Il caso Moro e quegli anni ’70 dai quali non si riesce ad uscire

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Foto: Lettera43 (da Google)

 

Ho appena letto un post su facebook in cui si stigmatizzava duramente una trasmissione del giornalista Andrea Purgatori dedicata al sequestro, avvenuto 40 anni fa, del presidente della DC, Aldo Moro, andata in onda una decina di giorni fa sulla 7.  L’autore del post era estremamente duro nei confronti di quella trasmissione dove, secondo lui, veniva data a degli assassini criminali la possibilità – cito testualmente – “di rivendicare nobiltà e necessità dei loro atti, valore politico della loro missione e fedeltà all’ideale professato”. I commenti che seguivano erano più o meno quasi tutti su questa lunghezza d’onda.

Stavo per commentare e nel mentre ho pensato che questa mia riflessione poteva essere condivisa con un pubblico più ampio.

Penso che il terrorismo di sinistra in Italia (e ancor più in Germania dove non aveva veramente nessun radicamento sociale) sia stato uno dei più grossolani errori (ovviamente degenerato molto spesso in atti criminosi e gravissimi anche dal punto di vista etico) che siano mai stati perpetrati nella storia del movimento comunista mondiale. E’ bene, quindi, sgomberare subito il campo da equivoci: piaccia o no, quella storia appartiene – inutile e intellettualmente disonesto far finta che non sia così –  alla storia del movimento comunista, al di là delle infiltrazioni (che ci sono sempre state in tutte le organizzazioni politiche del mondo), dei depistaggi, dei lati oscuri o dell’utilizzo lucido e strumentale che ne è stato fatto da parte della classe politica di allora, dello stato o di pezzi dello stato, dei servizi segreti vari, deviati o meno, nazionali e/o internazionali.

Alle sue fondamenta c’era una lettura a dir poco obsoleta (e anche distorta) del marxismo-leninismo, a mio parere de-contestualizzato e applicato in modo dogmatico in una realtà come quella di un paese occidentale capitalista avanzato, agli albori di un processo di ristrutturazione e trasformazione radicale complessiva, sia dal punto di vista economico e-sociale, dell’organizzazione del lavoro e della composizione sociale, che dal punto di vista ideologico (perché è evidente che le mutazioni economiche/sociali vedono, contestualmente, anche la mutazione dell’ideologia/falsa coscienza dominante; quello che la sinistra attuale, neanche quella che si definisce “antagonista”, continua a non comprendere…). Un processo che, ovviamente, i militanti delle BR (e men che meno di quella banda di sciammannati di Prima Linea) non avevano minimamente compreso (ma non erano certo i soli…). In quella fase storica la lotta armata (e, soprattutto, quel tipo di lotta armata) poteva avere senso, e secondo me lo aveva, in tutt’altro contesto, come ad esempio un paese latinoamericano, asiatico o africano, sottoposto a dominazione coloniale oppure ad una dittatura al servizio dell’impero a stelle e strisce; certamente non in un paese capitalista europeo (e sicuramente non con quelle modalità) dove anche e soprattutto la conflittualità deve (e doveva) essere all’altezza delle sfide che la complessità di tale sistema di dominio le richiede. Qualsiasi scorciatoia, in un tale contesto, può produrre solo gravissimi danni e/o degenerazioni sia politiche che umane, come infatti è puntualmente avvenuto.

Fatta questa premessa ho manifestato un dissenso radicale rispetto a come è stata impostata quella discussione. A leggere i commenti di molti sembrava quasi che un bel giorno un gruppo di criminali e assassini assetati di sangue si fosse svegliato la mattina e avesse cominciato ad ammazzare la gente sotto casa…

Sappiamo benissimo che la realtà era ben diversa. L’Italia aveva all’epoca una collocazione geopolitica strategica molto importante per gli equilibri internazionali, era al centro del Mediterraneo ed era un crocevia all’interno dello scontro fra il blocco occidentale a guida USA e quello sovietico, quella che allora era chiamata appunto la “guerra fredda” (senza esclusione di colpi, come in ogni guerra…), con tutto ciò che questo ha comportato nella politica interna con il suo complesso intreccio di trame oscure di stato, strategia della tensione, stragi, depistaggi di vario genere, aerei abbattui da missili non si ancora sparati da chi,  ecc. ecc.

Va doverosamente ricordato che si era nel pieno di un grande scontro sociale e politico, di lotte sociali e operaie diffuse su tutto il territorio nazionale, durate più di un decennio e che hanno coinvolto milioni e milioni di persone, lavoratori, disoccupati, giovani, studenti, ecc.

La risposta (di certo non meno criminale di quella del terrorismo, per dirla con un eufemismo…) della borghesia e delle classi dirigenti nazionali e internazionali e dei loro apparati repressivi (servizi segreti, forze di polizia, CIA, NATO, più strutture parallele, vedi Gladio, ed eversive/golpiste, vedi P2) a quell’ondata di lotte, fu appunto la strategia della tensione che, guarda caso (si fa per dire…), iniziò in concomitanza con l’esplodere della grande rivolta operaia del ’69 (il famoso “autunno caldo”). Una strategia che seminò il terrore e si tradusse nelle stragi che provocarono centinaia di morti (ovviamente civili inermi e ignari) nelle piazze, nelle stazioni ferroviarie, sui treni o durante lo svolgimento di manifestazioni

Inoltre, è ormai risaputo che lo stesso PCI in quegli anni temeva un colpo di stato reazionario sull’onda di quello avvenuto in Cile (che fu anche un avvertimento a tutte le sinistre mondiali), e anche quell’evento condizionò non poco la politica del PCI stesso in quegli anni. La strategia del “compromesso storico”, pensata e promossa dal gruppo dirigente di quel partito  – al di là dei giudizi che se ne possono dare a posteriori – fu sicuramente anche indotta dal timore che la situazione potesse degenerare e che anche in Italia le classi dirigenti e in particolare gli USA potessero optare per una soluzione autoritaria e golpista.

Ricordo altresì, avendo vissuto in pieno quella fase storica da giovane militante di estrema sinistra come molti altri, che furono decine (mi sembra superfluo fare l’elenco ma se volete lo faccio…) i giovani rimasti uccisi in quegli anni durante semplici manifestazioni o scontri di piazza. Non sto parlando di terroristi ma semplicemente di ragazzi uccisi dalla polizia, dai carabinieri o dai fascisti (per onestà intellettuale debbo ricordare che anche diversi militanti neofascisti rimasero uccisi in scontri con la polizia e con militanti di sinistra) nelle piazze, molto spesso con quella che, psicologicamente parlando, verrebbe definita una “reazione abnorme rispetto all’evento”. E, come ripeto – non parlo per sentito dire –  dal momento che ricordo benissimo episodi e frangenti drammatici in cui agenti e funzionari di polizia (o dei CC) svuotarono interi caricatori alle spalle di gruppi di giovani e giovanissimi in fuga durante dei banalissimi incidenti dove sarebbe stato sufficiente il solito rituale lancio di lacrimogeni, uso di idranti o cariche di alleggerimento (al limite un po’ più decise…) per risolvere il tutto. E invece si scelse, anche in quei casi, di forzare la mano. Siccome non credo alla casualità in politica, non penso che quel modo di procedere fosse casuale bensì il risultato di una decisione politica.

Quello che voglio dire è che non si può parlare del terrorismo delle BR de-contestualizzandolo e de-storicizzandolo, come a mio parere è stato fatto in quella specifica occasione e come viene per lo più fatto in tanti altri simili frangenti. Capisco che ciascuno abbia i suoi trascorsi e il proprio passato politico da difendere (credo che una buona parte dei commentatori di quel post fossero all’epoca militanti del PCI che, come noto, assunse una posizione di chiusura totale non solo nei confronti del terrorismo, cosa del tutto comprensibile, ma anche nei confronti di tutto ciò che si muoveva alla sua sinistra, e questo fu un errore, a mio avviso) però penso anche che se si vogliono veramente capire i fenomeni e produrre un’analisi lucida della realtà bisogna uscire dalle logiche di bottega, dalla difesa strenua della propria trincea – specie a distanza di tanti anni –  e approcciare anche quella fase storica con maggiore lucidità. Il sottoscritto, allora giovanissimo, era un critico accanito e radicale della sinistra istituzionale e del PCI in particolare, che considerava un partito “revisionista” (che allora era un insulto…) e traditore della classe operaia.  Con il tempo, ovviamente, si cresce e si matura e anche la mia analisi su quel partito, pur restando molto critica, è mutata sia negli atteggiamenti che nei contenuti. Dopo di che penso che l’evoluzione/involuzione di quel partito sia stata nel corso degli anni disastrosa, ma questo è un altro discorso ancora…

In estrema sintesi, credo che un fenomeno storico, sociale e politico complesso come quello rappresentato dallo scontro sociale e politico avvenuto negli anni ’70 di cui il terrorismo di sinistra è comunque figlio, non possa essere affrontato con le lenti e l’approccio con cui è stato affrontato in quella discussione. Ridurre e risolvere il terrorismo di sinistra a un fenomeno criminoso può essere rassicurante per molti e in più direzioni (a sinistra come a destra), ma non ci aiuta di certo a comprendere la realtà per quella che era (e neanche il fenomeno della lotta armata in Italia).

Aggiungo un’ultimissima considerazione che invece a me pare di fondamentale importanza, proprio per capire perché non si riesce ancora ad “uscire” politicamente da quegli anni.

Saremo tutti d’accordo, credo – al di là delle rispettive posizioni politiche – sul fatto che il fascismo (e i lutti da questo provocati direttamente o indirettamente) ha rappresentato per l’Italia una tragedia ben peggiore del terrorismo di sinistra: vent’anni di dittatura, alleanza con il nazismo, leggi razziali, deportazioni, aggressione colonialista e razzista all’Etiopia (questa, forse, il crimine più imperdonabile…) con relativi crimini di guerra, adesione alla guerra imperialista scatenata da Hitler con relativa aggressione e invasione della Jugoslavia, della Grecia, dell’Albania e dell’URSS, successiva guerra civile, rappresaglie criminali, il paese lacerato, centinaia di migliaia di italiani mandati a morire nelle steppe russe, in Africa settentrionale e in altri teatri di guerra più tanti civili rimasti vittime dei bombardamenti angloamericani e chi più ne ha più ne metta.

Eppure, subito dopo la caduta del fascismo e la fine della guerra si voltò pagina, anche con una certa disinvoltura. Lo stesso Togliatti concesse l’amnistia (e aprì addirittura le porte del partito a quei fascisti che secondo lui avevano aderito al fascismo per ragioni sociali) e ai fascisti fu consentito di dar vita ad un loro partito (il MSI) che fra i suoi dirigenti annoverava, fra gli altri, un certo maresciallo Rodolfo Graziani, criminale di guerra, responsabile del massacro di decine di migliaia di libici e di abissini impiccati per rappresaglia o gasati.

Ma da quella tremenda lacerazione si uscì tutto sommato nell’arco di pochi anni. Non si riesce, invece, o non si vuole, trovare una via di uscita politica (sottolineo, una via di uscita, non una rimozione…) alla vicenda degli anni ’70, nonostante siano ormai trascorsi quarant’anni. Perché?

Credo che una delle ragioni sia da individuare, appunto, nel rifiuto ostinato di considerare anche il terrorismo di sinistra, con tutte le sue tragedie, la sua follia, le sue zone d’ombra e le sue ambiguità, un pezzo, volente o nolente, di quella grande stagione di lotte sociali che sconvolse il paese durante gli anni ‘70.  E, anche se può sembrarci paradossale, quegli anni hanno rappresentato per questo paese una frattura più profonda che non si riesce ad elaborare. Penso che ciò sia da attribuire al fatto che quei movimenti hanno scavato un solco in profondità mettendo radicalmente in discussione l’ordine sociale senza alcuna mediazione, mentre la fuoriuscita dal fascismo fu in fondo condivisa da tutte le forze politiche e culturali e non ha costituito, nonostante tutto, un fattore così profondo di lacerazione, anche in termini psicologici. La rielaborazione e il superamento del fascismo, per la società italiana nel suo complesso, in termini politici, culturali e anche psicologici, è stato più indolore rispetto alla tuttora mancata rielaborazione degli anni ’70.

 

 

1 commento per “Il caso Moro e quegli anni ’70 dai quali non si riesce ad uscire

  1. gino
    30 Marzo 2018 at 0:06

    riflessione condivisibile. aggiungo alcune mie brevi opinioni.

    1) in comparazione col paese in cui vivo (brasile) credo proprio che in italia ci sia un eccessivo (forse paranoico) attaccamento al passato. se l’italia fosse più proiettata al futuro ci sarebbe una maggiore e più rapida elaborazione, accettazione e contestualizzazione del passato. forse nel primo dopoguerra, una maggiore proiezione al futuro aiutò l’elaborazione del fenomeno fascista (ma ricordiamo che comunque circa 20.000 fascisti furono giustiziati in modo “autoprodotto” prima di elaborare…).

    2) numericamente parlando, i delitti degli “anni di piombo” furono risibili, lessi di 300 morti (stragi comprese) in 15 anni… oggi cifre simili in venezuela le fanno in una settimana di proteste o, in certi paesi arabi, in 2 giorni di attentati.
    quindi il fenomeno “anni di piombo”, nella sua declinazione “plumbea”, manco merita tutta st’importanza che tutti gli danno, dagli stessi partecipanti, ai repressori, ai media, all’opinione pubblica.

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