Totalità e totalitarismo

Il titanismo dei nostri giorni non è che una forma di riduzionismo, mediante la matematica e l’applicazione di calcoli ci si difende dalla realtà, per dominarla attraverso previsioni e ricostruzioni astratte. Alla verità ed alla sua multifocalità si è sostituito l’astratto e la derealizzazione. Il titanismo è l’effetto della rinuncia alla ricerca della verità, lo scambio dell’astratto con il concreto produce “mostri”. La pratica del titanismo è  quotidiana, il suo epifenomeno è plurale,  si materializza col narcisismo atomistico ed il saccheggio perenne delle risorse naturali ed umane. La rinuncia alla verità è il fondamento del titanismo globale. Dalla verità ci si difende con il rifugiarsi nel delirio collettivo di grandezza. Il linguaggio è infetto da tale atteggiamento, dalla pubblicità al linguaggio ordinario e culturale, ovunque, si insinuano parole come:  “alla grande”, “successo”, “godimento senza fine”. Più l’io diventa minimo tanto più il titanismo occupa i sogni distopici dell’ultimo uomo, secondo la definizione di Nietzsche nella Gaia scienza (aforisma 125).

“Il cretinismo della specializzazione” , fa in modo che nelle accademie si rinunci alla verità. Si irride alla filosofia teoretica, perché pone quesiti non risolvibili con algoritmi, e specialmente pone in discussione i postulati dello specialismo.

La verità è un iter conoscitivo, orienta i nostri comportamenti senza esaurirne la sua profondità. La verità è il fondamento che conserva le brecce per il suo autoripensamento. Lo specialismo coglie frammenti di verità, ma senza la sua integrazione nella complessità, esso non è che una forma aggressiva di totalitarismo che vorrebbe imporre una visuale unica, un’unica prospettiva respingendo la categoria della totalità per affermare il totalitarismo del pensiero unidirezionale. Il totalitarismo è agorofobico vuole solo spazi chiusi senza tempo. La totalità è la verità con i suoi piani sincretici che necessitano per il suo disvelamento di una pluralità di metodi e di modalità conoscitive. La Filosofia è la disciplina che non solo integra i piani, ma ricerca la totalità, essa insegna a vivere la totalità. Lo sguardo filosofico  intenziona le parti integrandole, trascendendo la notte degli specialismi per  coglierne la sostanza che vivifica la totalità e le dà organicità e senso. Il totalitarismo, invece, è il riduzionismo per eccellenza, poiché una sola prospettiva diventa l’elemento preponderante che annichilisce la complessità. Lo specialismo si irrigidisce in sistema conchiuso in se stesso, non vi sono aperture verso altri percorsi, ma solo la gravità unidirezionale che neutralizza il concetto per normalizzare il silenzio, dove regnava il logos nella sua pluralità dialogante. Si ha l’adiaforizzazione, ovvero, si necrotizza ogni risvolto etico dell’agire per rafforzare la sola logica del risultato e dell’efficienza.

 

Verità in Pavel Florenskij

Pavel Florenskij ha indagato “il mondo come un intero”, “è stata la sua colpa[1]”. Il potere non tollera la verità, per eternizzarsi forma i sudditi allo specialismo con il quale ogni orizzonte veritativo è cancellato dalla finalità formativa e di ricerca.

I piani di verità si integrano verso la trascendenza, la quale non ha confini definitivi, ma le è consustanziale il movimento dialettico. Ogni sistema totalitario non ammetteche l’imperio di un solo volto del reale che in tal modo diviene irrazionale, incomprensibile. L’ambizione di ogni totalitarismo è l’ipostatizzazione del presente. Si ha, di conseguenza, il caos della derealizzazione, la scollatura tra il reale ed il concetto, ciò non può che comportare la solitudine e la violenza:

“Che cosa ho fatto per tutta la mia vita?” si chiese. “Ho indagato il mondo come un intero, come un singolo quadro e una singola realtà.  Ma  feci  questa  indagine  in  ogni  dato  momento,  o  più precisamente  in  ogni  periodo  della  mia  vita,  da  un  particolare angolo  o  prospettiva.  Indagavo  le  relazioni  del  mondo sezionandolo  in  una  direzione  particolare,  su  di  un  piano particolare, e mi sforzavo di comprendere la realtà del mondo da questo piano che mi interessava. I piani erano differenti, ma uno non  negava  l’altro,  bensì  lo  arricchiva.  Ciò  produceva  una perpetua  dialettica  di  pensiero,  ‘lo  scambio  dei  piani  di osservazione,’ mentre allo stesso tempo vedevo il mondo come un tutto unico[1].”

 

Totalitarismo esiziale

Il totalitarismo nega la ricerca della verità per omologare i popoli in masse, in plebi che devono obbedire  restando inchiodati nella caverna, con lo sguardo ed il corpo vissuto teso verso gli imperativi di regime. Il totalitarismo trasforma un aspetto del reale in feticcio da adorare, in liturgia prosaica ripetitiva e priva di ogni fine ontologico, è il ritrovarsi in un guscio vuoto che incapsula e necrotizza la creatività di ciascuna persona. La cultura e la creatività non sono espressioni immediate, semplici automatismi, ma esigono impegno, disciplina, capacità di donarsi. L’inganno del totalitarismo nella forma del capitalismo assoluto è rappresentare la cultura e la creatività in modo gaudente e caotico, in tal modo neutralizza la pericolosità del  pensiero, declassando la creatività a prodotto di facile produzione e consumo. La contemporaneità, malgrado le grandi conquiste tecnologiche, è nel segno della negazione della cultura:

“La  cultura  è  la  lotta  consapevole  contro l’appiattimento  generale;  la  cultura  consiste  nel distacco,  quale  resistenza  al  processo  di livellamento  dell’universo,  è  l’accrescersi  della diversità  di  potenziale  in  ogni  campo  che  assurge a  condizione  di  vita,  è  la  contrapposizione all’omologazione,  sinonimo  di  morte[2]”.

 

L’ipertrofia della soggettività

La prospettiva rinascimentale  nella ricostruzione genetica di Pavel Florenskij è il trionfo della soggettività e del relativismo, essa prepara la matematizzazione del reale. Se la soggettività resta avviluppata su se stessa, se riduce il reale a semplice costruzione euclidea, si ritira dal reale per vivere l’esperienza dell’astratto, al punto che la soggettività non vive il reale in cui è immersa, ma mediante calcoli matematici produce rappresentazioni senza la necessità di ascoltare la vita. Si tratta di un’immensa rete geometrica e matematica che ingabbia il reale, lo tumula sotto il peso dei calcoli, scambiando la rappresentazione matematico-geometrica per realtà. E’ un processo di allontanamento dalla vita che implica il disancorarsi dalla verità per trasformare l’io calcolante in una divinità che tutto deve sussumere a se stessa. La prospettiva nell’arte, quindi, con il suo tecnicismo prepara la Rivoluzione copernicana e lo scientismo totalitario:

“In secondo  luogo: a dispetto  della  logica e di   Euclide, ma ormai nello spirito            della  concezione del mondo    kantiana,  con       il suo soggetto trascendentale che regna sul            mondo illusorio della soggettività (e, ciò che è  peggio,  lo fa in maniera coercitiva),  il nostro  artista,  fra tutti i  punti dello spazio infinito (che in Euclide  sono rigorosamente uguali), ne sceglie uno solo, esclusivo, unico, che si distingue da tutti  gli altri per il  suo valore, un punto monarchico, se così si  può dire, ma la cui unica prerogativa è di essere il  luogo in  cui si trova   l’artista stesso       o, per  essere più esatti, in cui si trova il suo occhio destro, il centro ottico           del      suo occhio destro. Tutti i luoghi dello spazio, alla luce di un simile modo di pensare, sono luoghi privi di qualità e ugualmente incolori, eccezion fatta per quest’unico luogo che domina su  tutti gli altri,  in quanto ha  ricevuto  il privilegio di essere sede del  centro  ottico dell’occhio  destro dell’artista. Questo  luogo viene  proclamato centro del mondo e pretende di proiettare spazialmente il carattere gnoseologico, assoluto, kantiano dell’artista.  In  verità            egli guarda la vita           «da un punto di vista», ma  senza alcuna  precisazione ulteriore, perché questo punto innalzato a vero e proprio assoluto, non si distingue in  nulla da tutti  gli altri punti dello  spazio, e la proclamazione della sua superiorità rispetto agli altri non  solo non  è motivata ma, se si considera  la sostanza dell’intera concezione del mondo qui esposta, è anche immotivabile[1]”.

Lo sguardo narcisista vorrebbe dominare il reale con la tecnica, estromettere la coscienza dalla relazione con il mondo e viceversa, il risultato è solo impoverimento dell’esperienza. La verità esige il coraggio di “ritornare alle cose stesse”, e di problematizzare, in primis, la soggettività ed il suo ruolo nell’occultare la verità.

 

Paura del reale e della verità

Nella pratica dell’esemplificazione totalitaria si cela il bisogno di difendersi dalla verità, la quale sgretola le false certezze in cui ci si rifugia.  La realtà è come una linea retta, secondo il filosofo e mistico russo, si puo’ decidere di osservare un punto della retta, o di capire che la retta è fatta di punti indissociabili. Cultura è sguardo che non arretra innanzi all’insieme ed alle sue connessioni. Rappresentarsi un mondo storico e naturale incapsulato in sistemi e formule favorisce il sogno d’onnipotenza che sempre è riposto tra le pieghe della conoscenza che abiura la filosofia teoretica. I regimi totalitari riconosciuti e non fanno “buon uso” delle paure ataviche degli esseri umani come del sogno d’onnipotenza. La cultura è lotta, in quanto è confronto con tali paure e desideri. Essa permette di attraversare i deserti interiori e collettivi per tracciare nuovi inizi senza rimozioni e nostalgie. Se non ci si confronta con tali dinamiche  non vi è cultura, ma solo pratica per imbalsamare il reale:

“In quinto  luogo: tutto il            mondo viene pensato come completamente immobile e assolutamente immutabile. In un mondo soggetto  a rappresentazione prospettica non può e non deve esserci spazio né per         la storia, né            per  la crescita,  né per  i cambiamenti, né per i  movimenti, né           per la biografia, né per lo  sviluppo di un’azione drammatica,  né  per il gioco delle emozioni. In caso contrario, ancora una volta l’unità prospettica del quadro si sfalderebbe. È un  mondo  morto  o avvinto  in un  sonno        eterno: è sempre, immutabilmente, lo stesso identico quadro, pietrificato nella sua gelida immobilità[1]”.

La cultura è ad un bivio, Pavel Florenskij nel gulag ha vissuto la violenza del riduzionismo prospettico,  sta a noi cogliere “la verità della sua testimonianza”, dinanzi all’avanzare di un mondo unidirezionale, incapace di guardare gli effetti e la violenza dell’economicismo che in nome del saccheggio delle risorse sta inchiodando l’umanità ed il pianeta nell’immobilità della coazione a ripetere. Vi è cultura dove l’essere umano “abbandona il proprio trono” per avventurarsi nella dialettica, per instaurare l’intersoggettività che lo accompagna verso la verità, perché ciò avvenga bisogna congedarsi dai miti e disporsi nella concretezza dell’ascolto e della parola:

“In quarto  luogo: il suddetto  legislatore viene concepito         come incatenato  per  sempre e indissolubilmente al proprio trono: se lascia questo  luogo  assolutizzato o se vi  fa      anche soltanto il più piccolo movimento,  immediatamente tutta       l’unità delle costruzioni  realizzate     seguendo le leggi della    prospettiva viene meno, e  tutta  la prospettiva che       le  regge crolla. In altre parole, in una simile concezione, l’occhio  che  guarda non è l’organo di un  essere vivente che vive nel mondo e vi lavora, ma la lente di vetro di una camera oscura[2]”.

Dove regna l’intercosalità (Massimo Bontempelli), non vi è cultura, ma solo valorizzazione della merce e la svalorizzazione dell’essere umano. L’intercosalità sostituisce il logos, l’agire  politico con lo scambio di merci, informazioni e seduzioni, il cui fine è la morte dell’essere umano. Il bivio difronte a cui si trova la cultura è la scelta tra l’umano ed il disumano, in tale scelta vi è l’implicazione di tutti. Cultura è secondo la definizione di Terenzio:

“Homo sum, humani nihil a me alienum puto”.[3]

Vi è cultura dove l’essere umano è il centro ed il fine della ricerca, la chiarezza ontologica si coniuga con la prassi assiologica. La cultura è libertà dell’agire e dell’incontro per elevarsi nell’universale concreto nel quale si coinugano metafisica ed assiologia.

 

[1] Pavel Florenskij fu condannato nel 1933 fu condannato a dieci anni  di  servitù  in  un  campo  di  concentramento fu inviato in seguito nell’isola di Solovki, morì il 15 Dicembre nel 1943

[2] Pavel Florenskij,  Lettera dal campo di concentramento di Solovki, 21 Febbraio 1937

[3] Tratto  dal  libro  di  Florenskij,  Bellezza  e  liturgia  –  Oscar Mondadori – I edizione oscar – 2010.

[4] Pavel    Florenskij La prospettiva   rovesciata  a cura di Adriano Dell’Asta  Adelphi eBook Milano 2020 pag. 74

[5] Ibidem pag. 75

[6] Ibidem pag. 75

[7] “Sono un essere umano, niente di ciò che è umano mi è estraneo” tratto dall’opera Heautontimorùmenos di Terenzio

Pavel Florenskij - Quodlibet

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