La sfida per la vita del progressismo latinoamericano: il caso del Brasile

Con l’ingresso in recessione, e l’annuncio di pesanti misure di austerity di bilancio, il modello progressista brasiliano, avviato dal 2003, con la vittoria elettorale di Lula e del Partido Dos Trabalhadores, e proseguito con la Rousseff, entra in una grave crisi di identità. La risposta, completamente sbagliata, al downgrading del rating del Paese è quella di avviare una politica di austerità finanziaria, che non potrà che far cadere il Paese, ed il PdT, nella trappola tesagli dalla finanza internazionale. A colpi di austerità, il modello brasiliano avrà una grave involuzione, e la sua sinistra, come avvenuto in Europa, si autodistruggerà.
Parliamoci chiaro. Rimanendo nell’ambito della gestione economica del PdT di questi anni, le colpe reali che possono esserle imputate consistono principalmente nel non aver sviluppato a sufficienza una industria di sostituzione delle importazioni, nonché una industria esportatrice in grado di ridurre la dipendenza della bilancia commerciale brasiliana dalle commodities alimentari e minerarie, i cui prezzi sono fissati in mercati internazionali del tutto che costituiscono più del 55% delle esportazioni del Paese. Senza ciò, non è possibile assicurare l’indipendenza economica, e quindi politica, del Paese.
La corruzione è un altro male endemico del Brasile, che sottrae enormi risorse allo sviluppo, o distorce le scelte di investimento. Certo, questa non è colpa né di Lula, né della Rousseff, né del PdT, esiste da sempre, però ben poco è stato fatto per estirpare tale male negli ultimi 12 anni, ed anzi non di rado l’apparato tecnocratico legato al partito di potere si è fatto prendere con le mani nel sacco. Non basta contrastare il fenomeno con leggi che prevedono pene più severe, serve una minore incidenza della burocrazia, laddove essa è inutile, ed un cambiamento culturale nelle abitudini, che però la sinistra deve saper dare, nel momento in cui prende il potere.
Per il resto, francamente, la storia economica dei governi socialisti brasiliani degli ultimi 12 anni è quella di un Paese che sta recuperando competitività, anche se non sempre coerentemente con quelli che dovrebbero essere i programmi di governo di una sinistra, ad esempio in materia educativa o di diritto del lavoro. Però, circa 38 milioni di persone sono state strappate alla povertà più estrema con la Bolsa Familia, un enorme sforzo di risanamento edilizio è stato portato a termine con il programma “Minha Casa, Minha Vida”, in un quadro macroeconomico che, nonostante il possente stimolo alla domanda aggregata, è rimasto piuttosto solido, con un rapporto fra debito pubblico e PIL che non supera il 65%, un disavanzo sul PIL, come effetto di trascinamento degli enormi investimenti fatti in occasione dei Mondiali, pari ad appena mezzo punto percentuale, un tasso di inflazione che viaggia attorno al 6,5%, quindi è tutto sommato sostenibile, enormi progetti infrastrutturali, come i nuovi collegamenti viari con Venezuela, Guyana francese, Bolivia e Paraguay, la ferrovia di integrazione est-ovest e la Transnordestina, i progetti di messa in navigabilità dei fiumi, ad iniziare dal Rio delle Amazzoni, l’anello ferroviario di San Paolo, ed i grandi progetti legati ai Mondiali (potenziamento della rete di banda larga nelle principali città, potenziamento del 36% del parco aeroporti) avranno, in futuro, rilevanti impatti positivi sul tasso di sviluppo potenziale del Paese e sulla sua interconnessione con gli altri Paesi dell’area, fondamentale per creare un’area economica in grado di dare più concretezza al Mercosur, e resistere ai persistenti tentativi statunitensi di ricostruire forme di neoimperialismo economico. Il Paese è entrato nell’industria a medio-alto contenuto tecnologico con imprese a capitale nazionale (come l’Embraer nell’aerospaziale) o con tentativi di “nazionalizzare” parzialmente alcuni settori industriali, come il piano Inovar Auto, che favorisce fiscalmente chi produce automobili dentro il Paese, utilizzando componenti fabbricate da subfornitori brasiliani e facendo ricerca e sviluppo con il sistema della ricerca brasiliano, per acquisire competenze tecnologiche nel settore automotive. Tali sforzi sono insufficienti, come detto, per superare la tradizionale dipendenza produttiva del Brasile dall’esterno, ma sono comunque indicativi di una capacità di fare politiche industriali superiore a quella di molti Paesi europei, ivi compreso il nostro.
Le lamentele su un mercato del lavoro troppo dirigista e protetto sono smentite dai fatti: rispetto all’area-euro, la crescita dei salari in Brasile è sistematicamente più bassa mentre la produttività del lavoro è dal 2009 in crescita più dinamica rispetto a quella europea, perdendo terreno solo nel 2013 (cfr. tradingeconomics.com). Al contrario, uno dei problemi è che il mercato del lavoro brasiliano è proprio la sua progressiva flessibilizzazione e precarizzazione, dal modello del diritto del lavoro consolidato dentro la Costituzione creato dal governo (fascista) di Vargas ad oggi, che neanche i governi progressisti di Lula e della Rousseff hanno voluto invertire in modo deciso.
In verità, l’entrata non dipende da un corpo economico malato, ma principalmente da cause esterne: il tracollo dei prezzi del petrolio e delle commodities, che ha inciso sulle esportazioni, il rallentamento macroeconomico cinese, che è il principale partner commerciale del Brasile, la progressiva ed annunciata fine del tapering, che ha prodotto enormi fughe di investimenti esteri. La politica economica del PdT non ha compreso che l’indipendenza economica del Paese non dipende solo dal sostegno alla domanda interna, e quindi dallo sviluppo di un mercato interno, ma anche da una politica scolastica e per l’istruzione che migliorasse la qualità della scuola pubblica, anziché puntare sulla sua privatizzazione e sulla creazione di sempre più preoccupanti dualismi di classe nell’accesso ad una istruzione di qualità, da un più intenso processo di diversificazione della base industriale e da una maggiore collaborazione infrastrutturale, commerciale ed economica con gli altri governi progressisti latinoamericani.
Ciò che sta succedendo al governo socialista brasiliano, in realtà, è una involuzione profonda, e peraltro di lungo periodo, inscritta già nel periodo di potere di Lula, ma decisamente acceleratasi con la Rousseff, del suo originario programma socialdemocratico. E’ una tendenza che sta attraversando tutta la sinistra latinoamericana, che potremmo chiamare un cambiamento profondo di paradigma del progressismo latinoamericano, e che lo spinge verso un moderatismo, social-liberale nel caso dei Governi socialdemocratici, e verso un modello simil-cinese nel caso dei governi più radicali.
I motivi di questo spostamento sono molteplici: la difficoltà oggettiva di governare realtà molto difficili con le chiavi ideologiche “pure” della sinistra, con l’obbligo di fare adattamenti pragmatici (un esempio lampante è fornito dalla decisione del boliviano Morales di “legalizzare” il lavoro minorile, cercando in realtà di dare un minimo di cornice legale ad un fenomeno inestirpabile e diffusissimo, ed in fondo anche le liberalizzazioni parziali decise a Cuba sono un ulteriore esempio) l’irrompere di una figura mediatica e politica molto forte come quella di Papa Bergoglio, che ridisegna in senso conservatore il rapporto fra governi laico-socialisti e Chiesa (si veda la svolta antiabortista del governo sandinista del Nicaragua oppure del Governo di Correa) la scomparsa dalla ribalta (o dal mondo) di leader simbolici della sinistra latinoamericana, come Chavez, per la sua componente più radicale, o come Kirchner, per quella socialdemocratica, sostituiti spesso in modo mediocre dai successori (la stessa Rousseff è lontana da Lula), oppure resuscitati nazionalismi economici, non di rado fomentati dagli Usa, o più in generale dalle multinazionali che investono in America Latina ed hanno interesse a suscitare questi antagonismi, trovando base fertile in movimenti politici nazionali intrisi di nazionalismo prodotti nella fase di liberazione nazionale di quei Paesi (un esempio è stato il duro conflitto fra Argentina ed Uruguay per la scelta localizzativa di una cartiera spagnola, alimentato dal parossismo nazionalistico del peronismo al potere con la Fernandez, che ha rischiato uno sbocco militare, e comunque gravemente danneggiato l’industria turistica uruguayana, peggiorando il clima fra i due Paesi per molti anni, compromettendo anche i progressi del Mercosur).
Accanto a questi fattori, nei Paesi che hanno sperimentato un maggiore successo economico, in termini di crescita, o che comunque avevano basi sociali e produttive di partenza capitalisticamente più progredite, quindi in Brasile, in Argentina o in Uruguay, e per certi versi anche il Cile (che però ha problemi specifici di fuoriuscita da un modello liberista che deriva ancora dal regime militare) si pone un fattore specifico, grosso come una casa: la ricostituzione di una classe media, resa possibile dal successo delle politiche di contrasto alla povertà e di “vivienda”, pone al centro dello scenario politico nazionale di quei Paesi una domanda sociale di legalità, stabilità, opportunità di benessere personale e quindi liberalizzazione delle strutture economiche. Una domanda tendenzialmente di destra, che magari non vuole rinunciare alle conquiste sociali ottenute durante la fase più propriamente progressista delle sinistre nazionali, ma che guarda anche a elementi di liberalismo economico e sociale, per cercare una sintesi social-liberista, che sposta il baricentro politico-elettorale. Il fenomeno Marina Silva, che con una proposta centrista, attenta ai ceti medi emergenti del Paese, ha potuto rappresentare un importante competitor per la Rousseff, testimonia di tale deriva.
Di fronte a questo spostamento di asse politico prodotto dallo stesso progresso sociale in tali Paesi “di testa”, i governi di sinistra latinoamericani faticano a trovare una sintesi, e spesso sono tentati dall’inseguimento al centro, che, snaturandone le politiche, finisce per eroderne la base sociale tradizionale, senza conquistare nuovo consenso nei ceti emergenti, che li vedono comunque con sospetto. La soluzione, comunque difficilissima, sarebbe quella di continuare ad approfondire le conquiste sociali ottenute per gli ultimi, identificando e curando anche le nuove povertà (in Argentina, ma anche in Brasile, emergono nuove fasce di esclusione sociale costituite da lavoratori che perdono il posto a seguito della rapida riconversione produttiva dell’economia verso il terziario evoluto e il medium e high tech, e che, non essendo nel gruppo dei più poveri che sono stati seguiti sin dall’inizio dai programmi di assistenza alimentare, sanitaria ed abitativa, si ritrovano di fatto sguarniti rispetto all’offerta welfaristica esistente) proponendo al contempo quella giusta dose di sburocratizzazione e liberalizzazione che risponda ad una parte della domanda dei ceti emergenti, senza però perdere il controllo pubblico della direzione delle politiche economiche e dei settori produttivi strategici. E soprattutto sapendo fare politiche industriali mirate alla costruzione di una forte industria nazionale di sostituzione delle importazioni, e di diversificazione delle esportazioni, oltre le tradizionali materie prime agricole e minerarie, avvalendosi inizialmente di capitali e know how straniero, da incorporare a quello nazionale con metodi simili a quelli usati, nel dopoguerra, da giapponesi e sud coreani.

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