Il socialismo e l’ “anarco-capitalismo”

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C’è un passaggio nel pezzo in 15 paragrafi scritto a Vasto da Oggionni e compagni che illustra, secondo me, quale sia il nucleo di una incompatibilità di fondo fra due sinistre molto diverse. Questo passaggio: “Trasformare le classi subalterne in classi dirigenti, si diceva un tempo. Rendere le persone protagoniste del proprio presente, della propria vita e del proprio tempo, diciamo noi oggi”. Si tratta dell’ammissione di una trasformazione genetica della sinistra da una base di rappresentanza di classe ad una base di rappresentanza dell’individuo. E’ una ammissione di subalternità al liberismo, che liquida i blocchi sociali e le manifestazioni collettive della società in nome di un individualismo metodologico mirato alla soddisfazione dei bisogni del singolo. E che presuppone il primato della libertà della persona su quello della giustizia distributiva, perché rinuncia a qualsiasi cambiamento strutturale dei rapporti di produzione, cioè a qualsiasi liberazione collettiva dal bisogno (la liberazione sostanziale che prelude a quella formale) in nome del mettere a disposizione dei singoli un playing field, entro il quale esercitare, se ne hanno i mezzi e la sorte favorevole, una ricerca egoistica di felicità. Non c’è niente di nuovo, si tratta di un modo, intellettualmente debole, di rivangare una tendenza storica di alcune frange del libertarismo anarchico verso il pensiero liberista (l’anarco-capitalismo). In questa visione, evidentemente, i diritti civili prevalgono su quelli socio-economici, perché sono la leva per ampliare i margini di gioco dell’individuo dentro uno spazio omogeneo e liscio di soggettività senza fratture, dove la redistribuzione del reddito è lasciata ai meccanismi crudeli del teorema di Eulero. E’ evidentemente un approccio assolutamente contrario al socialismo, che assume una prospettiva di classe nell’obiettivo non di liberare l’individuo, ma di emancipare (termine diverso dal liberare) dal bisogno economico componenti collettive della società. Non c’è dialogo possibile fra queste due prospettive.

1 commento per “Il socialismo e l’ “anarco-capitalismo”

  1. armando
    6 settembre 2016 at 14:46

    Son d’accordo con questa analisi, solo che amplierei la “prospettiva di classe” in “prospettiva comunitaria”, cioè inclusiva di quegli strati che pur non direttamente salariati esprimono istanze incompatibili col capitalismo assoluto superindividualista. L’anarco capitalismo in realtà è solo l’espressione del capitalismo più pura e purissimamente metafisica. Presuppone che il mercato sia supremo fattore di giustizia, anche sociale, e che lasciato libero da lacci e lacciuoli sia in grado di autoregolarsi miracolosamente e con ciò produrre giustizia ed equità. Gli si attribuisce una funzione regolatrice provvidenziale assolutamente astratta e teorica, contraddetta dalla realtà dei fatti, sempre e comunque. Quando la si vede, la realtà, allora si dice che la causa è dell’intervento statale, del monetarismo e via dicendo. E’ come quando il femminismo, di fronte all’evidenza che le donne non sono affatto ontologicamente innocenti ed esenti dal male, attribuisce il male femminile a fattori esterni alle donne stesse: l’ideologia maschilista che le avrebbe contaminate nella loro innocenza e purezza, la necessità di difendersi dall’oppressione e tutte quelle balle atte a non assumere la realtà delle cose e farsene carico tramite una riflessione intellettualmente onesta.
    Eppure, nel caso dell’anarco capitalismo basta una semplice riflessione per far crollare il castello di carte. Il capitalismo si fonda sulla stratificazione sociale ed economica, altrimenti non sarebbe tale. l concetti di “felicità” individuale, nonché di “successo”, hanno in realtà un contenuto molto prosaico e materiale, e spingono ad una concorrenza generale per raggiungerli che vedrà necessariamente vincitori e vinti, Questo anche nell’ipotesi che in questa corsa tutti siano sempre più bravi e più abili in senso assoluto, perché ci sarà pur sempre qualcuno “migliore” e qualcuno “meno migliore”. Felicità e successo si misurano, secondo i parametri prevalenti, sempre in senso relativo agli altri, mai assoluto. In fondo che differenza fa nella vita reale possedere due o quattro aviogetti privati, avere un patrimonio di dieci o venti milioni di dollari? Nessuna , evidentemente. Eppure la corsa non finisce mai, perché si tratta sempre e comunque di superare qualcun altro. Questo è quanto, ed ai fini della riproduzione del sistema non conta nulla chi occupa gli strati superiori e chi quelli inferiori. Anzi, per un capitalismo puro la mobilità sociale massima sarebbe il massimo. Pura teoria, ovvio, perché la natura umana è tale che chi raggiunge una certa posizione alta tende a trasmetterla ai figli e agli eredi. C’è da capirlo, perché difficilmente ci si dannerebbe l’anima fino in punto di morte se si sapesse che quanto si è accumulato sarebbe rimesso in gioco e se lo aggiudicherebbero i “migliori”, anziché moglie, figli etc. etc. Ergo, l’ereditarietà dei beni che nessun governo osa mettere in dubbio, è in aperta e patente contraddizione con le fanfaluche sulla meritocrazia, cioè con ciò che il capitalismo giudica sacro e inviolabile. Dunque in realtà il capitalismo, che si vanta di essere aderente più degli altri sistemi alla natura umana, né è molto lontano, stretto in contraddizioni insanabili fra la sua metafisica e la sua pratica concreta che contraddice la prima. Nell’uomo convivono istanze e spinte tanto individuali che comunitarie, tanto egoistiche che solidaristiche. Il problema, finora irrisolto, è farle convivere cercando di armonizzarle in modo che non prevalgano “gli spiriti animali” individualistici, o che al contrario l’individuo diventi nulla rispetto al collettivo.

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