo secolo dopo, una sorta di trionfo della Democrazia contro i reiterati tentativi di eversione oligarchica e tirannica.

Per concludere, dobbiamo riconoscere a Guido Calenda il merito di aver letto politicamente il testo di Policrate, che altri studiosi – pur di salvare l’onorabilità di Socrate e Platone – hanno cercato di spoliticizzare, riducendolo a un mero esercizio di retorica[xiv]. Calenda (pp.92 sgg) dimostra, invece, che l’Accusa di Policrate fu una risposta del governo democratico ateniese alla forte propaganda politica filo-oligarchica, che continuava a dipingere la condanna di Socrate come un atto “profondamente ingiusto”, tale e quale noi abbiamo creduto fino ad oggi. In realtà, a differenza di quanto avviene oggi, nell’antica Atene, il potere politico gestito dai democratici popolari non dava loro anche il potere economico. Quest’ultimo restò sempre saldamente in mano alle classi aristocratiche e mercantili, sicché dopo la morte di Socrate il governo democratico ateniese fu continuamente subissato dalla propaganda antidemocratica. Tranne il già citato Antistene, nel 399 a.C. tutti gli altri discepoli di Socrate, compreso il Platone, scapparono via da Atene per sottrarsi all’odio popolare. Si rifugiarono a Megara, perché avevano la cosiddetta “coda di paglia”: non è forse vero che lo stesso Critone, nell’omonimo dialogo platonico, ci dà a distanza di anni notizia del complotto che la cerchia filo-oligarchica dei discepoli aveva pensato di organizzare per fare vadere dal carcere Socrate, corrompendo con denaro le guardie carcerarie ?

La progettata evasione non andò a buon fine, anche (ma non solo) perché Socrate la rifiutò, in quanto era già vecchio e malato. Pertanto, nel 399 i discepoli fuggirono via da Atene e, dall’estero, iniziarono a produrre scritti di propaganda antidemocratica, i cosiddetti logoi Sōkratikoi che sono a noi pervenuti in numero di circa 360. Di contro, il regime ateniese di democrazia popolare non poté opporre altro contro questa valanga propagandistica, se non un solo scritto: quello succitato di Policrate! Come oggi la propaganda politica si gioca sulla stampa, in tv, alla radio, sui social media ecc., nell’antica Atene era giocata attraverso le specifiche forme comunicazionali di massa allora disponibili[xv]: l’oralità nella pubblica piazza utilizzata da Socrate, il Teatro (quanta politica fecero Aristofane, Eschilo, Sofocle, Euripide ?); e poi gli scritti letterari che, redatti su papiro, avevano un alto costo editoriale: è per questo che il Platone, uno dei maggiori rentier di Atene, ci appare oggi come lo scrittore più prolifico di tutto il mondo antico (non solo dell’antica Grecia). E perché Platone scrisse tanto, sostenendo costi esorbitanti, se non per fare politica attraverso una nuova forma comunicazionale – il dialogo – che, da grande poeta e drammaturgo qual era, si inventò sulla base dei modelli teatrali esistenti e dell’oralità politica di Socrate ?

 

In ultimo, credo che il libro di Calenda – un non marxista che, partendo da Socrate, ci illumina su un tema come la Democrazia, che dovrebbe stare al centro del pensiero di ogni marxista – meriti a margine anche qualche breve considerazione supplementare, che ritengo utile esporre al fine chiarirci le idee sul mondo contemporaneo, fondamentalmente antidemocratico, in cui viviamo.

In primo luogo, la condanna di Socrate fu assolutamente giusta, poiché il processo si svolse in maniera  ineccepibile, secondo una procedura imparziale e corretta. Infatti, sia l’accusa penale che la difesa erano rituali codificati nel quadro di norme impersonali scritte, che un Arconte preposto faceva rispettare passaggio dopo passaggio. In quale altro luogo del pianeta Terra esisteva un tale procedimento penale codificato, sottratto al capriccio arbitrario di un Re ? Non esisteva né nell’Egitto dei faraoni, né in Persia, né nel Celeste Impero cinese, che rappresentarono, nell’antichità, i punti più avanzati della civiltà umana. Nell’antica Roma esisteva solo una giustizia palesemente classista[xvi] e, fuori da Roma, la faida privata tra famiglie oppure l’ordalia tribale, ossia la giustizia affidata, presuntivamente, al giudizio divino. Se dunque nel mondo ellenico l’Umanità conquistò per la prima volta una giustizia retta da norme umane e amministrata in maniera imparziale dagli uomini stessi, ciò avvenne perché la Polis era il mondo creato dall’Uomo a misura umana.

In secondo luogo, il processo di Socrate fu assolutamente giusto perché non vi era possibilità di corrompere i Giudici, come si può fare oggi. Intanto, perché essi non costituivano una casta massonica[xvii] separata dal resto del popolo. I Giudici erano i cittadini stessi, che in numero di 500 venivano sorteggiati a costituire la giuria, appena un’ora prima dell’inizio del processo. Nessuno poteva sapere, fino al giorno prima, chi sarebbe stato chiamato a far parte della giuria popolare. Inoltre, il processo iniziava e si concludeva nell’arco di un solo giorno. Questa era l’architettura giudiziaria della democrazia popolare: il tribunale era l’emanazione diretta del potere di autogoverno del corpo sociale stesso della Polis.

In terzo luogo, infine, ci siamo mai chiesti chi fossero gli accusatori di Socrate ? Erano tre semplici uomini del popolo: Meleto, Anito e Licone. Per quanto detto innanzi, la procedura d’accusa era codificata: doveva essere presentata da un accusatore che “giurava” sulla veridicità della denuncia, insieme ad altri due testimoni che la confermavano. Non si sporgevano denunce penali a cuor leggero poiché, in caso di soccombenza, l’accusatore avrebbe pagato un prezzo ben maggiore delle mere spese processuali oggi richieste: sarebbe stato punito con l’atimia, ovvero con la perdita dell’onore sociale e dei diritti politici, che comportavano anche la preclusione a ricoprire cariche politiche e ad avere diritto di voto nell’Assemblea deliberante (Ekklēsía).I supporter di Meleto erano Licone e Anito, due capipopolo di quartiere che, però, non erano ricchi.

In quarto luogo, mi pare perciò evidente che Anito e Licone spinsero l’umile Meleto a sporgere denuncia. Perché ? Perché Socrate, come detto, non era solo il “cattivo maestro” della fazione filo-oligarchica, ma nel 404 a.C. era stato anche direttamente colluso con il regime dei Trenta Tiranni, ricevendo un incarico da magistrato. Quando il capopopolo Trasibulo, nel 403, riuscì a spodestare i Trenta Tiranni e a restaurare la Democrazia, al fine di evitare uno strascico cruento della guerra sociale, l’Arconte Euclide decretò una speciale amnistia (l’oblio del passato), ovvero il condono dei reati commessi nel 404 e durante lo stato di guerra. In base a questo decreto, nessun Oligarca o sostenitore dei Trenta Tiranni poté essere perseguito, neanche il crudele e sanguinario Crizia. Trasibulo, dunque, non poté consumare alcuna vendetta politica. Anito e Licone, però, spinsero 4 anni dopo (nel 399) Meleto a denunciare Socrate: se i capi d’accusa non potevano essere fondati sui trascorsi di Socrate in collusione con i Trenta Oligarchi, è evidente che si dovettero necessariamente basare sulla recidività di Socrate, sulla sua reiterata condotta delinquenziale (nel senso di antidemocratica). In altre parole, anche dopo l’amnistia politica Socrate continuò a lavorare per indebolire di nuovo la democrazia. Non vedo altre spiegazioni coerenti.[xviii]

Pertanto, è da escludere l’ipotesi che Meleto possa aver presentato contro Socrate un’accusa campata in aria, ovvero priva di fondamento e di riscontri oggettivi. Piuttosto, ci siamo mai chiesti come abbia fatto l’umile e ignorante Meleto a sconfiggere un finissimo e sapiente oratore come Socrate? Il procedimento giudiziario era un agon, un dibattimento in contraddittorio che si svolgeva, senza l’ausilio di avvocati professionisti, direttamente tra l’accusatore e l’accusato, alla luce del sole e davanti alla giuria popolare (non erano processi a porte chiuse come sono, di fatto, quelli odierni). Meleto espose le sue tesi accusatorie, controbatté all’arringa difensiva di Socrate e alla fine ebbe la meglio, poiché la giuria popolare ne riconobbe le ragioni con una maggioranzadi 280 voti favorevoli contro 220 contrari.

Il tribunale ateniese, comunque, raramente comminava la pena di morte, già dalla seconda metà del V secolo a.C. Un’altra procedura codificata consentiva, in seconda battuta, che il condannato proponesse una pena alternativa da scontare rispetto a quella di morte o a quella richiesta dall’accusatore. Ma Socrate rifiutò la commutazione della pena (non cercherò qui di spiegare il perché). Anzi, secondo la stessa Apologia platonica, Socrate si comportò da spaccone e irrise il tribunale, chiedendo come pena quella del mantenimento pubblico a vita nel Pritaneo, che era il luogo sacro in cui bruciava sempre il fuoco, simbolo della potenza sempre viva della Polis. Sarcasticamente, Socrate espresse così il suo assoluto disprezzo per il tribunale e per il cuore stesso delle istituzioni democratiche della Polis. Fu per questo che alla seconda votazione, relativa alla determinazione della pena, la giuria condannò a morte Socrate con una maggioranza più ampia di 330 voti favorevoli vs 170 contrari.

Non è comminata anche oggi una maggiorazione della pena allo sbruffone che deride in tribunale l’Autorità Giudiziaria e tutta la Magistratura ?

La cosa veramente straordinaria, a mio avviso, è l’abilità mostrata dall’umile Meleto, che prima denunciò una celebrità come Socrate e poi la sconfisse nell’agon dibattimentale. Quale persona comune si sognerebbe oggi, in Italia, di denunciare, ad esempio, una potente celebrità come Vittorio Sgarbi ?  Le recenti esperienze giudiziarie di Renzi e Berlusconi ci insegnano che gli imputati, quando possono avvalersi dei servizi dei migliori e più costosi Studi Legali, alla fine riescono a ottenere l’assoluzione anche di fronte ad accuse basate su reati evidenti e conclamati.

E allora viva Meleto, piuttosto che Socrate ! Perché per trovare un altro Meleto dobbiamo arrivare al 1933, a Grigory Dimitrov, fondatore del Partito Comunista di Bulgaria e braccio destro di Stalin nell’Internazionale. Arrestato a Berlino con l’accusa di essere corresponsabile dell’incendio appiccato dai nazisti stessi al Reichstag, Dimitrov si difese da solo (parlava bene il tedesco) e dopo 11 mesi di dibattimento riuscì a inchiodare nel contraddittorio diretto sia Goebbels che Hermann Goring, mostrando il carattere artificioso di tutto quell’impianto accusatorio.

Probabilmente anche Meleto mise in crisi Socrate nell’agon dibattimentale, anche se nessuno (neanche Policrate) si è preoccupato di tramandarci niente di lui. E’ un motivo in più per leggere il libro di Guido Calenda. Serve a capire meglio la storia della Filosofia Antica e soprattutto a farsi un’idea più chiara di cosa dovrebbe essere la Democrazia, della quale in Italia e in Europa c’è vera carenza.

Il libro di Calenda serve, ovviamente, a capire meglio Socrate, il cattivo maestro che fa politica eversiva e filo-oligarchica. Questo Socrate politico a noi non piace proprio. Ma, nel distruggere il mito di Socrate, non bisogna però buttare a mare anche le conquiste filosofiche fondamentali che Socrate ha trasmesso all’umanità: l’ironia investigativa, il dubbio metodico e la confutazione (ελεγχος), il ragionamento rigoroso in forma dialogica.

 

[1] Cfr. ad es. la Teogonia di Esiodo. E anche il Demone di Socrate.

[i] Del resto, lo dimostra lo stesso Socrate nel corso del dibattimento contro Meleto, il suo accusatore, affermando che siccome egli crede nell’esistenza di uno spirito divino (il daimonion), allora deve credere necessariamente anche nell’esistenza delle divinità. Questo il passo dell’arringa difensiva di Socrate ricostruito da Platone nell’Apologia: «SO: Ma se credo in una realtà démonica, ne consegue che credo pure nell’esistenza dei démoni, non è così? ME: Così è. SO: […] E i démoni non li consideriamo o divinità [indipendenti] o figli degli dei, che ne dici? […]».

[ii] Quando Aristofane rappresentò la commedia, nel 423 a.C., Socrate aveva 46 anni ed era dunque nel pieno della maturità.

[iii] Quando nel 1967 con Totò De Curtis e Ninetto Davoli, e con la partecipazione canora di Domenico Modugno, Pasolini girò il cortometraggio “Che cosa sono le Nuvole”, al sedicente “corsaro del pensiero” non venne in mente l’opera quasi omonima di Aristofane.

[iv]Che l’episodio narrato nell’Apologia di Socrate circa la rivelazione della Pizia delfica sia un puro imbroglio, cioè un episodio inventato di sana pianta da Platone, è stato già dimostrato ampiamente tra il 1978 e il 1981 dal prof. Mario Montuori, del quale consiglio la lettura del suo Socrate. Fisiologia di un mito, La Nuova Italia, Firenze 1998.

[v] Espressione del punto di vista della vecchia aristocrazia, che pure sosteneva politicamente e finanziariamente l’attività di Socrate, Aristofane rappresenta Socrate come un cialtrone che vive nella stanza del Pensatoio sospesoa mezz’aria, dondolandosi oziosamente su un’amaca, mentre insegna ai giovani a rifiutare i valori tradizionali del ghenos. Alla fine il Pensatoio viene distrutto da un padre che, disperato, vi appicca fuoco per salvare il figlio dalla corruzione morale. Non riesco ancora a spiegarmi il perché gli spunti comici, morali e filosofici che offre questa grande commedia di Aristofane non siano mai stati colti e rielaborati da nessun regista o drammaturgo in epoca moderna e contemporanea. Vale la pena ricordare che Aristofane era l’autore teatrale preferito da Karl Marx. Dirò di più: senza la lezione comica di Aristofane, Marx non avrebbe mai potuto concepire tutte le espressioni mordaci e caustiche con cui boccia le teorie degli “economisti volgari”.

[vi] Franco Ferrari (a cura di), Socrate tra personaggio e mito, BUR, Milano 2007.

[vii] G. Vlastos, Socrate, il filosofo dell’ironia complessa, La Nuova Italia, Firenze 1998, ripensa così (a modo suo) l’ironia socratica solo per poter riaffermare il “sacro dogma” che Socrate accettò la morte ingiusta in nome della conoscenza e della libertà di pensiero. E così ritorniamo all’ideologia degli illuministi espressa nel dipinto di David.

[viii]http://btfp.sp.unipi.it/dida/apologia

[ix]Si tratta di un testo frammentato, che solo 50 anni fa il lavoro di vari studiosi ha ricondotto a parziale unità. Si vedano le argomentazioni conclusive del Prof. Livio Rossetti nel numero unico della Rivista di Cultura Classica e Medievale del 1974.

[x] L’empietà di Socrate non è, per così dire, quella di Alcibiade che, nottetempo, mutilò le sacre Erme !

[xi] Non è ancora oggi, a 2400 anni circa di distanza, ancora un sacrilegio il vilipendio verso la bandiera ?

[xii] L. Canfora, Democrazia.Critica della retorica democratica, Laterza (2002), Roma-Bari 20229.

[xiii]“Ateniesi! Avete ucciso Socrate, il sofista, perché risultò che aveva educato Crizia, uno dei Trenta che avevano abbattuto la democrazia, e lascerete che Demostene venga a piagnucolare in giudizio per i suoi amici?” (Contro Timarco, 1,73 – sottolineature mie).

[xiv] Ho in mente ancora a Monica Pacini (2008), che si aggancia a Vlastos per affermare che l’Accusadi Policrate non andrebbe letta in riferimento al reale processo di Socrate, ma solo come un’operetta teatralizzata sul personaggio di Anito (il maggior nemico di Socrate), che sarebbe stata scritta da Policratesolo per dar mostra delle sue capacità retoriche ! Come se, insomma, per i cittadini liberi dell’antica Atene fosse stato possibile vivere “a-politicamente” nella Polis, che era la comunità politica per eccellenza !

[xv] Che quelle forme comunicazionali, atte a influenzare l’opinione pubblica, consistessero principalmente in mezzi artistici e letterari è ciò che, a mio avviso, rappresenta il vero segreto di quella grande fioritura dell’Arte e della Letteratura che sbocciò anticamente nel mondo delle Polis.

[xvi] Nell’antica Roma repubblicana non esistette mai questo tipo di tribunale popolare. La magistratura giudiziaria era selezionata all’interno della classe dominante, cosa che contraddice l’autogoverno della democrazia popolare.

[xvii] Si pensi al caso Palamara.

[xviii] Spero che questa mia abduzione serva a mettere in pace il cuore di tutti gli odierni amanti di Socrate.

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1 commento per “Socrate maestro eversivo, filo-oligarchico e “nemico del popolo”?

  1. Giulio Bonali
    25 maggio 2023 at 9:30

    Ringrazio sentitamente l’ autore del libro (che ovviamente leggerò) e il recensore.
    La ricerca della verità non può fare che bene, e comunque male non fa nemmeno quando relativa a fatti inattuali; ma in questo caso le analogie (con i loro elementi di identità ed elementi di diversità ovviamente entrambi da non ignorare) con l’ oggi sono troppo evidenti per non considerarlo “attuale”.

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