Se son rose fioriranno…

Ieri abbiamo partecipato all’assemblea promossa da Ugo Boghetta, Mimmo Porcaro e Carlo Formenti che si prefiggeva l’obiettivo di avviare un percorso finalizzato alla (riflessione circa) la costruzione una possibile nuova futura Sinistra nazionale e popolare. Di seguito il documento di convocazione dell’assemblea: https://sinistrainrete.info/politica-italiana/12009-ugo-boghetta-carlo-formenti-mimmo-porcaro-idee-per-una-sinistra-nazionale-e-popolare.html

Il sottoscritto è intervenuto, sia in qualità di direttore de L’Interferenza che di co-fondatore del Movimento maschile e di classe “Uomini Beta”. All’incontro erano presenti e sono intervenuti anche altri compagni e amici di Uomini Beta.

A parte le relazioni, il tempo per gli interventi (che sono stati molti) era molto ristretto (10 minuti cadauno) e abbiamo cercato in quei pochi minuti a nostra disposizione di sintetizzare all’inverosimile le ragioni della nostra critica radicale all’ideologia politicamente corretta e al femminismo in particolare che, come ben sa chi ci segue, noi riteniamo essere l’ideologia di riferimento dell’attuale sistema capitalistico dominante.

Nessuno ci ha insultati, nessuno ha gridato allo scandalo, nessuno ci ha tolto la parola, nessuno è stato colto da malore o da infarto, sono tutti sopravvissuti e al termine della riunione ci siamo anche cordialmente salutati in attesa dei prossimi appuntamenti dove approfondire le varie tematiche affrontate. Naturalmente c’è stato chi ha condiviso le nostre posizioni e chi (in particolare una compagna) le ha criticate, come è normale e legittimo che sia. Certo, mentre intervenivo leggevo la sorpresa nei volti di alcuni/e dei presenti perché dire che non si è abituati ad ascoltare certi discorsi in un assise della sinistra (qualsiasi essa sia…) è dire un eufemismo. Nondimeno, la discussione è stata ampia ed articolata e ci siamo ripromessi, ovviamente, di approfondire il tema con un seminario ad hoc.

Del resto, un gruppo di persone che ha l’ambizione di provare a gettare le basi per la costruzione di una nuova futura possibile forza di Sinistra non può non avere una posizione chiara e definita su una questione fondamentale come quella che abbiamo posto. Ci auguriamo, naturalmente, che il confronto possa continuare e svilupparsi in modo ben più approfondito di quanto era possibile fare nelle condizioni date.

Molti troveranno stupefacente quanto sto dicendo, ma ribadisco che non è per nulla scontato quanto avvenuto. Dopo di che si vedrà quali saranno gli sviluppi di questo confronto ma il fatto stesso che ci sia stato e che ci sia l’intenzione (autentica) di proseguirlo è un fatto estremamente positivo, dati i tempi e il contesto.

Di questo va dato atto e merito ai promotori dell’iniziativa, specie perché sono stati i primi fino ad ora a dimostrarsi disponibili a confrontarsi serenamente su queste questioni.

Non posso, a questo punto, non ricordare che prima delle elezioni avevamo inviato un lungo documento ai compagni e alle compagne di Potere al Popolo chiedendogli di avviare un confronto sul tema. Di seguito il documento: https://www.linterferenza.info/lettere/lettera-aperta-agli-uomini-alle-donne-potere-al-popolo/

Al momento non abbiamo avuto nessuna risposta. Non c’è nessuna polemica da parte nostra ma ci limitiamo a registrare un fatto.

P.S. mi sia consentita la battuta. All’incontro di ieri il presidente Mao Tse Tung è stato citato almeno una decina di volte da almeno quattro interventi e il filosofo Costanzo Preve è stato invece citato quattro volte da due degli intervenuti. Il primo è demodè, a dir poco, il secondo addirittura innominabile. A ciò aggiungiamo la critica del sottoscritto al femminismo e abbiamo fatto bingo, come si suol dire. Chi conosce il clima, il contesto, le liturgie e le gabbie mentali e ideologiche della “sinistra”, tutta, capisce cosa voglio dire…

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7 commenti per “Se son rose fioriranno…

  1. Alessandro Tosolini
    16 aprile 2018 at 20:32

    Se invitavate Losurdo e Rizzo citavano Stalin e così un bel calcio definitivo ai sinistri cattocomunisti e alle loro liturgie globaliste.

  2. Gian
    17 aprile 2018 at 14:27

    Diventerà partito? È dura dare una risposta a questo interrogativo…

    Purtroppo il polcor ha ormai corrotto le menti a sinistra.

    Una cosa non ho capito, se la partecipazione è stata soprattutto individuale o ha coinvolto anche delegazioni di forze politiche, per quanto marginali.

    • Fabrizio Marchi
      17 aprile 2018 at 15:28

      Ciao Gian, ora ho capito chi sei dall’uso del termine “polcor”… 🙂
      Mi pare che la maggior parte dei presenti fosse lì a titolo individuale e mi pare di poter dire che le uniche due presenze organizzate fossero la nostra (Uomini Beta, intendo) e quella dei compagni del Collettivo Populista “Un pezzo, un culo”, più quelli di “Senso comune” che per la verità non conosco. Quindi, indubbiamente pochino, a voler essere indulgenti, per lo meno dal punto di vista quantitativo…
      Dopo di che il dibattito è stato assai ricco e gli interventi quasi tutti molto interessanti e articolati ad eccezione di quello di Ivana Fabris di “Essere Sinistra” che dopo il mio intervento non poteva naturalmente non fare la solita uscita sul patriarcato causa di tutti i mali dell’universo…Intervento peraltro ripreso e condiviso non a caso da Formenti che secondo me sul tema del femminismo ha voluto riportare il discorso su un binario più “accettabile” rispetto a quella che è la nostra posizione che segna ovviamente uno spartiacque. Sotto questo profilo Formenti, in linea col femminismo della differenza con il quale non solo non vuole rompere ma con il quale è in sostanziale accordo, dichiara guerra al femminismo del gender individuando in quest’ultimo il femminismo funzionale al capitale. E’ un’operazione sbagliata sotto ogni punto di vista, sia politico che teoretico, perché anche il femminismo del gender non cade dalle nuvole ma è soltanto l’ultima protesi del femminismo. Si tratta di un tentativo di salvare il salvabile, di non buttare il bambino con l’acqua sporca. Ma è appunto un’operazione che anche laddove fosse fatta in buona fede è comunque sbagliata. Il femminismo della differenza è stato forse il più sessista e aggressivo ed è quello dominante nell’attuale sinistra radicale e antagonista, quello che dice che la “violenza è maschile”, che l’attuale società capitalista sarebbe a dominio patriarcale e maschilista e che in virtù di ciò i maschi sarebbero in una condizione di privilegio e di dominio. E’ quello della Muraro, della Dominijanni e di “Non una di meno”, spostato in toto da quelli/e di Potere al popolo. Qui il nostro documento se già non lo hai letto: https://www.linterferenza.info/lettere/lettera-aperta-agli-uomini-alle-donne-potere-al-popolo/
      Ciò detto, il fatto che per la prima volta nella storia della sinistra mondiale, sia pur morente se non già morta, una posizione eretica come la nostra abbia potuto trovare uno spazio, un ascolto, e non sia stata bollata con infamia ma recepita come una posizione come le altre, è già un gran risultato di per sé.
      Per me è troppo presto per parlare di partito, e lo direi anche se fossimo stati migliaia. Tanto più che non lo eravamo. Credo anzi che in questa fase non si debba avere fretta. L’unica cosa che non ci manca è il tempo; ne abbiamo finchè vogliamo, purtroppo…Inoltre è bene confrontarsi e approfondire e ci vorranno ancora tanti incontri, meglio se di tipo seminariale, e questa è la proposta che farò sia a Boghetta che a Porcaro e Formenti. Dobbiamo approfondire e chiarirci su tanti aspetti. Penso che per ora quello che si può realisticamente fare è pensare ad una associazione, ma parlare di partito è assolutamente prematuro. Io stesso non ho condiviso alcune cose che sono state dette, pur condividendone altre. Insomma, c’è da discutere ancora, e molto.

  3. Gian
    18 aprile 2018 at 0:00

    Ciao Fabrizio, leggo sempre con piacere i tuoi scritti su questo sito, sia in materia politica generale quanto sulla questione sessuale, ormai credo possiamo definirla così.

    Non so se esattamente ho capito in che senso intendi che hai capito chi sono per come uso il termine “polcor”, a me sembra una buona abbreviazione del “politicamente corretto”, personalmente non ci siamo mai conosciuti, e a meno che tu non sia un frequentatore di un forum che non citerò e che è l’unico posto dove a volte io uso questa contrazione, forse hai sbagliato persona.

    Riguardo al resto, sul fatto che occorra eliminare tutte le mene femministe e genderiste dalla futura sinistra non ci piove, ma se ho capito bene al convegno si è parlato soprattutto di questo. E l’economia? Le prospettive di collocazione geopolitica?
    Capisco perfettamente che il cammino sia lungo, e che la costituzione partitica rischierebbe di essere l’ennesima riedizione della “sinistra radicale” che poi prende pochi voti in più di Casa Pound.

    E’ che mi pare che parlare soprattutto della questione femminista sia riduttivo…

    • Fabrizio Marchi
      18 aprile 2018 at 9:19

      Scusami allora, al convegno c’era un compagno che usava la tua stessa parola per definire il politicamente corretto, cioè “polcor”, e allora ho pensato fossi tu…:-)
      Per il resto, io sono intervenuto solo sulla “questione sessuale” per la semplice ragione che avevo dieci minuti a disposizione, come tutti, e allora ho pensato che la cosa migliore da fare fosse quella di inserire un elemento di novità, che certamente nessuno avrebbe introdotto nel dibattito se non lo avessimo fatto noi, come infatti è stato. Dopo di che è ovvio che ci sono tanti altri aspetti da discutere e che sono stati in parte discussi. In linea di massima ciò che è emerso è la volontà di lavorare alla costruzione di una forza socialista nazional popolare e antiliberista, capace di costruire una ampia aggregazione di forze sociali anche diverse, lavoratori dipendenti, precari e piccola e media borghesia anch’esse colpite dall’offensiva neoliberista, con un forte rilancio del ruolo dello stato nell’economia, nella ricostruzione di un welfare robusto e nel rilancio dell’occupazione. Naturalmente al centro di tutto c’è la questione dell’uscita dalla UE e del recupero della sovranità nazionale e popolare, facendo perno sulla Costituzione italiana. In estrema sintesi si individua il nemico nel grande capitale transnazionale, nelle elite capitaliste finanziarie transnazionali ed è stato sottolineato come queste elite esistano concretamente in carne ed ossa, per ribadire appunto (e io sono d’accordo) come il capitalismo non sia una sorta di realtà astratta e impersonale, come pensa qualcuno, ma sia un sistema, sia pure complesso, guidato da gruppi di persone in carne ed ossa che decidono concretamente i destini dell’umanità, cioè le politiche che devono essere attuate, e naturalmente dalle strutture politiche e militari dei vari stati, a partire dal ruolo che oggi hanno nel mondo gli USA. In generale si è rimesso al centro il ruolo dello stato, nella sua funzione politica di limitare il mercato e di ridistribuire risorse e anche, in senso gramsciano, nella sua funzione di luogo sia politico che fisco-spaziale, diciamo così, dove le masse popolari possono esercitare un ruolo politico, organizzare anche il conflitto sociale che altrimenti non è possibile nel momento in cui non esiste più quel luogo.
      Si è insistito molto anche sulla necessità di ritrovare e ricostruire un orizzonte ideale forte; lo stesso Formenti ha detto a chiare lettere che a tal fine bisogna riproporre la coppia “amico-nemico” dove gli amici e i nemici sono ben individuati.
      A mio parere c’è ancora molto da discutere e su cui confrontarsi, però mi è comunque sembrata una discussione ricca. Personalmente condivido l’impostazione ma non gli attribuisco un carattere ideologico o, la dico meglio, non rappresenta per me chissà quale orizzonte ideale. Insomma, non è che il recupero della sovranità nazionale scaldi il mio cuore, come si suol dire, però mi rendo conto che la politica si fa facendo i conti con la realtà, e nella fase attuale non c’è dubbio che il potenziale o latente conflitto di classe e quindi la possibilità di lavorare sul lungo periodo alla trasformazione in senso quanto più possibile socialista della realtà, passi attraverso quel percorso. Penso quindi che sia giusto che una forza socialista lavori in tal senso ma che debba al contempo mantenere anche un orizzonte ideale e valoriale forte, concetto che peraltro è stato anche ribadito da alcuni interventi. In ogni caso, come ripeto, c’è ancora molto da discutere e da approfondire. Il tempo, è l’unica cosa che non ci manca, anche se ho l’impressione che invece alcuni abbiano più fretta e vogliano arrivare in tempi brevi ad una sintesi politica (quindi un nuovo soggetto politico), ma secondo me sarebbe un errore per varie ragioni. La prima è che bisogna prima chiarirsi bene sul da farsi e quindi bisogna confrontarsi e discutere a fondo, la seconda è che un partito deve avere radici solidi e una forte weltanshaaung e poi deve avere anche delle gambe concret, cioè non può nascere solo per volontà di alcuni intellettuali o militanti “senza partito”. Ci devono essere le condizioni reali che lo determinano. Si vedrà. L’ottimismo della volontà però c’è, da parte di tutti, anche da parte nostra, e questo è già importante.
      P.S. è emersa dal dibattito una sostanziale ostilità da parte di tutti nei confronti dell’ideologia politicamente corretta, individuata come ideologia dominante. Però resta lo scoglio del femminismo, il tabù dei tabù, come ho avuto modo di dire, sul quale credo – spero di no ma la vedo ardua – ci areneremo…Vedremo a quel punto se nel corso del dibattito quale mediazione si raggiungerà e se quella mediazione sarà accettabile. Il fatto (molto) positivo è comunque che si stato possibile affrontare il tema senza che ci sia stata alcuna reazione di ostilità o di chiusura, anzi, alcuni compagni ci hanno personalmente manifestato la loro simpatia…Una cosa è certa . Quando si fa politica si deve essere disposti a mediare, su questo non c’è dubbio. Però per quanto mi riguarda – ma credo che la pensino nella stessa maniera anche tutti gli altri compagni che ruotano intorno a questo giornale e al movimento degli Uomini Beta – non aderirò mai ad una forza politica che sposi il femminismo e che sostenga che l’attuale società sia ancora a dominio patriarcale e maschilista. Questo è poco ma sicuro. Però sto andando troppo in là. Procediamo passo dopo passo. Intanto è bene che si sappia che noi non retrocederemo mai dalle nostre posizioni e chi “ci si piglia”, deve sapere che ci si “piglia” in toto così come siamo con le idee di cui siamo portatori. Se così fosse, sarebbe già un enorme passo in avanti e una grande vittoria per noi…

  4. Giovanni
    19 aprile 2018 at 0:08

    L’incontro è certamente interessante perché affronta senza mezzi termini il tabù della questione nazionale guardiamo però alla storia recente. Cosa è accaduto in questi anni di crisi, che gli elettori comprendendo progressivamente di essere stati abbandonati si sono spostati dai loro tradizionali riferimenti politici approdando altrove. Quali grossi eventi hanno potenzialmente creato realtà in grado di intercettare questa diaspora:

    1) M5S, preesistente alla crisi e nato dall’incontro delle capacità comunicative del mattatore Beppe Grillo e della ditta esperta in comunicazione su internet Casaleggio e associati. Un insieme non certo esterno al sistema ma che ha saputo rappresentarsi come antisistema raccogliendo il dissenso

    2) in maniera minore il giornalista Paolo Barnard attorno alla MMT riesce ad aggregare un buon consenso realizzando anche una conferenza di successo. Certo incentrato su figure americane e su una narrazione mercatista, ogni perplessità su questi punti è legittima ma non parliamone ora. Questo però non si trasforma in partito politico sia perché si presenta come teoria economica sia perché quello spazio è già occupato da M5S ed il movimento di divide in diversi rami tuttora esistenti e vari tentativi di entrismo. Questo successo ispira blogger come Bagnai, un altro comunicatore mattatore, che però ha preso un altra strada.

    Quale lezione si può trarre da tutto questo? Io ne traggo una: o si riesce a capire come organizzare qualcosa che abbia questo tipo di risonanza concentrandosi sul tema principale, che è la richiesta di sicurezza sociale con la risposta da darvi ed una comunicazione efficace, oppure (scusatemi la schiettezza) è inutile anche solo provare. Ogni altro obiettivo intermedio sarebbero chiacchiere ed illusioni gradualiste in cui spesso indulgono i partiti ed i movimenti piccoli. Ed il gradualismo in fondo è il tenente Drogo che aspetta pazientemente tutta la vita l’arrivo dei Tartari alla fortezza Bastiani e quando arrivano davvero lui viene estromesso.

  5. Fabrizio Marchi
    20 aprile 2018 at 19:10

    Questo di seguito è il report fatto da Carlo Formenti dell’assemblea del 15 aprile scorso a Bologna “Per una Sinistra nazionale e popolare”. Ho pensato fosse giusto diffonderlo anche perché ne abbiamo parlato anche qui
    Come già spiegato, le posizioni di Carlo Formenti (che è l’unico ad esserci pronunciato in tema, oltre ad Ivana Fabris) sul femminismo sono diverse dalle nostre. Tuttavia è già importante che se ne discuta senza tabù ed ostracismi personali e che taluni temi da noi proposti non siano stati rigettati a priori. Naturalmente ho chiesto ai promotori di approfondire le tante tematiche che sono state messe sul piatto con dei seminari d hoc.
    Di seguito il report:
    L’assemblea “Per una sinistra nazionale e popolare” tenutasi a Bologna il 15 aprile scorso è andata bene (oltre le aspettative dei promotori…) registrando un notevole livello di accordo sullo spirito del documento di convocazione e ponendo le basi per l’inizio di un lavoro comune. Qui di seguito offro un breve “verbale” degli interventi (scusandomi per l’estrema sintesi) e il testo delle mie conclusioni. Scusandomi con Manuel Linari di cui mi sono saltati gli appunti.
    Carlo Formenti
    (Chi fosse interessato a contattarci può scrivere a questa mail provvisoria: sinistranazionalepopolare@gmsil.com)
    Nella presentazione Ugo Boghetta chiarisce nascita e motivi dell’incontro: non condivisione delle scelte di eurostop, quasi scomparsa elettorale della sinistra, risultato di M5S e Lega, dare un messaggio di superamento della sinistra nella ri-proposizione della questione del socialismo, uscire in questo modo dalle cause principali del fallimento delle sinistre italiane: economicismo, tattica senza strategia, movimento e conflitto senza scopo o conflitti di scopo monotematici ma che diventano inutili senza una quadro di riferimento e di prospettiva. Proposta socialista anche come possibilità di uscita dalle contraddizioni innestate dal risultato di M5S e Lega.

    Nella sua introduzione Mimmo Porcaro richiama i temi del documento di convocazione, aggiungendo, all’inizio ed alla fine, due brevi considerazioni. All’inizio sostiene che la crisi generale delle sinistre italiane deriva dalla loro completa subalternità alle élite del nostro paese. Queste ultime infatti, per risolvere i problemi del paese (e soprattutto per meglio disciplinare la lotta di classe), hanno puntato tutto sulla partecipazione dell’Italia agli organismi sovranazionali nati dalla globalizzazione. E così ha fatto la stessa sinistra, quella moderata identificandosi completamente con le élite, quella radicale illudendosi di poter democratizzare la globalizzazione e l’Unione europea, che sono invece nate proprio contro la democrazia. La crisi della globalizzazione ha quindi significato crisi della sinistra. La sinistra non ha saputo interpretare il “momento Polanyi”, ossia l’inevitabile reazione della società contro il liberismo, una reazione che si attua prima di tutto attraverso lo stato e che può avere due esiti diversi: Trump o Sanders, in lotta per due interpretazioni inconciliabili del ruolo dello stato nazionale nella protezione del popolo. La sinistra radicale italiana non è in grado di affrontare questa forma dello scontro perché è irrevocabilmente movimentista, antistatalista e quindi europeista. Alla fine del suo intervento Porcaro propone una riflessione sul senso dell’iniziativa: non si tratta né di creare immediatamente un nuovo piccolo gruppo politico né di dar vita ad un forum di opinioni troppo divergenti. Si tratta piuttosto di dar vita ad un processo che deve precisare, correggere ed arricchire notevolmente le tesi esposte nel documento, un processo che deve quindi giungere alla definizione di un’identità politica, ma che deve farlo nella maniera più aperta possibile senza bloccare prematuramente la discussione: perché i compiti che inevitabilmente si delineano (la rottura degli equilibri di classe e quindi delle alleanze internazionali che risalgono agli albori della Repubblica) sono di estrema difficoltà.

    Fabrizio Marchi (Interferenze). Condivide i contenuti del documento di convocazione, ma ne evidenzia un aspetto critico: trova insufficiente l’analisi dell’ideologia politicamente corretta e, in particolare, lamenta la mancanza di riferimenti critici al tabù dell’ideologia femminista. Racconta la storia di un padre ridotto in miseria dagli effetti di un divorzio che gli ha imposto condizioni particolarmente punitive e sostiene che si tratta di un caso paradigmatico dello stato in cui si trovano centinaia di migliaia di padri a causa di sentenze che premiano a priori le controparti femminili, in ragione del loro presunto handicap di genere. Se poi si tiene conto del fatto che la percentuale dei maschi fra i carcerati, gli homeless e altri soggetti marginali ed esclusi è assai più elevata di quella femminile, si chiede come sia possibile parlare di patriarcato. Quanto al tema dell’immigrazione, premessa la complessità della questione, sottolinea il fatto che le contraddizioni fra autoctoni e immigrati si manifestano a livello territoriale più che a livello lavorativo.
    Gabriele Garavini. Ritiene che il giudizio sulla sinistra espresso dal documento richieda approfondimenti: la sinistra non va semplicemente superata, ma deve essere ben analizzata nelle sue dinamiche. Esprime un giudizio fortemente critico nei confronti dei sindacati di base, che gestiscono le tessere in una logica di competizione corporativa. Quanto alla questione dell’indipendenza nazionale, sostiene che la ricerca di un modello alternativo di sviluppo non vada riferita solo alla questione europea ma debba essere inquadrata in una visione globale, in un contesto caratterizzato da una rottura dell’egemonia imperialista di cui stiamo oggi vivendo la fase intermedia. Ritiene centrale che l’Italia affronti il tema dell’indipendenza se vuole riprendere un cammino di sviluppo, indipendenza che è prima di tutto rottura degli equilibri e delle stesse alleanze militari. Indipendenza per non finire come la Grecia. Nella prospettiva del socialismo è necessario capire come si gestisce la fase intermedia e quale sia il soggetto politico in grado di riprogettare lo stato.
    Urbano Boscoscuro. Sottolinea la necessità di approfondire l’analisi della questione settentrionale. Quanto alla sovranità ritiene che essa serva a ridare un luogo alla politica. Al dominio americano sta subentrando uno scenario che se non è ancora multipolare è senz’altro multilaterale, vista l’ascesa di Cina e Russia. Parlare di ALBA mediterranea significa al momento inseguire un sogno: nella definizione delle possibili alleanze per l’Italia l’ALBA è ancora lontana, mentre Russia e Cina sarebbero interlocutori concreti ed immediati. Aggiunge che oggi la contraddizione principale in Italia non è quella di classe, e che quindi va evitata la contrapposizione con il M5S. Bisogna smetterla con il termine “sinistra”, e definirsi piuttosto “patria sovrana. Conclude sul problema dell’immigrazione, richiamando il concetto marxiano di esercito di riserva
    Alessandro Leoni. Richiama i suoi quasi 52 anni di militanza politica e sostiene di aver assistito ad altrettanti anni di regressione antropologica. Tanto che oggi dobbiamo ripartire da cose elementari. Per spiegare l’egemonia capitalistica a livello globale non si può rimuovere l’impatto dell’89. La questione della della sovranità nazionale: non ce lo stiamo certo inventando oggi, visto che i Partiti comunisti auropei hanno sempre avuto attenzione a tale questione. Inoltre: qual è la rivoluzione socialista che non è stata in primo luogo democratico-nazionale? Negli ultimi trent’anni questi riferimenti sono stati abbandonati ed è riemersa una cultura anarchica che in precedenza era stata sotto l’egemonia del marxismo. Necessità di riprendere le battaglie ideologiche che la sinistra ha abbandonato fin dagli anni 60 del 900.
    Riccardo Paccosi. Apprezza documento di convocazione come il più solido che gli sia capitato di leggere negli ultimi anni. Ne riprendere tre punti. 1) chi sostiene la necessità di deregolamentare i flussi migratori, da per scontato che questi abbiano solo cause endogene, ma lui ho avuto modo di verificare (attraverso i racconti di molti migranti) che non solo esistono organizzazioni che gestiscono i flussi ma che esse rispondono a scelte politiche che decidono di volta in volta di intensificarli o rallentarli; 2) rispetto agli scenari geopolitici: è d’accordo con una prospettiva euromediterranea, ma invita a stare attenti a non tifare per la maggiore “elasticità” americana (rispetto al rigore tedesco) in materia di politica economica. Dobbiamo essere duramente antiamericani; 3) se è vero che la parola sinistra non è più utilizzabile dobbiamo chiederci a chi vogliamo rivolgerci: crede si debba partire dal nuovo attivismo giovanile che sta emergendo nella costellazione populista. Bisogna chiudere i conti con la tematica della “ricostruzione della sinistra” e passare finalmente ad altro.
    Gabriele Pastrello. Osserva che la globalizzazione genera controspinte che partono da una rivalutazione del ruolo dello stato nazione, ma in questa partita si inseriscono diversi soggetti: invita tutti a ricordare che, storicamente, il contrasto alla pervasività delle pretese liberali ha avuto per protagonisti conservatori come Bismark e che in Germania, Italia, Stati Uniti e Giappone il protezionismo ha svolto un ruolo strategico nelle fasi di decollo dello sviluppo capitalistico. Anche il fenomeno Trump incarna uno di questi contromovimenti. Sulla dialettica fra stato e antistato di cui parla il documento avverte una eco della strategia togliattiana (dall’alto e dal basso). Sull’immigrazione: non accogliendoli perdiamo l’anima, accogliendoli perdiamo il consenso, siamo presi in questa tenaglia ma prenderne atto è già un passo avanti rispetto alla rimozione del problema. Sulle tasse: è necessario farsi carico del problema di uno strato intermedio che si trova su una linea di galleggiamento, sempre prossimo a sprofondare. Infine sulla Ue: crede che la fine possa arrivare da sola: se invece delle scelte imposte da Draghi si fosse seguita fino in fondo la linea tedesca la fine sarebbe probabilmente già arrivata
    Livio Zerbinati. Si sofferma sul problema generazionale: siamo alla fine di una generazione politica, culturale ed esistenziale ma lottiamo ancora per trasmettere qualcosa alle nuove generazioni, il punto è se abbiamo gli strumenti linguistici per farlo. Occorre trovare qualcosa, un orizzonte di senso, un racconto, dei progetti che sappiano affascinare chi viene dopo di noi.
    Emanuele Montagna. Si concentra soprattutto sulla questione della scienza, della tecnologia, del progressismo. Dobbiamo fare attenzione ai discorsi su un uso scientifico della tecnologia e sul presunto carattere scientifico dello stesso marxismo: abbiamo sempre preso troppo sul serio il discorso dell’avversario dal quale siamo stati infiltrati fin dall’inizio (economicismo). Scienza e tecnologia sono tutte interne al capitale. Senza linee di pensiero differenti non si può né gestire positivamente la macchina statale né esercitare nei suoi confronti partecipazione e controllo. Quanto alla nostra azione, bisogna aver pronta una forma organizzativa che favorisca la connessione sentimentale col popolo.
    Rolanto Vitali (senso comune) Sosostiene che le sinistre radicali sottovalutano da tempo il problema del potere, e che per affrontarlo seriamente occorre porsi la questione della mediazione: non basta avere le idee giuste, bisogna capire come si costruisce egemonia, evitando di cadere nel settarismo e nel minoritarismo. Più che costruire identità bisogna costruire programma. Le questioni geopolitiche e quelle relative all’euro sono ancora lontane. Non si costruisce la connessione sentimentale col popolo lavorando soltanto su un macrotema.
    Enea Boria (Collettivo populista di Milano “Un pezzo un culo”). Spiega che nel darsi un nome il collettivo si è ispirato allo spirito del film di Petri, dedicato a una classe operaia stufa che altri le dicano chi è, cosa vuole e come ottenerlo: anche noi siamo stanchi di essere “diaspora” e che gli altri ci spieghino chi siamo. Quanto al riferimento alla sinistra, bisogna azzerarlo e partire da eguaglianza e conflitto. Concorda sui “paletti” del documento – sovranità nazionale e popolare, economia mista in una prospettiva socialista, ecc. –. Bisogna piuttosto riflettere sullo strumento organizzativo. Non indica soluzioni ma problemi: crede che ci serva una struttura in divenire, crede che si debba sperimentare, essere le cavie di noi stessi. La politica è capacità di mobilitazione, ma molti lo traducono in ricerca del movimento per il movimento, però le cose non funzionano così: spesso sono stati soggetti tradizionali a spingere per l’innovazione: France Insoumise, Corbyn, che ha potuto sfruttare la resistenza delle Union contro il blairismo. Da noi non esiste per il momento qualcosa di analogo: più che una crisi dell’offerta politica c’è una crisi della domanda: il popolo non ha obiettivi precisi vuole solo far saltare il banco. Che fare allora? Elaborare, sperimentare ed espandersi adottando regole che rendano sempre esigibile la democrazia interna. Non sono d’accordo sul fatto che l’identità ce la danno gli altri, occorre invece un’identità forte. A questo ruguardo si deve problematizzare la questione del progresso per intervenire nella dialettica fra territori e flussi.

    Ugo Boghetta, nell’intervento a fine mattinata, premette che nella nostra discussione bisogna distinguere ciò che fa parte dell’analisi e si rivolge ai politicizzati e la traduzione della medesima in termini di massa. Contenuti e linguaggi sono inevitabilmente diversi. Chiarisce che il termine sinistra viene usato per la sua sostanza e per coloro che in questa ancora vi si riconoscono (ma non in riferimento alle organizzazioni). Quindi il termine usato nella convocazione deve considerarsi provvisorio. Afferma che è necessario approfondire la questione populista sia in termini critici che positivi. Così come vanno affrontate le cause recenti e storiche dell’identità nazionale/italiana. Esempio: meridione e Stato rimandano alle radici della storia del paese. Si devono riannodare i fili della storia: un Risorgimento senza rivoluzione popolare, una resistenza tradita nella sostanza, un Costituzione prima sospesa e poi negata, un movimento operaio sconfitto prima con l’uso del fascismo, poi dal liberismo con l’aiuto della sinistra. Parimenti è necessario affrontare il politically correct: ideologia della sinistra tutta, sapendo tuttavia che la posizione giusta sta nel superamento dialettico non nel simmetrico opposto. Non possiamo pensare le soluzione come pezze nello status quo ma in un nuovo quadro. Nostro obiettivo dunque è costruire il “campo” di un rinnovato socialismo, del sovranismo democratico e costituzionale e un popolo adeguato agli obiettivi ed alle sfide.

    Leonardo Mazzei (P101) Concorda ampiamente sul documento, osserva che per la sinistra nazione e sovranità sono ancora termini tabù: la stessa Eurostop ha assunto soltanto strumentalmente la problematica antieuropeista. Fa peraltro osservare che su questo punto le elaborazioni non sono all’ano zero e che si sarebbe atteso da questa assemblea, in relazione al grande ribaltamento del 4 marzo, almeno un pronunciamento netto per un appoggio tattico ad un governo M5S-Lega, l’unico che potrebbe aprire di fatto un conflitto con l’Ue.
    Sergio Calzolari. Espone quanto sa del capitalismo attuale come dirigente in una multinazionale. Pensa che la globalizzazione sia un’etichetta ideologica che applichiamo a un processo che è consustanziale al capitalismo, vale a dire la spinta alla unificazione del mercato mondiale. Le élite dominanti non sono un’astrazione, il riflesso di una logica impersonale dei mercati, ma esseri umani in carne e ossa che, per inciso, aderiscono tutti all’ideologia della “sinistra” clintoniana in nome della quale combattono la loro guerra contro i residui delle élite nazionali. A loro volta però queste élite sono divise, perché dietro di loro ci sono gli stati. In ogni caso oggi la contraddizione fondamentale è tra le due diverse élite. Noi dobbiamo allearci con quella nazionale, nonché con pezzi dell’apparato di stato e dello stesso esercito. Abbiamo inoltre bisogno di simboli: come l’idea marxiana del “sogno di una cosa” e quella di “spronare il ronzino della storia”.
    Ivana Fabris. (Essere sinistra)Lavorando in un gruppo di comunicazione politica al servizio di un leader conosciuto, si è resa conto che una certa politica è definitivamente morta, sostituita da tecniche di marketing. L’antica “connessione sentimentale” fra masse e partiti si è ridotta a una diaspora che arriva fino ai singoli individui che devono essere contattati quasi ad uno ad uno. Rispetto alla riunione di oggi: crede sia arrivato il momento di mettere in cantiere il bambino, serve un atto di coraggio, perché in questo momento esiste una finestra di opportunità che rischia però di chiudersi presto. La pancia è fondamentale devono sentire che crediamo in ciò che proponiamo e facciamo. Una semplice associazione non basta: occorre fare qualcosa di più.
    Marco Spagnoletti (PRC Molfetta). Del documento lo convince in particolare il nesso fra sovranità nazionale e difesa dell’occupazione.

    CONCLUSIONI
    (Avverto chi ha partecipato all’assemblea del 15 aprile che in questa versione non si troveranno alcune delle cose sentite a Bologna perché, avendo parlato a braccio, non posso ricordare con esattezza tutto quanto detto. Si troveranno invece cose che non erano presenti nel discorso, perché rileggendo gli appunti sugli interventi mi sono convinto della necessità di inserire alcuni approfondimenti).
    Parto da una premessa che mi pare d’obbligo. Sono convinto che dobbiamo smettere di accompagnare l’uso di termini come popolo, populismo, sovranità, stato nazione con una sequela di distinguo e precisazioni che suonano come una sorta di excusatio non petita nei confronti di chi ci accusa di “rossobrunismo”. Io penso che ci si possa e debba qualificare come populisti e sovranisti senza timidezze, perché questo è il terreno su cui si gioca una lotta egemonica con le forze populiste di destra per la conquista del senso comune, una lotta in cui è in palio il significato politico da attribuire a tali termini. Quello che dice e pensa in merito la sinistra moribonda da cui abbiamo deciso di prendere congedo non deve importarci nulla. Ciò detto, mi propongo di riprendere i temi della relazione introduttiva di Mimmo Porcaro tenendo conto di alcuni (non di tutti perché dovrei parlare troppo a lungo) dei vostri interventi, che ho ascoltato con estremo interesse e soddisfazione perché mi pare che emerga una sostanziale convergenza – pur nelle inevitabili differenze – su una serie di temi dirimenti. Affronterò nell’ordine i seguenti punti: 1) crisi della globalizzazione; 2) irreversibile esaurimento del ruolo politico delle sinistre; 3) populismo come forma della lotta di classe nell’attuale contesto storico; 4) il socialismo del XXI secolo fra riforme e rivoluzione; 5) ricostruzione dello stato; 6) postilla sulla questione dei migranti
    In merito alla globalizzazione Pastrello ha giustamente sottolineato due aspetti: il primo si riferisce al fatto che se per globalizzazione si intende la spinta alla mondializzazione dei mercati di merci, capitali e forza lavoro non si vede dove stia la novità, nel senso che si tratta di una tendenza connaturata al capitalismo fin dalle origini di tale modo di produzione; il secondo è che le accelerazioni liberiste di tale processo hanno sempre generato potenti controspinte fondate sul recupero di centralità del livello nazionale, controspinte dovute sia a fattori endogeni (contraddizioni interne al sistema economico) sia a fattori sociopolitici: resistenza dal basso delle classi subordinate ma anche reazioni politiche guidate da settori del capitale colpiti dagli effetti dell’internazionalizzione e/o preoccupati dall’instabilità sociale generata da tali effetti. Aggiungerei che questi fenomeni possono e debbono essere analizzati nell’ottica del lungo periodo storico, seguendo la lezione di autori come Braudel, Arrighi, Wallerstein, Samir Amin, Harvey, Milanovich e altri, perché è da loro che abbiamo imparato ad analizzare la storia del capitalismo come alternanza di cicli egemonici e di mutazioni strutturali del modo di produzione innescati dalle grandi crisi epocali. In particolare sono convinto che a caratterizzare la crisi attuale sia – più ancora degli effetti della bolla finanziaria del 2008 – l’entrata in fibrillazione dei sistemi politici occidentali causata dalla crescente resistenza delle classi subordinate all’enorme aumento delle disuguaglianze negli ultimi decenni (a sua volta prodotto da finanziarizzazione dell’economia e rivoluzioni tecnologiche). Come ha detto recentemente il vicepresidente boliviano Linera, a entrare in crisi è stata la narrazione della globalizzazione come processo che genera effetti positivi per tutti gli strati sociali, narrazione che ha perso la sua forza legittimante al punto che nemmeno le martellanti campagne mediatiche su Brexit, contro Trump, per le riforma della costituzione italiana, ecc. hanno sortito gli effetti desiderati. È per questo che riemerge una verità che Marx e Lenin conoscevano assai bene: il conflitto fra nazioni è sempre anche conflitto di classe, nel senso che le nazioni dominanti (come la Germania rispetto agli altri paesi europei) sfruttano la loro posizione per imporre condizioni particolarmente dure alle classi subordinate dei paesi dominati (e per elargire briciole al proprio interno). È in questo contesto che si impone la necessità di porre all’ordine del giorno la riconquista di sovranità nazionale (di delinking per usare la terminologia di Samir Amin) del nostro Paese rispetto alla gabbia europea (non solo dei trattati ma anche delle istituzioni!). Samir Amin ha accostato la condizione dei Pigs europei allo status di periferie e semiperiferie da lui utilizzato per analizzare la condizione dei paesi coloniali e postcoloniali: questa diagnosi è confermata dalla riduzione della Grecia alla condizione di protettorato delle banche tedesche e dal processo di deindustrializzazione in atto in Italia oltre che in Spagna e Portogallo. Riconquistare la sovranità nazionale è precondizione per restituire alle nostre classi subordinate gli strumenti per strappare migliori condizioni di lavoro e di vita. Questo implica ovviamente, come è stato sottolineato da vari interventi, un riconsiderazione della collocazione geopolitica del nostro Paese, non solo nella prospettiva della costruzione di un’area euromediterranea ma anche in quella di sviluppo di alleanze che sfruttino la crisi del blocco atlantico a egemonia americana e guardino ai conflitti fra questo e le nuove potenze emergenti.
    Passiamo alla morte delle sinistre, certificata dalla drastica riduzione del loro peso elettorale in tutti i Paesi occidentali (a partire dalle ultime elezioni italiane). In primo luogo occorre prendere atto del fatto che, su alcuni aspetti di fondo – cosmopolitismo borghese spacciato per internazionalismo proletario, abbandono dell’impegno per i diritti sociali a favore di quello per i diritti individuali e civili, ideologia del politicamente corretto – non esistono sostanziali differenze fra le socialdemocrazie convertite al liberismo (le sinistre clintoniane-blairiane) e le cosiddette sinistre radicali che, pur continuando a sostenere la necessità di difendere il welfare e combattere il lavoro precario, hanno di fatto abbandonato ogni velleità antisistemica (leggasi il superamento del modo di produzione capitalista verso una società socialista) per tacere delle loro posizioni opportuniste nei confronti di conflitti come quello ucraino e siriano, dove non di rado appoggiano le posizioni occidentali per “difendere la democrazia e i diritti umani”. Questa mutazione non è dovuta tanto a tradimenti o degenerazioni ideologiche quanto a una progressiva mutazione del blocco sociale che tali forze rappresentano (basti vedere i dati dei flussi elettorali: raccolgono voti solo nei centri storici abitati dalla media borghesia). Come ha scritto qualcuno, non è che le sinistre non capiscono più il popolo, è che questo (cioè le classi subalterne) non è più il loro popolo. Da un lato, dopo la svolta neoliberista degli anni 80, le socialdemocrazie si sono fatte portavoce degli interessi delle élite industriali e finanziarie in concorrenza con i partiti liberali “classici”, dall’altro, le sinistre radicali pescano negli strati della forza lavoro più qualificata , in particolare fra le nuove professioni nate all’ombra della rivoluzione digitale (le cosiddette classi creative o quel lavoro cognitivo che delizia Negri e i suoi accoliti). Fino all’esplosione del fenomeno populista (di cui parlerò fra poco) gli uni e gli altri sono riusciti a mantenere una relativa egemonia anche nei confronti degli strati inferiori delle classi medie attraverso l’ideologia del politicamente corretto (antirazzismo, antisessismo, antiautoritarismo, pacifismo, movimentismo, antistatalismo, ecc.) che, come dimostrato da autori come Boltanski, Chiapello e Nancy Fraser, è nata dall’onda lunga del 68 e dalla progressiva separazione fra la carica di antagonismo sociale presente in quel movimento e la sua tendenza (alla fine vincente) a sposare posizioni genericamente libertarie, individualiste e meritocratiche (pari opportunità in una gara fra uguali per scalare le gerarchie sociali). Oggi il politicamente corretto è assurto allo statuto di una neolingua (adottata dalle élite politiche ed economiche di centro, destra e sinistra: tutti i manager delle multinazionali, come ha evidenziato Calzolari nel suo intervento, appartengono oggi alla sinistra clintoniana) che viene usata come strumento terroristico per bollare come fascisti, razzisti e sessisti tutti quei “pezzenti” che hanno votato Brexit o Trump (il disprezzo per i poveri è divenuto un tratto caratteristico di queste sinistre). Possiamo inserire in questo quadro, come propone Marchi nel suo intervento, l’intero movimento femminista senza distinzioni? Come lui ben sa, non condivido questa posizione. Credo che un’autrice come la già citata Nancy Fraser ci abbia dato una delle più acute e interessanti analisi dell’ultimo secolo e mezzo di storia del capitalismo dal punto di vista dell’integrazione fra processi produttivi e riproduttivi; ed è proprio lei che ha denunciato la progressiva infiltrazione del movimento femminista occidentale (storie differenti sono quelle del femminismo afroamericano, latinoamericano e di altri paesi ex coloniali) da parte di un’ideologia puramente emancipazionista che rivendica l’esclusiva parità economica fra i sessi in una gara meritocratica per le carriere, ideologia di cui si fanno portatrici (vedi sopra) le donne degli strati superiori di classe media e che si fonda sull’alleanza fra femminismo e liberismo, un liberismo “progressista” che ha i suoi portabandiera nello show business, nelle industrie di Silicon Valley e in altri settori avanzati del neocapitalismo. Ciò detto è vero che l’effetto collaterale di questa mutazione è, fra gli altri, quello di penalizzare certi settori della forza lavoro maschile (come denunciato da Marchi), ed è vero (aggiungo io ma lo dicono anche autorevoli esponenti del femminismo della differenza) che il capitalismo oggi non ha alcun interesse a conservare il patriarcato che è anzi un ostacolo sulla via della costruzione di un soggetto lavorativo “neutro”, più facilmente addomesticabile dei vecchi portatori di differenza sessuale. Ma ciò non vuol dire negare la convivenza del patriarcato con precedenti fasi del capitalismo e/o una sua sia pur residuale presenza nella realtà attuale.
    Sul Populismo. Il termine appare oggi inflazionato dalla polemica politica e dall’uso mediatico che ne viene fatto e, se andiamo a vedere a quali contenuti viene associato, scopriamo come finisca per essere una scatola vuota. A livello di scienze accademiche (politologi, sociologi, ecc.) si ripetono schemi elaborati negli anni 60 del 900 sulla base dei regimi sudamericani della prima metà del secolo (Peron, Vargas e altri): basso versus alto, noi/loro, popolo buono/oligarchi cattivi, interclassismo (il popolo è un’unità inscindibile), culto del leader carismatico, linguaggi semplificati, ecc. Sono caratteristiche che effettivamente si possono riscontrare anche in fenomeni contemporanei ma che, decontestualizzati dalla nuova situazione economica, politica e sociale, si riducono ad analogie superficiali. Se poi ci si riferisce all’uso di tecniche “populiste” di comunicazione politica allora occorre riconoscere che oggi tutte le forze politiche, di destra centro e sinistra, partiti e movimenti usano tecniche e stili comunicativi di questo tipo. Più interessante è capire come il termine venga usato dalle élite globali. Un anno fa il direttore del Wall Street Journal ha detto che oggi lo scontro politico non è più fra destra e sinistra ma fra globalisti e antiglobalisti e ha definito i secondi come populisti, senza distinguere fra populismi di destra e sinistra (mettendo cioè sullo stesso piano Sanders e Trump, Mélenchon e Marine Le Pen, Corbyn e lo Ukip, Podemos e Ciudadanos). Ebbene, dal suo punto di vista ha ragione. Se è vero, come ho sostenuto nei miei libri, che il populismo è la forma che la lotta di classe assume in questa fase storica, nella quale l’identità delle classi lavoratrici è esplosa in mille schegge, e se è vero che la lotta di classe non assume necessariamente connotati di sinistra (esistono le rivoluzioni passive come le chiamava Gramsci, e i fascismi fra le due guerre furono il prodotto di uno scontro egemonico in cui le destre riuscirono a strappare alle sinistre il controllo delle masse popolari inferocite dalle crisi del primo dopoguerra), allora il nostro giornalista coglie il punto: i movimenti populisti, a prescindere dal colore ideologico, esprimono la resistenza degli strati sociali che hanno perso al gioco della globalizzazione e chiedono protezione dai suoi effetti devastanti. L’idiozia delle sinistre tradizionali (moderate o radicali che siano) si manifesta nel rispondere all’appello antipopulista lanciato dalle élite di regime (vedi il compattamento “antifascista” per sostenere Macron e per combattere Trump), senza capire che i populismi di destra non hanno nulla a che fare con il fascismo (un fenomeno storicamente connotato e irripetibile nel contesto attuale) e che il vero problema è piuttosto contendere l’egemonia del campo populista alle destre, come hanno fatto i vari Podemos, Sanders, Mélenchon e Corbyn. La scelta populista è per noi una scelta obbligata esattamente come la scelta di lottare per la sovranità popolare e nazionale, due opzioni che si richiamano reciprocamente e che, nel contempo, consentono di chiarire qual è la differenza fra noi e i populismi e nazionalismi di destra. Nazione e popolo sono due facce della stessa medaglia, non si dà l’una senza l’altro, ma una cosa e immaginarli come entità astoriche, basate sulla tradizione, sulla terra e sul sangue, altro è concepire entrambi come un processo di costruzione politica come un progetto di unificazione di un blocco sociale delle classi subalterne contro le élite, un progetto che deve necessariamente radicarsi su un certo territorio geografico.
    Il socialismo del XXI secolo fra riforme e rivoluzione. Le rivoluzioni bolivariane che hanno coinciso con le vittorie elettorali di candidati radicalmente progressisti, quindi attraverso vie legali e pacifiche, cui hanno fatto seguito assemblee costituenti che hanno approvato testi estremamente avanzati sul piano dei diritti sociali e civili, affiancate spesso da progetti di trasformazione in senso socialista (o almeno di adozione di forme di economia miste) dei rispettivi Paesi, hanno riaperto in America Latina un dibattito antico che risale a fine 800 e al primo 900. È possibile, si erano chiesti sia Engels che la Luxemburg, che il proletariato conquisti il potere per vie legali e costruisca il socialismo attraverso una serie di riforme radicali? Entrambi questi autori non avevano escluso tale possibilità a condizione che le riforme fossero considerate come un mezzo per costruire il socialismo e non come fine a se stesse (e avevano aggiunto che un altro prerequisito era l’esistenza di rapporti di forza schiaccianti a favore delle classi subalterne). Oggi quelle rivoluzioni sono sotto attacco da parte dell’imperialismo americano, ma vengono fatte oggetto di durissime critiche anche da parte delle opposizioni interne di sinistra (trotskisti in testa) e delle sinistre radicali di casa nostra: si rimprovera loro di aver costruito regimi “estrattivisti”, che sfruttano il monopolio pubblico su certe risorse naturali per finanziare politiche redistributive e investimenti sociali, ma senza intaccare né i rapporti di produzione (la proprietà privata non è stata abolita ma se ne sono solo limitati i margini di discrezionalità) né la natura dello stato. L’ultima accusa è ingenerosa, nel senso che in realtà – soprattutto in Bolivia e in Venezuela – si sono promosse numerose esperienze di democrazia diretta e partecipativa, quanto alla prima non tiene minimamente conto delle condizioni concrete sia interne che internazionali in cui sono avvenute le rivoluzioni, che sicuramente non sono perfette, ma si sa che chi aspetta una rivoluzione “pura” non ne vedrà mai una. Qual è l’insegnamento che possiamo trarre da queste esperienze? Credo che sia sintetizzato in quei passaggi della relazione introduttiva di Mimmo Porcaro in cui si dice che certi obiettivi “riformisti” come la separazione fra banche commerciali e banche di investimento, la riconduzione della Banca d’Italia sotto controllo governativo, la nazionalizzazione delle banche e delle grandi imprese a rischio, oltre a quella dei settori produttivi strategici (trasporti, energia, comunicazioni), la reintroduzione del welfare, lo sviluppo di politiche industriali rivolte a garantire il pubblico impiego, rappresentino oggi una vera e propria rivoluzione rispetto ai vincoli imposti dal regime globale del neoliberismo (che per noi è incarnato dalle istituzioni europee). Ciò detto è chiaro che, ove attuate, tali riforme non darebbero vita al socialismo ma a un’economia mista e a un regime politico caratterizzato da dualismo di potere, passibile di evolvere verso il socialismo o di regredire al capitalismo. L’esito dipenderebbe in larga misura, oltre che dai rapporti di forza interni, dalla situazione internazionale e dal grado di indipendenza politica ed economica raggiunto dal Paese. Infine un’annotazione: credo sia arrivato il momento di smetterla di immaginare la società postcapitalista come un eden senza conflitti, questa è la versione religiosa, quasi mistica di un marxismo ottocentesco ancora fortemente influenzato dalla filosofia hegeliana della storia e dal mito della realizzazione di un umanesimo “integrale”. Il socialismo, se mai ci arriveremo, sarà una società conflittuale, anche se in modo non distruttivo, il che ci porta al prossimo punto.
    Dall’alto e dal basso. Ritengo che il nodo sollevato da Mimmo in merito al rapporto fra rilancio del ruolo dello stato in economia e in politica e la salvaguardia di adeguati livelli di partecipazione democratica sia cruciale. Dire che non ci mettiamo più nella prospettiva movimentista che predica l’estinzione dello stato non significa che vogliamo semplicemente impadronirci della macchina statale così com’è. Riferendosi al discorso di Mimmo laddove si afferma che alla centralizzazione dello stato deve corrispondere lo sviluppo di istituzioni popolari di democrazia diretta, che siano espressione dell’autonomia della società civile nei confronti dello stato e garantiscano la possibilità di promuovere ove necessario il conflitto dal basso verso l’alto, qualcuno ha detto che si tratta di una posizione che richiama la visione togliattiana sintetizzata nello slogan dall’alto e dal basso. Io, che non sono mai stato nel Pci, ignoro se sia possibile fare questo accostamento, però so che un accostamento può essere fatto con la concezione gramsciana del farsi stato delle classi subordinate, che sta a fondamento anche degli esperimenti istituzionali delle rivoluzioni bolivariane citate in precedenza. Mi preme ricordare che quegli esperimenti sono istituzionalizzati nelle costituzioni boliviana e venezuelana. Ebbene io credo che anche noi si debba affiancare la prospettiva di un sovranismo socialista italiano con quella di un nuovo processo costituente. Difendere la nostra Costituzione dagli attacchi del capitalismo globale e dalle “riforme” che i suoi agenti di casa nostra tentano di mettere in atto è sacrosanto ma non basta. La Costituzione richiede di essere ampliata, aggiornata ed estesa alle esigenze di un mondo che è profondamente mutato dalla sua approvazione e soprattutto alle nuove esigenze di protezione degli interessi delle classi subalterne.
    Infine un’annotazione sul tema delle migrazioni. Ritengo che le osservazioni di Pastrello e Paccosi siano fondamentali: è vero, come ha detto Pastrello, che adottare la posizione espressa nel nostro documento di convocazione significa essere presi nella morsa della tenaglia fra perdere l’anima e perdere i consensi, ed è vero che accettare questa posizione scomoda è inevitabile se si vuole prendere atto della complessità del problema e della sua concretezza. Ed è vero, come ha ricordato Paccosi, che la dobbiamo piantare di descrivere l’immane tragedia delle migrazioni di massa come il prodotto di scelte spontanee (vedi la posizione di Mezzadra, il quale arriva a teorizzare la spinta migratoria come prodotto di una “autonomia” delle masse migranti che rovescia la logica di programmazione capitalistica dell’afflusso di adeguati contingenti di forza lavoro di riserva, applicando la logica operaista secondo cui sono sempre i comportamenti di massa a condizionare quelli del capitale e non viceversa) e prendere atto dell’esistenza di forme di programmazione politica del fenomeno. Aggiungerei un’altra considerazione: spesso chi teorizza da sinistra la deregulation dei flussi finisce per dare per buone le argomentazioni delle sinistre clintoniane: abbiamo bisogno dei migranti perché noi non facciamo più figli e perché l’invecchiamento della popolazione farà sì che non si potranno più pagare le pensioni; e ancora: l’aumento del tasso di differenza culturale è sempre e comunque un fatto positivo. Il primo argomento equivale a legittimare le strategie di governance biopolitica di Merkel e soci (senza chiederci perché non si fanno più figli e perché anche i migranti, dopo un po’ che sono qui, a loro volta non ne fanno più), il secondo è una pura idiozia: le tensioni razziali negli Stati Uniti e in Francia stanno lì a dimostrare che un eccesso di miscuglio culturale tende a produrre conflitto e non arricchimento e l’apologia della differenza è uno sputo in faccia alle paure degli strati inferiori del proletariato che vive come una minaccia l’immigrazione. La xenofobia (cioè la paura dell’altro) non si traduce automaticamente in razzismo (che è convinzione della propria superiorità razziale) e le paure, ancorché alimentate dai populismi di destra, non sono prive di fondamento. È vero, come ha sottolineato qualcuno, che ci sono più tensioni a livello territoriale che sui luoghi di lavoro, tuttavia, come ricorda Loris Campetti in un suo recente libro inchiesta sulla classe operaia di oggi nel quale analizza, fra gli altri, il caso dei cantieri di Monfalcone, non si può non riconoscere che l’uso massiccio e sistematico di forza lavoro immigrata ha generato e genera radicali fenomeni di dumping sociale. Ciò detto, va ribadito che la soluzione va ricercata innanzi tutto nella costruzione di un popolo (vedi sopra) in cui gli interessi di autoctoni e migranti si saldino nella lotta di tutti quelli che stanno in basso contro quelli che stanno in alto. Quindi abolizione della Bossi-Fini, regolarizzazione dei migranti “illegali”, ma senza rinunciare ad affrontare lo spinoso problema della regolazione dei flussi.

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