Il conflitto di classe appartiene al passato? Così pensano in tanti…

Mi è capitato di vedere, alcuni giorni fa, l’ultima puntata di “Presa diretta”, un programma che va in onda su Rai 3 condotto da Riccardo Iacona.
Il servizio, devo dire molto interessante e molto ben realizzato, era dedicato al “Job act” e in particolare ai cosiddetti “contratti a tutele crescenti” e agli effetti che questi hanno avuto sul mondo del lavoro, in termini di occupazione, salari, ricavi e sgravi fiscali per le imprese e quant’altro. Nel complesso, però, al di là del “Job act” (è stato ampiamente mostrato e dimostrato come questo abbia portato notevoli vantaggi alle imprese sia in termini fiscali che di risparmio sul costo del lavoro), il servizio era di fatto un reportage molto ampio e dettagliato sulle condizioni di lavoro complessive che vivono tante persone in questo paese.
La redazione ha scelto di puntare i riflettori su alcune situazioni “campione”, diciamo così. Alcune piccole e medie aziende delle aree metropolitane di Roma e Napoli (un call center, un’azienda di vendita porta a porta e un’altra che si occupa di selezionare personale da adibire come vigilantes), tutte con lavoratori ultraprecari e sottopagati, assunti con contratti fasulli e privi di ogni valore giuridico, e una grande fabbrica, lo stabilimento della Fiat di Melfi, che occupa circa 7.000 lavoratori e lavoratrici con contratto invece a tempo indeterminato (al momento però perché – come hanno spiegato alcuni sindacalisti della Uilm e della Fiom intervistati, la situazione potrebbe mutare da qui a qualche anno).
Gli addetti al call center guadagnano in base ai contratti che riescono a stipulare; i più “bravi” arrivano a guadagnare fino a 700/ 800 euro al mese, altrimenti ci si attesta tra i 250 e i 500 di media, lavorando dalle sei alle otto ore al giorno. Le persone vengono attirate con la promessa di un salario fisso (250 euro) che in realtà è semplicemente calcolato sulla base della previsione della loro produttività, cioè della loro capacità di chiudere contratti.
Quella della vendita “porta a porta” è invece una vera e propria organizzazione a delinquere. Gli impiegati e le impiegate vengono letteralmente indottrinati/e e addestrati a truffare i clienti (in genere persone anziane), fingendo di essere dei funzionari di grandi aziende pubbliche (ENEL, ACEA ecc.) per convincerli a cambiare gestore e fare utili su questa sorta di intermediazione. Anche in questo caso il personale è retribuito sulla base dei contratti (estorti con l’inganno) che riesce a chiudere. L’aspetto più inquietante di questa vicenda è che il personale viene inquadrato “ideologicamente” attraverso dei corsi gestiti da una sorta di “guru-manager” che è abile a creare uno spirito di corpo, di gruppo, e a caricare psicologicamente i dipendenti all’insegna di una specie di “filosofia new age” (una sostanziale manipolazione psicologica) che gli spiega quanto tutto dipenda dalle loro capacità, dalla loro dedizione al lavoro (alla truffa…), e che il successo o l’insuccesso nell’attività di vendita (di inganno) è soltanto il risultato del loro stato d’animo, del loro atteggiamento psicologico, del loro modo di porsi rispetto alla realtà. I lavoratori, durante questi corsi, indossano una divisa e devono (o vengono indotti a) recitare dei veri e propri mantra, che si concludono con applausi, grida di giubilo, abbracci collettivi fra loro e con il guru-manager”. Questi rituali sono pressoché quotidiani. Ogni mattina, infatti, prima di iniziare il consueto giro, il personale usa caricarsi psicologicamente attraverso queste “tecniche” di training e di di auto convincimento. Inutile dire che i dipendenti non usufruiscono di nessun rimborso per il vitto, la benzina, i mezzi pubblici per spostarsi ecc. Una ex dipendente di questa azienda, considerata la più capace nella vendita, intervistata, ha detto che lei, lavorando circa dieci ore al giorno, arrivava a guadagnare circa 900 euro al mese da cui doveva sottrarre le spese di cui sopra, per cui le rimanevano in tasca non più di 500 euro mensili. Tutto molto inquietante.
Poi è stata la volta dell’”azienda” (se così può essere definita un’organizzazione che estorce denaro alle persone, ricattandole) che procaccia personale da adibire come vigilantes e da collocare presso altre aziende. In questo caso gli aspiranti vigilantes, per essere assunti, devono versare l’equivalente dello stipendio di un anno al procacciatore. Molto spesso, dopo un anno o un anno e mezzo, gli stessi vengono licenziati. Senza parole…
Ma è stato il focus sulla condizione dei lavoratori e delle lavoratrici della Fiat di Melfi che mi ha colpito particolarmente, nonostante la loro sia una situazione senz’altro migliore rispetto ai casi sopra descritti, da un certo punto di vista, non foss’altro perchè sono stati assunti con regolare contratto a tempo indeterminato. Ma approfondiamo un po’.
La fabbrica è in funzione ventiquattro ore su ventiquattro, senza soste. Gli operai e le operaie si alternano nei turni che variano continuamente, impedendogli quindi di vivere una vita normale. “E’ come vivere in un fuso orario perennemente sballato – spiegava un’operaia intervistata – con l’andare del tempo si arriva a perdere la cognizione del tempo, si scambia il giorno con la notte e così via e non si ha più una vita sociale”. La grandissima parte dei lavoratori proviene da tutta la regione e anche da fuori. Se e quando si è fortunati (cioè quando si fa il turno di giorno) ci si sveglia alle 3 del mattino per prendere il pulmann e cominciare il turno alla 6 per staccare alle 14. A quel punto si esce, si riprende il pulmann e si torna a casa verso le 17. Alle 21 ci si ritira per ricominciare il mattino dopo alle 3. Una coppia, marito e moglie con tre figli, hanno raccontato che loro non si vedono ormai neanche più, perché devono alternarsi con i turni per poter badare ai figli. Una rientra e l’altro esce, per il turno successivo. Moltissimi di questi operai, circa 1700 sui circa 7.000 complessivi, sono giovani neo assunti. Tutti felicissimi per non dire entusiasti di questo impiego alla Fiat che – spiegano – “gli ha cambiato la vita”. Fra loro anche diversi laureati. Non c’è da stupirsi, in una terra dove la disoccupazione, il precariato, la marginalità sociale, sono la norma, un posto di lavoro in fabbrica a tempo indeterminato, pur con tutti i sacrifici, i turni di notte, la fatica e lo stress, il tempo libero ridotto ai minimi termini, rappresenta comunque una svolta, garantisce un futuro, come loro stessi e i loro genitori hanno spiegato. La madre di uno di questi giovani operai, addirittura laureato in ingegneria meccanica, è felice che suo figlio sia rimasto, che non sia stato costretto ad emigrare come tanti altri.
In questo contesto dove gli operai arrivano a sentirsi addirittura dei privilegiati rispetto a tanti altri a cui la “fortuna” di lavorare in fabbrica non è toccata in sorte, il livello di conflittualità sia all’interno che all’esterno del posto di lavoro è bassissimo per non dire inesistente, né potrebbe essere altrimenti.
Qualcuno obietterà che non c’era bisogno del servizio di “Presa diretta” per conoscere tutto ciò. Vero, per lo meno per noi. Ma è altrettanto vero che la televisione è uno strumento potente che, se ben utilizzato, può permetterci di avere una visione chiara e immediata delle cose.
Ora, dopo questo racconto che di per se è già sufficiente e non ha bisogno di commenti, due considerazioni sorgono però spontanee, per lo meno al sottoscritto.
La prima. Il sistema dominante si sente talmente potente (e in effetti lo è) da potersi permettere il lusso di mettere in piazza le sue contraddizioni in “presa diretta”, attraverso uno dei suoi più importanti e forse tuttora il più importante strumento di comunicazione, controllo e manipolazione di massa, cioè la televisione.
La seconda. Da molto tempo e da più parti si sente parlare di superamento della contraddizione di classe. Il conflitto di classe sarebbe ormai solo un vecchio retaggio di un passato che non esiste più. E a sostenere tale tesi non sono solo pensatori liberali e liberisti ma anche autorevoli pensatori ex o post marxisti. Dei primi c’è poco da dire, dal momento che è del tutto naturale da parte loro sostenere tale tesi e non si capisce perché dovrebbe essere altrimenti. Per i secondi la questione è più complessa. Questi ultimi, volendo sintetizzare fino all’inverosimile per ragioni giornalistiche, si dividono grosso modo in due tronconi (tranne rare eccezioni). Il primo, quello largamente maggioritario, è formato da coloro (specie fra gli economisti) che hanno gettato il bambino insieme all’acqua sporca e aderito più o meno in toto al “nuovo” (si fa per dire…) verbo liberista. Spesso sono i più realisti del re e si propongono come i migliori e i più funzionali “amministratori”, meglio adatti a gestire la “governance” rispetto ai loro colleghi di “destra”.
Il secondo, comunque senz’altro degno di maggior attenzione e stima rispetto al primo, è composto invece da autorevoli pensatori che, pur non rinunciando alla possibilità di una critica anche radicale al sistema capitalistico, ritengono che questa non possa partire dalle contraddizioni di classe prodotte dai rapporti di produzione capitalistici, perché la “classe”, così come storicamente era intesa, non esisterebbe più o sarebbe comunque stata completamente assimilata, non solo socialmente ma anche culturalmente e ideologicamente, all’interno del nuovo gigantesco e diffuso ceto medio, quello cioè che loro stessi individuano come il corpo grosso delle società capitalistiche occidentali. In virtù di ciò, in questa fase storica, essi attribuiscono maggior importanza e rilievo alla cosiddetta “geopolitica”, cioè alla possibilità che una trasformazione dello stato delle cose possa avvenire non attraverso l’acutizzazione, l’espansione e l’eventuale esplosione delle contraddizioni e della conflittualità sociale, bensì attraverso il “gioco” internazionale o geopolitico, cioè il conflitto fra gli stati imperialisti, di fatto tra l’Impero occidentale a trazione USA, da una parte, e quegli stati che a quel dominio oppongono resistenza, dall’altra.
Questo modo di interpretare le cose è, a mio parere, errato, per una serie di ragioni.
E’ vero che il processo di ristrutturazione e trasformazione complessiva delle società capitalistiche occidentali (non solo geograficamente, Giappone, Corea del Sud, Thailandia, Filippine, Australia ecc. fanno parte a pieno titolo del mondo occidentale anche se si trovano dall’altra parte dell’emisfero; un discorso a parte va fatto e faremo prossimamente per la Cina che pur essendo un paese con una economia in larghissima parte capitalista non può ovviamente essere considerato nell’orbita politica occidentale) avvenuto negli ultimi quarant’anni ha portato ad un rivolgimento sociale enorme, ad una ridefinizione e talvolta ad uno sconvolgimento dei gruppi sociali tradizionali, soprattutto in virtù o a causa delle profonde trasformazioni avvenute, specie nel mondo del lavoro. Ed è vero anche che questo processo ha visto il capitalismo trionfare non solo dal punto di vista economico e politico (sconfitta strategica del movimento operaio) ma anche e soprattutto sotto il profilo culturale e ideologico. Ed è vero altresì che in virtù di questa offensiva ideologica (contestuale a quella economica e politica), i gruppi sociali subalterni hanno per lo più smarrito ogni forma di identità e di coscienza di classe (prendendo in prestito il lessico hegeliano e marxiano, potremmo dire che la “classe esiste in se ma non per se”, essendo priva di coscienza). Ma questa assenza di coscienza -appunto, “la classe per se” – non significa che la contraddizione di classe sia stata superata. Esiste oggi una varietà di soggetti sociali, risultato dei processi di trasformazione di cui sopra, che sono difficilmente collocabili secondo le “vecchie” categorie (borghesia e proletariato), ma restano comunque dei soggetti socialmente (e anche e soprattutto ideologicamente) subordinati. Come collocarli o definirli? Si diceva del grande ceto medio. Ma il “ceto medio” è ormai un grande minestrone dove all’interno troviamo soggetti e figure professionali fra le più disparate; dal professionista più o meno affermato al venditore a provvigione di enciclopedie o di polizze assicurative porta a porta. Entrambi si sentono parte dello stesso “ceto medio” e anzi, molto spesso il venditore porta a porta si sente addirittura un “imprenditore”, ma è proprio questa la dimostrazione del trionfo ideologico del capitale.
Affermare dunque che il conflitto di classe (al momento purtroppo solo potenziale) sarebbe strutturalmente superato è un errore interpretativo molto grave (bisognerebbe aver superato la struttura che genera quel conflitto, sia pure oggi allo stato solo latente, per poter parlare di suo superamento…) . Il problema è invece come spezzare la gabbia ideologica che porta oggi un oscuro e subalterno impiegato pubblico o privato o un venditore porta a porta (o anche tanti altri lavoratori più qualificati ma precari o comunque subordinati) a sentirsi parte (o a far finta, in alcuni casi, di sentirsi parte) del “ceto medio”. Concepire quindi la possibilità di una critica alla società capitalistica bypassando o addirittura cestinando o consegnando alla storia la contraddizione di classe (sia pure nelle forme nuove che questa ha parzialmente assunto) è strutturalmente impossibile.
Privato della critica e dell’approccio di classe, anche quello “geopolitico” viene a perdere di ogni significato, o meglio, rischia di assumerne altri, talvolta “pericolosi” e depistanti. Se è infatti corretto, tatticamente e politicamente, in questa fase storica, per lo meno dal mio modesto punto di vista, sostenere quegli stati (anche quelli non socialisti) che legittimamente si oppongono al dominio imperialista e neocolonialista (USA e NATO in testa) e che per questa ragione costituiscono comunque un fattore “progressivo”, si commetterebbe un errore strategico molto grave se ci si “dimenticasse” della natura della struttura (economica e politica) che determina anche quel conflitto (fra stati imperialisti e neocolonialisti e quelli che a tale dominio si oppongono).
Concludendo, credo che la sconfitta di portata epocale subita dal movimento operaio novecentesco e dalle sue espressioni e declinazioni storiche e politiche, debba ancora essere assorbita, e che molti pensatori (anche autorevoli) ex o post marxisti abbiano avuto troppa fretta nel rielaborarla e nel cercare una improbabile via di uscita.

8 commenti per “Il conflitto di classe appartiene al passato? Così pensano in tanti…

  1. maurizio barozzi
    30 Settembre 2015 at 15:22

    Queste riflessioni sono molto importanti. Lasciamo stare l’aberrazione criminale del liberismo e delle destre: se il capitalista guadagna e ha libertà di scelta e movimento, si ricava anche il lavoro e quindi il benessere. Oltretutto una falsità.
    Vero invece che il capitalismo ha vinto una grande battaglia, quella culturale, laddove la società consumista e il progresso tecnologico che ha stravolto e ridotto i sistemi di lavoro, trasportandolo oltretutto in un contesto globalizzato, ovvero in un melting pot di culture, hanno reso quasi impossibile praticare la lotta di classe, come se il crumiraggio e le divisioni tra lavoratori si siano moltiplicate per mille e poi ancora per mille.
    E qui introduco il mio solito ritornello: si deve seriamente considerare, perché cambiano poi le conseguenze, che il capitalismo è oramai un capitalismo di natura finanziaria, emanazione della Alta finanza monopolista. Il capitalista finanziario ha una valenza ed una cultura totalmente diversa dal capitalismo classico oramai facogitato: non crea imprese, non sfrutta invenzioni, non vive in simbiosi con il mondo del lavoro che pur sfrutta, ma preleva aziende, le traforma, le acquista. Tutto il complesso aziendale, mezzi, tecnica e lavoratori, sono per lui solo numeri. E un capitalismo anonimo, cosmopolita, non ha luogo di residenza, è fatto solo di azioni e cedole.
    Di fatto devi lottare contro un fantasma, senza volto e indirizzo, perchè la proprietà vera, non è neppure nei consigli di amministrazione e neppure nelle quote azionarie.
    Parlavo con dei commessi, lavoratori di supermercato. Hanno un obbligo di lavoro di 11 ore giornaliere. La metà di loro hanno contratti a tempo determinato, e solo dopo qualche hanno, se rendi, si trasformano in contratti a tempo indeterminato. Nella loro tragedia si ritengono fortunati, per i loro 1200 euro mensili, ma non tutti gli straordinari, di fatto obbligati, sono pagati.
    Cari compagni, siamo tornati ai livelli di lavoro dell’800 e per giunta considerate che fuori, non c’è più uno Stato sociale a supportare le difficoltà dei cittadini. Per la pensione oramai grasso che cola se la godi qualche anno, visto che passi quasi direttamente dall’esodo alla bara. Se ti ammali è come in America, tempio del turbo capitalismo: se non hai una buona e costosa polizza assicurativa sanitaria, sia carne per il cimitero. Ma l’America è costituita dal 5 percento, più o meno, della popolazione mondiale, e in virtù del suo strapotere, deruba e depreda circa l’80 percento delle risorse della terra. In questo modo ammortizza le indigenze create dal suo turbo capitalismo. Ma nonostante questo , ogni ora vi si crea un an barbone. PENSATE DA NOI!
    Cari compagni voi siete comunisti, io no, ma credo che entrambi vorremmo eliminare le ingiustizie, gli arricchimenti criminali, entrambi vorremmo assicurare un dignitoso benessere senza sconfinare nel consumismo folle e deleterio. Entrambi vorremmo assicurare agli uomini un dignotoso lavoro su cui possano contare per vivere senza essere ridotti in schiavitù e nella precarietà.
    Ma che fare? Avete un idea? io non c’è l’ho.

    • Fabrizio Marchi
      30 Settembre 2015 at 16:06

      In questa fase bisogna coniugare il conflitto di classe – che esiste anche se sopito (pace sociale, vince il capitale, recitava un vecchio slogan…), cercando di aprire quanto più possibile le contraddizioni e di costruire una nuova coscienza, con il sostegno a quei movimenti antimperialisti e a quegli stati (anche non socialisti) che in questa fase svolgono un ruolo “progressivo” e che comunque delimitano lo strapotere dell’Impero Usraeliano più satelliti al seguito (fra cui anche l’UE) o gli fanno da contrappeso.
      E naturalmente lavorare dal punto di vista culturale, portare avanti una critica radicale e ben argomentata all’ideologia capitalistica dominante, in tutte le sue diverse articolazioni.
      Al momento questo è ciò che secondo me è realisticamente possibile fare.

  2. voltaire1964
    30 Settembre 2015 at 18:42

    Gli “autorevoli pensatori che…. ritengono che questa (critica) non possa partire dalle contraddizioni di classe prodotte dai rapporti di produzione capitalistici… etc. “ pensano col culo (absit iniuria verbis). La forza o ragione del loro “pensiero” deriva dal timore di perdere la loro poltrona di pensatori poltroni nel caso di inevitabili riforme.
    Che arriveranno non come riforme ma disastri, exempli gratia, le migrazioni bibliche il cui scopo e’ l’eliminazione delle nazioni e delle nazionalità. E la creazione di un modello individuale etnicamente uniforme, omologato a funzionare piu’ o meno da ape operaia del sistema. Chi è interessato può leggersi http://wp.me/p2e0kb-1Qs – Considerazioni gia’ fatte, ne sono certo da altri. Ma ritornando all’articolo, la copiatura pedissequa delle “tecniche” americane, come il “caricamento” psicologico con le “tecniche” di training è un insulto tipicamente americano alla dignità dell’individuo. Aggravato dall’inerente piaggeria del servo italico verso il padrone straniero. Vergogna!
    Il compianto George Carlin ha rappresentato l’ideologia e il sistema in questo sketch magistrale. https://www.youtube.com/watch?v=AtK_YsVInw8

  3. Andrea Boari
    30 Settembre 2015 at 23:14

    Azzardo qualche ipotesi sulla scomparsa della lotta di classe.
    Forse l’epoca 800/900 è stata un fase peculiare e non facilmente ripetibile della storia umana.
    Perchè vi sia lotta di classe (per sè) occorre la percezione della storia, di un futuro aperto in quanto futuro ed una idea diffusa di progresso e di miglioramento.
    Occorre poi un ceto peculiare, la borghesia otto/novecentesca, che sia sè e l’altro da sè e sia in grado di produrre narrazioni alternative alla propria.
    Occorrono inoltre coesioni sociali sulle quali depositare la coesione di classe.
    Occorre infine una massa d’urto di giovani che non c’è.
    Non basta il male, non basta lo sfruttamento, perchè si formi la “classe”.
    Destrutturare la globalizzazione anglo-sassone demistificandone la narrazione manipolatoria (che si è impossessata di molti “luoghi della sinistra storica”) può rendere avvertite molte persone, ma non suscitare reali forze di cambiamento, se non favorire l’attesa che l’aiuto venga dall’esterno.
    In sostanza la crescita della consapevolezza e l’acuirsi della povertà relativa, in assenza di coesioni e di potenti energie demografiche, può comportare più che l’azione diretta , una certa attesa che gli altri vengano a “liberarci”.
    Avremo una lotta di classe virtuale, ma non per questo inutile.
    Il passaggio laterale attraverso il sostegno nei confronti degli avversari del mondo anglo-sassone è invece fondamentale.
    La geopolitica che è reale, ci renderà meno diseguali.
    sempre stima
    Andrea

  4. armando
    1 Ottobre 2015 at 15:05

    Poichè, anche se non autorevole, appartengo alla schiera degli ex o post (che tuttavia non sono la stessa cosa), e poichè la discussione è di estremo interesse, almeno per me, credo necessarie alcune precisazioni.
    1)Affermando che il conflitto fra capitale e lavoro è stato il filo conduttore della storia dell’800 e del 900, che ha condotto alle rivoluzioni operaie (sconfitte), ma che ora le contraddizioni immanenti del capitalismo si presentano con modalità diverse, si registra un fatto storico. Nessuna rivoluzione proletaria è all’orizzonte. Ma non significa negare che non esistano più classi o ceti dominanti e classi o ceti sfruttati.
    2)le classi in sè e per sè. E’ da evitare una semplificazione. La classe operaia è, per Marx, quella rivoluzionaria sia perchè è dal suo lavoro vivo che il capitalista estrae plusvalore, sia perchè ha la possibilità concreta di acquisire coscienza nello spazio fisico fabbrica. Non basta, cioè, che tale coscienza le sia infusa dall’esterno (il partito leninista, intellettuale organico nel linguaggio gramsciano). Marx sapeva benissimo che il lumpenproletariat era anch’esso sfruttato, che viveva condizioni materiali anche peggiori degli operai, ma ne diffidava altamente. I meno giovani ricorderanno il film con GM Volontè, “La classe operaia non va in paradiso”. Il protagonista è un operaio che crede di poter migliorare la propria condizione individualmente, fra cottimi e supercottimi, in competizione cogli altri operai. Ma pian piano il contatto gomito a gomito cogli altri ne favorisce la consapevolezza, fino a fargli prendere coscienza piena della loro situazione.
    L’esempio dei venditori che ha fatto Fabrizio è perfetto. Quelle tecniche le conosco bene, sono l’esatto opposto di una vera cooperazione. Ciascuno è messo in concorrenza cogli altri, a ciascuno è fatta balenare la possibilità di successo individuale ottenuto con ogni mezzo e a discapito degli altri (Uno su mille ce la fa, diceva una canzone del “sinistro” Morandi). . Ma il ceto dei venditori o categorie simili, per quanto sottoccupati, per quanto anch’essi sfruttati, ben difficilmente si trasformeranno in classe per sè solo che qualcuno li faccia riflettere. Ora, il fatto è che la classe operaia di fabbrica è , nell’occidente sviluppato, numericamente in diminuzione perchè il capitalismo da industriale è diventato finanziario e globalizzato. La delocalizzazione delle produzioni manifatturiere, il lavoro a domicilio, la parcellizzazione e l’affidamento di processi produttivi a unità lavorative staccate e lontane, sono state non solo una convenienza economica, ma anche un disegno politico di ristrutturazione. Politico perchè, oltre alla riduzione dei costi, si è perseguito anche il fine di dividere, parcellizare, individualizzare ciò che prima era unito. Ed anche perchè è molto più difficile lottare da Singapore (per fare un esempio) contro una proprietà che ha la testa pensante in USA . E’ come se l’avversario in certo senso si dematerializzasse e si disincarnasse. Il vecchio padrone era lì, lo si vedeva, i nuovi non si sa dove sono e chi sono.e si interloquisce solo coi loro funzionari. Il fenomeno globalizzazione e finanziarizzaione del capitalismo ha avuto effetti anche sull’avversario storico, la borghesia, ma non entro nel merito per questioni di spazio.
    La contraddizione di classe non è venuta meno oggettivamente, è venuta meno la possibilità che si manifesti nei modi del novecento per le ragioni che dicevo prima,e sta venendo meno il suo interprete principale, la classe operaia, sostituita da una sorta di sottoproletariato estesissimo e sfruttatissimo, ma non per questo rivoluzionario o veramente antagonista al capitale dal punto di vista sia materiale, sia ideologico e culturale.
    Non mi sembra cioè che le “moltitudini” invocate da Toni Negri, abbiano alcuna possibilità di costituirsi in classe (e infatti non lo sono dal punto di vista marxiano) e di essere l’avanguardia di alcunchè.
    Sono le condizioni oggettive, non solo l’incapacità dei dirigenti potenziali a capire quanto sono stati culturalmente colonizzati dall’antico avversario, a rendere difficile fino all’impensabile la rifondazione di un partito di “classe” simile a quelli della precedente fase del capitalismo.
    3) tuttavia le contraddizioni del capitalismo esistono eccome, e producono effetti di spoliazione nmateriale e culturale anche maggiori di ieri. Che si manifesta oltre che all’interno come diminuzione delle garanzie materiali e democratiche (il generale Weslwy Clark, in Usa, propone la possibilità di arrestare chiunque sia “sleale nei confronti dell’America. SIC!). anche come politica imperialistica verso l’esterno. Quì è necessaria un’altra precisazione. Non basta, secondo me, essere contro l’imperialismo Usa per essere antimperialisti. Anche la “nazione proletaria” in ,lotta contro le “demoplutocrazie” di mussoliniana memoria era avversaria degli Stati Uniti, ma non per questo antimperialsta. Era solo “diversamente” iimperialista.
    Il conflitto geopolitico, oggi, non è fra potenze uguali ciascuna delle quali ambisce a porsi come dominante. Così fosse, se tutti fossero cioè uguali, non resterebbe che appoggiare ora l’uno ora l’altro in funzione solamente tattica ma sostanzialmente sempre subalterna, nella speranza che le cose cambino in qualche modo. Non credo sia così. Il capitalismo Usa, nella sua ambizione di unficare il mondo sotto di sè, intende distruggere ogni forma e ogni identità che possa resistergli. Prima ancora che materialmente vuole omologare culturalmente il mondo.
    Quì, in questo conflitto, si esprime oggi la contraddizione principale. Meritano allora appoggio quei popoli e quegli stati che esprimono una weltanschaung diversa e opposta. La quale ha certamente anche riverberi sui conflitti interni, ma non è oggi il classico conflitto di classe come conosciuto nel novecento. Tener vive la proprie tradizioni popolaril, la propria cultura, i propri stili di vita senza cedere all’americanizzazione, perseguire un mondo multipolare, fatto di nazioni ugualmente soggette al diritto internazionale, tutto questo, oggi, è rivoluzionario, perchè ogni rivoluzione vera, pur trascendendole in nuove forme, si erge sulle vecchie, anzichè distruggerle e farne tabula rasa. Quello lo fa il capitale in nome della “rivoluzione democratica permanente”, trascendimento in chiave imperialistica della riviluzione permanente trozkista.

    • Fabrizio Marchi
      1 Ottobre 2015 at 18:44

      Commento molto ricco e interessante il tuo (e anche in larghissima parte condivisibile, per lo meno dal punto di vista analitico), Armando, che a mio parere ci fa anche fare un passo in avanti nel nostro dibattito, nel senso che ci/mi aiuta a chiarire alcun nodi fondamentali a cui siamo giunti.
      Cominciamo dal primo, fondamentale. La “classe in se e la classe per se”. Bene. Mi pare che siamo intanto giunti ad un punto condiviso. Le classi e di conseguenza la contraddizione d classe, esistono ancora, eccome. E questo è già un punto fondamentale. Perché c’è chi sostiene invece che il conflitto di classe sia superato non perché non esisterebbero quelle condizioni che lo renderebbero possibile, quelle cioè a cui facevi riferimento tu (l’esistenza di una classe operaia di fabbrica concentrata, localizzata quindi non delocalizzata, non frastagliata in mille rivoli e mille soggettività diverse, che sviluppa un antagonismo oggettivo con una classe padronale borghese visibile, individuabile, ecc. ), bensì proprio perché le classi sociali non esisterebbero più perché lo sviluppo o il processo storico le avrebbe superate (e di conseguenza anche il conflitto sociale sarebbe oggettivamente superato). Non so come facciano a sostenerlo ma c’è chi lo sostiene.
      Tu invece dici una cosa diversa, e cioè che quelle condizioni di classe che rendevano possibile quel conflitto di classe ottocentesco e novecentesco (le contraddizioni di classe c’erano già prima, ci sono da sempre se è per questo, ma non era ancora nato un soggetto sociale subordinato in grado di costituirsi come “classe per se”, cioè dotata di coscienza, di elaborare una propria teoria politica e un proprio orizzonte culturale e ideale, e in grado di configgere con la classe dominante) non esistono più. E su questo hai ragione. Non ci piove. Perché un conto è avere milioni di operai in grandi concentrazioni industriali che lavorano fianco a fianco, abitano negli stessi quartieri , condividono lo stesso bicchiere di vino nella stessa osteria la sera e sono iscritti allo stesso sindacato e allo stesso partito, un altro è avere milioni di partite Iva, pseudo o finti agenti di commercio, pseudo o finti “imprenditori fai da te”, più masse di venditori, lavoratori co.co. pro., figure professionali tra le più svariate, più o meno o per nulla qualificate, comunque ultraprecarie ecc. ecc. e chi più ne ha più ne metta (senza dimenticarci che esiste ancora un mondo del lavoro dipendente, diciamo così, tradizionale, che anch’esso però è spappolato per altre ragioni che ora però non ho tempo di approfondire, mi limito a rinviarti al mio articolo in cui facevo cenno agli operai della Fiat di Melfi; quella è classe operaia tradizionale senza se e senza ma eppure anche quella non sviluppa antagonismo…). Ed è altrettanto ovvio che è estremamente più difficile organizzare i secondi rispetto ai primi, per ovvie ragioni. Ma questo è un altro discorso che rimanda alla difficoltà (enorme) di comporre o ricomporre un tessuto sociale, disperso in mille rivoli, ideologicamente disarmato e che anzi, proprio a causa dell’offensiva ideologica di cui sopra ma anche delle sue oggettive condizioni di esistenza, il fatto cioè di vivere una dimensione individuale e non collettiva (appunto la differenza a cui facevi cenno tu fra il singolo venditore che si “smazza” dalla mattina alla sera per vedere rispetto all’operaio legato al posto di lavoro insieme ai suoi colleghi, quindi una dimensione di classe collettiva e comunitaria) ha finito per interiorizzare l’ideologia dominante.
      Ma questa non è una ragione per abbandonare il campo, per lasciare la presa. Il fatto che le condizioni per ricostruire un soggetto sociale antagonista (al capitale) siano difficilissime, non significa però che bisogna cambiare strada. Del resto, ci sono stati contesti storici estremamente più difficili per le classi subalterne rispetto a quello attuale. Per millenni masse di schiavi, plebei, servi della gleba e contadini poveri, al di là di qualche isolata rivolta repressa nel sangue, non sono mai riusciti a costituirsi come “classe per se” e come soggetto rivoluzionario. La storia è stata dominata per millenni dalle classi dominanti che si sono combattute (guerre fra stati e nazioni) fra loro per il dominio e le classi subalterne erano poco più o poco meno che carne da cannone, e comunque erano in una condizione di totale subalternità e incoscienza. Oggi, in fondo, stiamo tornando e siamo in buona parte tornati nella stessa situazione, a parte il fatto che ormai gli eserciti sono professionali e non c’è più necessità di mandare i poveracci al macello.
      Ma la struttura del sistema capitalistico è rimasta quella, e cioè un rapporto di produzione fondato sull’estorsione di plusvalore. Che poi quel plusvalore finisca a riempire le tasche di una multinazionale che ha sede a New York e gli stabilimenti dove si produce (e si estorce plusvalore) a Manila o a Singapore, poco conta, dal punto di vista concettuale. Poi è vero anche che oggi il capitalismo finanziario ha ulteriormente drogato il sistema capitalistico stesso, ma non è che quel capitalismo finanziario sia una degenerazione bensì soltanto la naturale evoluzione del capitalismo stesso (ma già Marx all’epoca aveva previsto questa evoluzione; il denaro che diventa esso stesso merce per eccellenza, l feticismo della merce ecc.).
      Quindi il nodo resta quello, caro Armando, c’è poco da fare. Ed è da lì che bisogna pazientemente ripartire. Una critica efficace (e non falsa) al sistema capitalistico non potrà che ripartire dalle contraddizione reali di chi poi quelle contraddizioni reali le vive sulla propria pelle, non certo per uno schiribizzo ideologico o perché bacato dalla spirito. Questo è poco ma sicuro. Che poi sia difficilissimo, date le condizioni a cui abbiamo sommariamente accennato, è altro discorso.
      E arrivo al secondo punto. Oggi una parte della destra, o di una certa “nuova destra”, porta avanti il discorso della difesa delle identità culturali in contrapposizione ad un capitalismo omogeneizzante. Nulla da dire (come ben sai…), a patto però che questa difesa sacrosanta vada di pari passo con un’analisi di classe. Oggi queste forze credono di avere scoperto l’acqua calda ma in realtà da sempre i popoli che hanno lottato contro l’imperialismo e il colonialismo (che sfruttava le loro terre e al contempo cercava di distruggerli dal punto di vista culturale) lo hanno fatto rivendicando e difendendo la propria identità culturale. Come tu ben sai i bolscevichi stessi, Lenin n testa, sostenevano il diritto dei popoli all’autodeterminazione (ci sono documenti e resoconti delle riunioni del Comintern, non mi invento nulla…). In un vecchio film americano (un pappone hollywoodiano), “Reds”, c’è una scena dove John Reed, leader del partito comunista americano, litiga furiosamente con Zinoviev perché questi, durante un loro viaggio propagandistico nei paesi mussulmani sotto controllo della nuova Russia sovietica, gli aveva a sua insaputa supervisionato e modificato il discorso che doveva tenere in un comizio e sostituto le parole “guerra di classe contro gli imperialisti” con “guerra santa contro gli infedeli”. Ora questa può essere anche una boutade cinematografica, però non è campata per aria, e ci fa capire molto.
      Ora, la destra cosa fa? Nemica da sempre del concetto di classe, in assenza del comunismo, cerca di ritagliarsi uno spazio e millanta l suo presunto anticapitalismo e antimperialismo. Ma l’anticapitalismo e l’antimperialismo, depurati dell’approccio di classe, diventano solo una variante, di tipo nazionalistico, e nulla più. Poi che ci siano oggi stati e nazioni non socialiste che dal punto di vista culturale e ideologico costituiscano un freno all’illimitatezza capitalistica, è senz’altro vero (io penso all’Iran molto più che alla Russia, se è per questo…), e come sai ritengo giusto sostenerle in questa fase, e non solo per ragioni tattiche ma appunto perché, a loro modo, si fanno portatrici di un sistema valoriale che pone dei limiti etici e ideologici al capitalismo, pur senza metterlo in discussione. Ma non può essere sufficiente. Per lo meno dal mio punto di vista. Perché una prospettiva autenticamente anticapitalista non può prescindere dalla contraddizione di classe. Perché è questa la struttura, e perché è questa che alla fin fine determina anche lo scontro fra quegli stati e quelle nazioni.
      In conclusione, come ho già detto rispondendo ad un altro commento, oggi bisogna percorrere entrambe le strade. E cioè lavorare pazientemente per ricostruire un tessuto e una coscienza di classe, ben consapevoli delle difficoltà immani che questo lavoro comporta, e contestualmente sostenere quegli stati che oggi n qualche modo si oppongono all’Impero.
      P.S. penso di aver di fatto risposto anche ad Andrea Boari

    • Andrea Boari
      2 Ottobre 2015 at 15:49

      Gent.mo Armando
      condivido le sue analisi e quelle a commento del sig.Marchi.
      Mi limito ad aggiungere che quasi sempre le rivoluzioni, richiedono come innesco grandi vicende geopolitiche, fratture nelle quali i vecchi assetti tracollano generando un’apertura al futuro ed alla possibilità. Tuttavia quasi sempre le elite vittoriose che hanno utilizzato la forza d’urto popolare restaurano il dominio di classe.
      La guerra esterna ha radicalizzato la rivoluzione Francese, la I Guerra Mondiale è stato il presupposto della rivoluzione russa ecc…
      Ma è chiaro – a mio modesto parere – che il materiale umano – il lascito della globalizzazione – in occidente è quello che è. Al momento non ci conterei troppo.
      Rimane la pressione delle potenze esterne al sistema mondiale della “comunità internazionale”. Il contesto di una loro prevalenza non determinebbe una vera egemonia, ma una sufficiente autonomia.
      un cordiale saluto
      Andrea

  5. armando
    4 Novembre 2015 at 22:41

    Andrea, sono d’accordo. In Occidente per ora non si vede alcuna prospettiva, e nessuna spinta, verso trasformazioni profonde. Solo resistenze benemerite che provengono da più parti ma slegate per antichi e comprensibili retaggi ideologici, quantunque assai meno pregnanti oggi. Sul piano internazionale il problema non è sostituireun’egemonia con un’altra, ma resistere al pieno dispiegarsi di quella americana. Vincendo, chissà quali prospettive si aprirebbero.

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