Crisi ed egemonia

Non mi stancherò mai di ripeterlo. Esiste una barriera impervia perché si possa arrivare a concepire mutamenti di indirizzo politico/sociali rispetto al naturale scorrimento delle società tardo-capitalistiche. Questo ostacolo detiene una difficoltà ancor più ardua da superare rispetto a semplici riforme – seppur auspicabili – sulle funzioni da assegnare allo Stato o a una Banca Centrale. Si tratta della questione dell’egemonia culturale. Quando si parla di egemonia si deve necessariamente far riferimento a una narrazione che è accettata anche da chi non gode di alcun beneficio economico da una determinata struttura della società. Anche chi pensa di contestare quei presupposti di discorso si ritrova fatalmente a impaurirsi per le conseguenze finali di un determinato assetto ma ha imparato a riconoscerne la validità logica di approccio all’esistenza.
La Fine della Storia tanto decantata a partire dal crollo del blocco socialista non ha comportato solo conseguenze economico/sociali strettamente connesse al nesso tra sviluppo capitalistico e imposizione di una determinata visione della democrazia costruita a immagine e somiglianza della libera circolazione dei capitali. Ha presentato una visione dell’essere umano che è stata ritenuta allettante dalla grande maggioranza della popolazione. La contestazione al modello di produzione industriale e fordista si sostanziava nella natura gerarchizzata delle relazioni sociali. La società burocratizzata era fortemente contraddistinta dalla dimensione dell’obbligo, dei divieti e di espliciti imperativi di comando. Ma fu proprio il capitalismo a comprendere che la sollevazione da questo tipo di oppressione poteva essere donata all’individuo proprio da una diversa struttura dell’azienda che si spogliava di retaggi ispirati al modello burocratico. Il carattere d’impresa diventava snello, rapido, creativo. L’immaginazione al potere.
Se si ha un po’ di memoria si può ricordare che all’inizio degli anni ’90 la filmografia americana ha iniziato a raccontare l’emersione di un determinato tipo di violenza. Nelle sue declinazioni drammatiche grazie a registi come Lumet o Abel Ferrara o sarcastiche alla Tarantino, si faceva strada la visione di una violenza apparentemente gratuita. Ma se si va più a fondo si potrebbe scoprire che allora l’America stava raccontando la conclusione della violenza come reazione a una società della negazione. Dove la scintilla non era rappresentata da reazioni a condizioni esistenziali oppressive, repressive o socialmente ingiuste. Quel tipo di violenza anche nella sua espressione più tipicamente criminale era legata a una dimensione dialettica con l’altro. Quindi era per sua natura politica. Negli anni ’90 appare una violenza casuale, arbitraria e spesso autodistruttiva. Determinata dall’espansione bulimica del soggetto. Il cinismo sottostante quel racconto descriveva la società della prestazione, libera da dogmi morali, incatenata agli obblighi dei desideri personali. La gratificazione non arrivava dall’eliminazione dell’altro o dalla sconfitta del nemico, ma nella perpetuazione indefinita dell’azione violenta.
Così era l’individuo a sostenere la responsabilità della rottura del patto sociale. Non esistevano classi, comunità, strutture collettive. Anzi tutte loro imbrigliavano il soggetto in una dimensione dispotica. L’individuo poteva concorrere insieme agli altri per il raggiungimento della felicità in terra. Si commette un errore nel pensare che questa beatitudine dovesse essere legata semplicemente al consumo. Il consumo di massa non è fenomeno così recente. Il vero cambiamento di paradigma che ha modificato realmente i rapporti di forza all’interno delle nostre società può essere rappresentato dal concetto di uomo/impresa. L’essere umano doveva assimilare le caratteristiche fondanti dell’azienda. Competizione, investimento, massimo profitto. Imprenditore di sé stesso e capitale umano per arrivare al massimo godimento personale. Immediatamente il termine libertà ha assunto un significato impolitico. Si è slegato dall’idea della dignità sociale dell’individuo.
Quell’idea si basava su una forte politicizzazione della società. L’individuo viveva all’interno di una consesso apertamente conflittuale. Lo stesso Stato stabiliva attraverso i dettami costituzionali che il popolo non era portatore di interessi omogenei. Le spinte contrastanti esistenti nella realtà sociale erano mediate politicamente dalle strutture collettive di massa che appunto politicizzavano lo scontro e partecipavano così all’indirizzo generale degli Stati. Libertà e responsabilità sociale apparivano allora come concetti indissolubili. Al contrario la narrazione sull’uomo/impresa ha disintegrato questo nodo. Il popolo diventava un corpo uniforme al quale il Potere poteva sempre appellarsi per giustificare i propri intendimenti. Lo scopo, dichiarato o meno, consisteva nell’eliminare dalla dialettica politica gli interessi collettivi delle classi popolari. Affascinate anch’esse dal racconto esistenziale sulla competizione d’impresa.
Oggi si assiste difatti alla crisi delle istituzioni soprattutto di quelle che dovevano rappresentare politicamente il conflitto. Deprivate di quella funzione si sono automaticamente distaccate dalla rappresentazione della realtà. Si è tornati a quel “cretinismo parlamentare” che Gramsci individuava come conseguenza dello sviluppo della grande impresa e del capitale finanziario e dove la funzione dei partiti politici si immiseriva con l’idea liberale di semplice “arte di governo”. Così come nei giorni nostri la tecnica d’impresa si assume la responsabilità della decisione finale in un contesto di discorso chiuso e aprioristico. Anche le crisi economiche non riescono per ora a far emergere uno scontro in contrasto con il racconto egemonico di questi anni.
Sono venute alla luce differenti sfumature dell’individualismo, rappresentate da diverse categorie sociali. Da un lato un individualismo libertario e cosmopolita il quale accetta una Governance sovranazionale che costruisce minuziosamente il libero mercato e che possiede una carica interventista nell’economia. Che regola d’imperio i rapporti di forza. Il ceto medio – impoverito ma comunque affrancato dal raggiungimento di un determinato livello d’istruzione – attraverso la prosopopea teatrale capace di mettere in scena un mondo progressista e civilizzato dalle regole della concorrenza aderisce spontaneamente a questo modello. Dall’altro un individualismo chiuso e sospettoso legato alla tradizione americana del mito della frontiera dove i propri confini non possono essere messi in pericolo da alcuna autorità. Al piccolo capitale individuale strettamente connesso al territorio ormai de-sovranizzato non resta che affidarsi a questo tipo di critica.
Lo scontro in essere quindi è tutto all’interno dello schema individualista ed è ben rappresentato dalle divisioni all’interno della società americana. Non si vuole ridurre la portata dello scontro che è anche rappresentativo della crisi di quel racconto egemonico che non riesce in sostanza a far fronte alle diseguaglianze sociali che la società del libero mercato transnazionale produce. Ma si vuole dire che è un conflitto che non mette ancora in discussione determinati paradigmi ideologici. Le categorie sociali che rappresentano frontalmente questo scontro – il ceto medio e il capitale individuale – per tornare a reminiscenze gramsciane sono le uniche che godono di una certa omogeneità territoriale a livello nazionale. Che quindi hanno la capacità di renderlo visibile.
Il grande assente è il mondo del lavoro. Disintegrato l’orizzonte socialista anche i lavoratori sono stati irretiti dal racconto egemonico sulla libera iniziativa economica e soprattutto nel settore privato e di medio/alto profilo si comportano assecondando gli imperativi di comando della classe manageriale. Nella nuova azienda apparentemente de-gerarchizzata si adattano alle condizioni caratteriali poste per la loro impiegabilità. Mobilità, flessibilità, docilità condite da una certa apertura mentale hanno reso consueta la pratica della contrattazione individuale. I lavoratori del settore terziario hanno subito queste trasformazioni nella loro drammaticità con progressivi livelli di precarizzazione fino ad arrivare al lavoro a cottimo e continuamente ricattabile, per cui o si adeguano alle spinte contestative del capitale individuale magari condite da elementi anarcoidi o si rifugiano in una dimensione privata e nichilista. Rare sono le eccezioni. Il lavoro industriale colpito da de-localizzazioni ed esternalizzazioni ha perso la propria forza di massa e nonostante una ritrovata centralità durante i mesi della crisi – sono i lavoratori a salvare il Paese e non gli imprenditori – non riesce a incidere politicamente. Il caso Whirpool di Napoli può essere preso ad esempio.

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Fonte foto: Wallpaper Jam (da Google)

2 commenti per “Crisi ed egemonia

  1. Giulio larosa
    6 novembre 2020 at 21:08

    Molto profondo, una riflessione che ci serviva

  2. Gian Marco Martignoni
    8 novembre 2020 at 21:23

    Una bella analisi, in quanto la dissoluzione della forma partito e della sua funzione pedagogica ha contribuito in gran parte all’emersione del quadro che Pastore ha così ben tratteggiato.

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