La politica estera di Obama in compendio

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Con la fine del mandato di Obama occorre riepilogare le linee essenziali della sua politica estera, distinguendo le vere azioni del governo, estremamente spregiudicate e spietate, dal profluvio di retorica umanitaria e dal linguaggio orwelliano che le occultano.
Ogni singola azione politica, presa di per sé, può sembrare frutto di improvvisazione o di una scelta irrazionale, ma, se la s’inquadra nel contesto generale, si scorgono le linee di un piano imperialista e liberticida.
Con lo sviluppo della crisi, il governo USA prese atto che le vecchie forme di globalizzazione non reggevano più, e che i vantaggi ottenuti da Washington col crollo dell’URSS si erano esauriti, ma continuò a diffondere una retorica liberista – presa sul serio soprattutto dalle sinistre – – mentre in realtà cercava di escludere dal mercato mondiale due paesi importantissimi, coma la Russia e la Cina, ricorrendo a metodi non proprio liberali, come le sanzioni e le guerre per procura.
Gli strumenti economici di questa politica erano il TTIP e il TPP: il primo doveva impedire il collegamento dell’economia europea, e soprattutto tedesca, ricca di capitali e di alta tecnologia, con quella russa, e la sua immensa riserva di materie prime, la seconda serviva a scavare un baratro tra Giappone, Corea del sud, Vietnam da un lato, e Cina dall’altro. Per spaventare le popolazioni di questi paesi e indurle ad accettare questi presunti paradisi del libero scambio, in realtà recinti controllati da Washington, erano necessari interventi militari. Il golpe ucraino è servito a trasformare i paesi intermedi (Polonia, Paesi baltici, Romania) in accaniti nemici della Russia, propensi a un rafforzamento della Nato. Al tempo dell’occupazione russa della Crimea, gli USA non hanno mosso un dito, perché lo scopo era trovare un pretesto per le sanzioni, spaventare l’Europa e costringerla sempre più a rifugiarsi sotto l’ala atlantica. In realtà, la guerra era soprattutto contro l’Europa. Con la Clinton, a meno che non si trattasse di pura propaganda, la minaccia contro la Russia avrebbe acquisito un carattere più reale.
L’Europa ha avuto, per le sanzioni, danni più gravi di quelli subiti dalla Russia, e gli USA non hanno impedito, ad esempio, che la frutta e verdura fornita da Italia, Spagna e Grecia fosse sostituita da quella di Israele, il cui commercio si è avvantaggiato dal catenaccio all’Europa.
Per impedire lo sviluppo della via della seta, e il passaggio del gas iraniano, si è soffiato sul fuoco della guerra siriana. Sarebbe stato facile per gli USA, soprattutto prima dell’intervento russo, affidare Assad alle amorevoli cure della CIA, primatista mondiale in attentati, ma preferirono lasciarlo in vita per creare l’immagine del tiranno che bombarda il proprio popolo. I veri oppositori furono subito emarginati, mentre si appoggiarono con armi e denaro le bande di mercenari e di fanatici come Al Qaida e ISIS, e si è continuato a farlo finora.
L’ISIS fu lasciato scorazzare con le Toyota nuove di Zecca pagate da Arabia Saudita e Qatar – la Cia, l’aviazione, i satelliti americani, il governo Obama e quelli europei guardavano da un’altra parte. Sarebbe bastata un ora di bombardamento durante il tragitto a farli fuori. Lo stato islamico costituì un tappo che ostruiva la via della seta e impediva il flusso del gas iraniano.
Per via di mare, fallito l’espediente dei sedicenti pirati somali per l’intervento delle marine militari russa e cinese, poiché era un’operazione troppo sporca e pericolosa la chiusura del canale di Suez, si spinse l’Arabia Saudita a invadere lo Yemen, per assicurare il pieno controllo dell’ingresso nel Mar Rosso e vendere nello stesso tempo una caterva di armi a Riyadh.
Questa sarebbe la politica della libertà dei mari, di cui Washington si vanta.
La guerra in Siria doveva anche essere una trappola, per esaurire le forze di Russia, Iran e Turchia.
La vera guerra contro la Cina non si svolge nel mar cinese meridionale, ma in Africa. Si tratta di cacciare con la forza l’influenza crescente della Cina, per ora basata solo su capitali e merci, e non ancora sviluppata sul piano militare. Il governo Obama si è servito di burattini, Sarkozy, Hollande, Cameron, illusi che gli USA volessero aiutarli a restaurare la loro influenza negli ex imperi. Hanno aperto il varco alla penetrazione USA con la guerra di Libia. Berlusconi era titubante, perché vedeva che sotto attacco era l’Italia stessa, ampiamente favorita da Gheddafi, ma non appena vide in pericolo le sue imprese, per la ritorsione di Wall Street, Londra e Parigi, si accodò agli atlantisti Napolitano, Bersani e La Russa, che a gran voce chiedevano l’intervento. Non era pensabile che il cavaliere anteponesse gli interessi italiani – cioè dell’intera borghesia, perché a quelli dei proletari non pensa nessun governo -– a quelli della sua bottega. Da allora, gli USA hanno costruito una rete di “missioni” e di scuole militari dove si preparano i Pinochet di domani sul modello di quelle che hanno deliziato l’America latina. Anche inglesi e francesi, dopo avere aiutato a cacciare la Cina, riceveranno il benservito e troveranno le porte chiuse. Altro che Francafrica e rinascita del Commonwealth!
Il fallimento della politica di Obama non è in Africa, e, nonostante le pessime apparenze, neppure tanto in Siria e in Ucraina, ma in patria. Il vero scopo di tutta la sua politica, gli accordi TTIP e TPP, che dovevano garantire la supremazia USA ancora per anni, sono stati respinti in patria. Al protezionismo mascherato di Obama seguirà quello aperto di Trump rivolto anche nei confronti degli alleati e vicini. La crisi internazionale è più lunga di quanto avessero previsto gli strateghi di Washington, non bastano più i pugnali e i veleni di Obama, occorre il grosso bastone di Trump.

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