Catalogna anno zero

Vorrei iniziare queste brevissime note con una definizione del termine “indipendenza”, sostantivo femminile che, secondo lo Zanichelli, è “la capacità di sussistere e di operare in base a principi di assoluta autonomia”. Cioè non è indipendenza una condizione di autonomia limitata dall’appartenere, come entità regionale, ad una entità statuale di livello superiore.
Quindi gli “indipendentisti” catalani non vogliono affatto l’autonomia dentro lo Stato spagnolo. Vogliono l’indipendenza. Tanto che si è prodotta la rottura fra la coalizione di Junts pel Si e Unio, tradizionale partito catalanista favorevole a mantenere una forma di confederazione con la Spagna, che ha corso da solo, dopo essere stato, in passato, alleato del partito del Presidente Mas.
E’ assurdo cercare spazi nella carta costituzionale spagnola per dare qualche boccone di autonomia in più alla fame di indipendenza che si è aperta nello stomaco catalano. La Costituzione spagnola è già avanzatissima in tal senso: riconosce esplicitamente le nazionalità interne, il plurilinguismo, concede alle Comunità Autonome enormi poteri, anche in termini di sviluppo economico locale e di gestione della propria fiscalità (dentro regole di solidarietà) e della propria base infrastrutturale. Oltre tale Costituzione, in tal senso molto avanzata, c’è solo una Confederazione molto lasca che è assai prossima all’indipendenza completa.
Anche analizzare la situazione che si è aperta con il voto di ieri in termini di accordicchi economico-fiscali sulla quota di solidarietà fiscale che la Catalogna paga alle regioni meno benestanti della Spagna significa cercare di stordire un bisonte con un filo d’erba. Certo, la deriva è partita da una richiesta di maggiore autonomia fiscale, sostanzialmente di mantenimento di una maggiore quota delle risorse fiscali generate dal territorio, che il ben noto stratega Mariano Rajoy, fulminato sulla via di Damasco dagli altrettanto noti illuminati della Trojka, ha, con incredibile lungimiranza, rigettato, scoprendo il vaso di Pandora di un indipendentismo meno esplosivo di quello basco, ma sicuramente sempre vissuto sottotraccia (ed anche, in passato, con modesti episodi di terrorismo). Ma oggi quelli che sono usciti sulle Ramblas di Barcellona con le bandiere catalane, festeggiando per il voto, vogliono l’indipendenza, non qualche decimale di autonomia fiscale in più. Creando un enorme problema anche per Mas, un vincitore che probabilmente oggi ha paura della sua stessa vittoria.
Perché la verità vera è che oggi Mas ha pienamente in mano le chiavi per l’indipendenza catalana, a prescindere dal coro di euro-ancelle un tanto al chilo, attivo anche, come sempre, nel campo degli ineffabili socialisti europei, che si aggrappano a stupide alchimie sul numero dei votanti per negare legittimazione all’indipendentismo catalano. Gli stessi cantori dei premi di maggioranza come veicoli per ottenere incredibili maggioranze parlamentari con percentuali modeste di elettori oggi vengono a contestare al fronte indipendentista il fatto che non ha raggiunto il 50% +1 dei voti! I parenti politici di quelli che prima riconobbero e poi accolsero nella Ue l’indipendentismo croato in salsa neo-ustascià e dalla facile pulizia etnica di Tudjman, che alle elezioni indipendentiste del 1990 aveva preso appena il 42% dei voti, ben lontano dal 47,8% preso ieri dagli indipendentisti catalani (in particolare i tedeschi) oggi cavillano sull’impossibilità di poter concedere automaticamente ad una Catalogna indipendente l’ingresso nella Ue. Evidentemente c’è indipendentismo ed indipendentismo. C’è quello che conviene sostenere e quello che va demonizzato, a seconda del contesto geopolitico e storico.
L’indipendentismo catalano ha vinto le elezioni, e questo è un dato di fatto. Peraltro, ha sicuramente la maggioranza assoluta fra i catalani etnici, gli unici che, in caso di indipendenza, sarebbero cittadini del nuovo Stato, poiché i residenti nella regione di origine non catalana (che in caso di indipendenza sarebbero stranieri residenti, senza diritto di voto) fanno evidentemente parte, in massa, del 52% degli elettori dei partiti “unionisti”, gonfiandone notevolmente la percentuale complessiva di voti. Siccome è quantomeno poco significativo che uno che viene da Madrid voti per un tema come l’indipendenza di Barcellona, è il voto dei catalani di sangue o di nascita che conta veramente.
E però il fatto che il 52% dei residenti nella regione, catalani o no, non abbia votato per gli indipendentisti, evidentemente pone un problema. E’ una enorme componente di popolazione, vitale per l’economia della regione, che comunque non collaborerebbe al processo indipendentista. E l’ostilità completa del Governo centrale, appoggiato dall’intero emisfero occidentale, oltre che dai potentati finanziari rappresentati dalla Trojka, richiederebbe, per poter affermare l’indipendenza, un rafforzamento delle capacità militari di autodifesa e una grande autosufficienza economica. Tutti elementi che la Catalogna non ha, essendo integrata, militarmente ed economicamente, dentro la Spagna, e non avendo praticamente nessun alleato internazionale disposto ad aiutarla.
Artur Mas queste cose le sa benissimo e da sempre, non è un ingenuo. Sapendo quindi che l’obiettivo indipendentista è materialmente impossibile da raggiungere, a prescindere dalla legittimazione democratica ricevuta, ha sollevato il polverone indipendentista per rafforzare le sue posizioni, da sempre negoziali rispetto a Madrid, non diverse cioè da quelle di Jordi Pujol, probabilmente sottovalutando la risposta dell’elettorato, oramai abituato a tanti anni di convivenza libera con la Spagna, fuori dalle costrizioni franchiste. I sondaggi della vigilia parlavano di un 40% per gli indipendentisti, non di un 48% che parla di maggioranza assoluta fra la componente catalana vera e propria. Probabilmente adesso l’obiettivo del negoziato con il Governo di Madrid da posizioni più forti è diventato ancor più problematico, perché susciterà una reazione difensiva di ulteriore chiusura, ma soprattutto perché la coalizione variopinta che ha vinto queste elezioni è ingestibile, tenuta insieme solo dall’anelito indipendentista, ma composta da posizioni molto diverse. Già oggi l’imprescindibile alleato di estrema sinistra, il CUP, dissente sulla nomina di Mas a Presidente. La maggioranza che raggruppa movimenti neoliberisti, la sinistra repubblicana e quella radicale rischia di sfasciarsi prima ancora di iniziare a governare. L’unico modo di tenerla insieme sarà quello di tenere sempre vivo l’impulso indipendentista, che è l’unico a tenere uniti tutti i soci, alle spese della vocazione trattativista che ha sempre contraddistinto Mas.
In altri termini, il vincitore si trova fra l’incudine di una indipendenza materialmente impossibile e il martello di una maggioranza che reggerà soltanto se il processo indipendentista continuerà, oltre che di un popolo catalano che ha mostrato una voglia di indipendenza superiore alle aspettative della vigilia. Come uscirne? Non è facile dirlo. E’ presumibile che ci sarà un percorso abbastanza breve e violento di logorio istituzionale durissimo fra Governo centrale e Governo regionale, che acuirà le tensioni sociali ed etniche in tutta la Spagna, e che alla fine la maggioranza-arlecchino che ieri ha vinto a Barcellona si diluirà, lasciandosi dietro un codazzo di tensioni, delusioni e revanscismi che certo i futuri, possibili governi nazionali podemisti-socialisti delle buone intenzioni, che cercheranno di buttare lì qualche boccone di autonomia fiscale fuori tempo massimo, non riusciranno a tenere sotto controllo. Un processo che rischia di disintegrare, alla lunga, un Paese provato dalla crisi economica, dalla disillusione per la sua classe dirigente, che non risparmia più nemmeno la monarchia.
Una lezione, però, rimane per tutti noi europei. Ed è una lezione fondamentale, primaria. La incessante retorica globalista dell’ultimo ventennio, del quanto è bello buttare nella pattumiera della storia gli obsoleti Stati-nazione, che puzzano troppo di terra e di sangue per i fini odorati di Lorsignori i finanzieri (e dei loro paggi travestiti da progressisti e socialisti) produce una enantiodromia (vedi dizionario). Dal basso, dai territori, dalle piccole nazioni, inizia, seppur timidamente, a sentirsi una voce che dice basta. Che non vuole perdere le sue radici. Non è un marginale fenomeno di popoli balcanici alle prese con vendette secolari, in Scozia, nella Gran Bretagna che è fuori dalla gabbia dell’euro e non subisce la crisi nella stessa misura dell’Europa continentale, ha coinvolto il 45% degli elettori al referendum del 2014 (anche in questo caso, in un referendum in cui hanno potuto votare persino i militari inglesi di stanza in Scozia). Possiamo anche considerare questi segnali in modo sprezzante, come residui semi feudali di un mondo che non esiste più e non vuole morire. Ma allora non siamo più uomini o donne di sinistra, atteso che il diritto all’autodeterminazione nazionale è un tratto fondamentale del pensiero della sinistra, sin da quando Marx si occupava della questione irlandese, passando per le chiare parole di Lenin sull’autodeterminazione dei popoli. E non siamo più dentro un pensiero di sinistra, perché il voto indipendentista proviene, spesso, dalle classi popolari che dovremmo rappresentare, invece che demonizzare, costruendo un odioso senso di superiorità da radical-chic su ceti popolari trattati alla stregua di vil marmaglia nazionalista (e che quindi, abbandonati da una sinistra troppo “superiore”, spesso finiscono per rivolgersi al peggiore demagogismo di estrema destra). Considerando peraltro i bei risultati sociali ottenuti dal globalismo e dall’eurismo da tifosi che contraddistinguono ampie aree della sinistra, sarebbe forse il caso di cominciare a prendere sul serio quello che è successo in Catalogna, anziché starnazzare terrorizzati sul rischio di collasso dal basso dell’area-euro (che se non avverrà per motivi sociali o etnici, avverrà per motivi economici) perché questo costringerebbe a dover abbandonare teorie di internazionalismo proletario concettualmente valide ma mal interpretate e declinate cui si è attaccati come Linus alla sua coperta infantile.
La Catalogna oggi, molte altre realtà regionali e nazionali domani, continuano a dirci che dobbiamo scegliere fra il rimanere attaccati a rassicuranti ma sterili feticci, equazioni indimostrabili assunte come assiomi indiscutibili (come ad esempio internazionalismo = pace, salvo fremere ad ogni missile aria-terra sganciato da un cacciabombardiere contro uno Stato sovrano, oppure internazionalismo=solidarietà, salvo poi perdere il posto di lavoro per una decisione presa a migliaia di chilometri di distanza) o provare a crescere, ed identificare l’avversario di classe, che è un capitalismo sempre più globalizzato. La scelta non è indifferente: o provare a tornare a parlare al cuore delle classi popolari, oppure morire nel minoritarismo (in una elezione fortemente connotata dal tema nazionale come quella catalana, gli alfieri del nuovo progressismo podemista-iglesista-socialista-europeista-antinazionalista-pacifista-solidale hanno preso una legnata elettorale non indifferente). Freud descriveva la pulsione alla morte, Thanatos, come il desiderio di concludere la sofferenza e la fatica della lotta e tornare al riposo, alla tomba. Evidentemente ce n’è parecchia nella neo-sinistra europea.

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