Osservatorio internazionale: UE, Germania, Italia (Foibe), Ucraina, Spagna, Afghanistan

EUROPE

“Ma l’Europa non c’è”!  E’ il lamento quotidiano degli opinionisti; che ha il vantaggio di esimerli dal compito, troppo impegnativo, di spiegare perché non c’è e cosa dovrebbe fare per esistere.

In compenso, ne esistono tante e in disaccordo l’una con l’altra.

Bilancio. Nell’ottica  del “più Europa”, che i suoi attuali gruppi dirigenti dichiarano di volere, a maggiori impegni ( ambiente, ricerca e così via) dovrebbero corrispondere maggiori spese. In realtà, il conclamato obiettivo di destinare al bilancio dell’Ue l’1.09% del pil europeo (contro l’1.07% attuale) sembra difficilmente raggiungibile.

Primo perché, per raggiungerlo, occorrerebbe in primo luogo compensare le minori entrate ( per 60 miliardi di euro) legate all’uscita del Regno Unito. E qui l’unica proposta sul tappeto ( versino tutti lo 0.1% in più del loro pil) è stata  respinta con sdegno, in particolare dai paesi dell’Est.

Ancora maggiori polemiche suscita la proposta finlandese di tagliare, rispettivamente, del 12 e del 14% i fondi destinati alla “coesione” e all’ agricoltura  ( per riservarli alla ricerca e alla riconversione verde dell’economia). Proposta bocciata da maggioranze diverse; ma per rimanere la sola sul tappeto.  In una situazione bloccata.

Rapporti con la Cina. Su questo Pompeo è stato ancora più esplicito della Pelosi. Se non si chiude a Huawei, gli Usa sono pronti a rimettere in discussione l’Alleanza atlantica. Gli europei non hanno detto né si né no; anche perché sono divisi sull’argomento – chi come l’Italia e l’Ungheria, per il sì; chi -come la Gran Bretagna – per un sì limitato; chi incerto, in varie sfumature che vanno dalla disponibilità alla chiusura; chi , Polonia in testa, pregiudizialmente ostile.

Migranti. Cinque diverse posizioni, come l’anno scorso, in materia della collocazione degli arrivi nei paesi di “primo accesso”. Una situazione che porta oggi la Grecia sull’orlo del collasso e i migranti in condizioni che “non ti fanno dormire la notte” ( così il commissario europeo Johansson). Su Dublino, nessun passo avanti. In compenso, una forte stretta, ora anche in Danimarca e nei pesi scandinavi,  sul  tema rifugiati. Nessuna missione europea nel Mediterraneo ( Sophie non ha cambiato nome, ma dimora; d’ora in poi dovrebbe pattugliare le rotte cirenaiche, da cui, com’è noto, non passano persone ma armi).

Politica economica e finanziaria. Qui gli schieramenti sono belli e pronti:  all’attacco dell’austerity e dell’ortodossia economico-finanziaria, la Francia e i paesi del Mediterraneo; sul fronte opposto anseatici e paesi dell’Est, tanto più impegnati  a difendere lo status quo  perché privi della copertura inglese. Tutti e due peraltro fermi sui blocchi di partenza ; in attesa che si risolva, in un senso o nell’altro, la partita in corso in Germania.

Politica estera e di difesa. Qui il silenzio, o almeno quello ufficiale, è assoluto. Come dimostra la totale mancanza di reazioni nel caso Soleimani. Un tempo avremmo potuto attribuirlo all’assenza di strumenti o a specifiche diversità di vedute e di interessi. Mentre oggi sono in ballo la crisi dell’ordine mondiale, il ruolo degli Stati Uniti come garante unico del medesimo e le scelte che dovrebbe compiere l’Europa per non esserne travolta. Qui, la Francia ha scoperto le sue carte:  ridiscutere obiettivi e strategie della Nato, inserire la Russia nel concerto europeo, costruire strumenti autonomi di difesa europea, non impiccarsi sulla richiesta di aumento delle spese per la difesa e altro. Anche qui reazioni infastidite, opposizioni nette e totale cacofonia da parte di Berlino:  aperture dalla Spd ( o da parte di essa), ripulse di altri, silenzio/ dissenso dall’ufficialità.

Lo stesso vale per le proposte, sempre francesi, tendenti a rafforzare le istituzioni e le politiche comuni. E sempre ferme ai blocchi di partenza. A conferma del venir meno dell’asse franco-tedesco, da decenni al governo della nave.

Alla  base della paralisi non è la soddisfazione per l’ordine esistente. Tutt’altro. E’ piuttosto un trauma legato al venir meno di questo ordine; di più la  crescente, anche se inconfessata, convinzione che non ci sarà nessun ritorno alla normalità, a partire dall’esito delle presidenziali americane.

Proprio per questo, il luogo deputato della paralisi è la Germania. Trent’anni  fa cardine e beneficiaria del nuovo ordine europeo; oggi, vittima designata del “partito americano”.

 

GERMANIA

I guai della Turingia e altri guai, la crisi del vecchio ordine

L’elezione di un presidente liberale con i voti dell’Afd non è stato il frutto di un incidente di percorso ma di un accordo preciso. Occorrevano i voti dell’Afd per impedire al leader locale della Linke di tornare al governo della Turingia. E questi voti sono stati chiesti e dati. In nome della nota dottrina degli “opposti estremismi” che contiene in sè una regola ma anche le sue eccezioni: la regola essendo quella di combattere tutti e due; mentre l’eccezione consente, sempre in casi eccezionali, di allearsi o meglio di fruire dell’appoggio esterno di uno dei due per combattere l’altro.

Nel caso specifico i democristiani dell’Est hanno come “estremisti principali” quelli della Linke, cioè “i comunisti”; e hanno capito che nei Land della vecchia Repubblica democratica, se non puoi ricorrere all’aiutino esterno non vai da nessuna parte. Perciò, i dirigenti democristiani della Turingia hanno sì chinato il capo di fronte al veto della dirigenza Cdu; ma non si sono affatto pentiti, anzi.

Resta da capire perché questo episodio abbia suscitato reazioni a catena nella Cdu; fino a rimettere in discussione l’eredità politica della Merkel con l’uscita di scena della Kramp-Karrenbauer e la totale incertezza sulla futura linea politica del partito. E sulle sue alleanze.

Il fatto è che la costituzione tedesca, formale ma anche materiale, non ammette l’esistenza  di formazioni estremiste. Sino al punto di avere costituito uno speciale ufficio – chiamato, non a caso, Ufficio di Protezione della Costituzione –  incaricato di vegliare sulle attività e sugli orientamenti delle varie formazioni politiche, sino a proporne, all’occorrenza, lo scioglimento. Controllo superato, peraltro, sia dalla Linke, composta anche da gruppi revisionisti provenienti dalla vecchia Sed sia, più recentemente, dalla stessa AfD, individuata, a mio avviso correttamente, come ritorno sulla scena del tradizionale nazionalismo tedesco, contiguo al nazismo ma non fino al punto di esserne l’erede (su questo aspetto consiglio a tutti di leggere l’intervista a a Hocke pubblicata nel numero di Limes dedicato alla Germania).

In questa scelta c’era anche la consapevolezza che l’irrompere di AfD era il frutto inevitabile di un processo storico con cui occorreva fare i conti e che rimetteva in discussione il ruolo centrale  che, nella veste di oppositori o di alleati, avevano svolto, per oltre sessant’anni, democristiani e socialdemocratici o, detto in altri termini, che il sistema politico, così come ipotizzato nell’immediato dopoguerra, non era più in grado di reggere.

Allo stesso modo, gli altri pilastri del “modell Deutschland”, sapientemente costruito nel secondo dopoguerra ( e basato, essenzialmente, sulla volontà di non ripetere gli errori che avevano portato alla caduta della repubblica di Weimar), sono oggi rimessi in discussione: che si tratti del modello renano o dell’ortodossia economico-finanziaria, della coesistenza tra potere economico e nanismo politico o dell’atlantismo/europeismo senza se e senza ma.

A questo punto l’alternativa è, come nell’Italia dei primi anni novanta, tra rinnovamento consensuale del sistema e sua deflagrazione. Noi italiani mancammo clamorosamente all’appuntamento. E ne paghiamo ancora le conseguenze. In Germania la posta in gioco è assai più alta ; ma sono di gran lunga maggiori le risorse disponibili per gestire al meglio la partita. E la volontà di farvi ricorso.

 

ITALIA

Foibe

Oggi sta accadendo in Italia ciò che non pensavamo potesse accadere. Sta accadendo che la destra usi strumentalmente la tragedia delle foibe per dare addosso al nemico esterno di allora ( e magari anche di oggi), gli slavi, i comunisti, e con all’avallo delle istituzioni locali e nazionali; con l’auspicato effetto collaterale di dare addosso alla sinistra di allora e magari anche di oggi come “antinazionale”.

Ma, a questo punto, sarebbe bene rinfrescarci tutti la memoria. In particolare per la destra; ma anche per noi. Alla destra va ricordato che la giornata dedicata alla memoria dei nostri fratelli istriani fu il frutto di  uno dei tanti accordi, in merito alla gestione della memoria, raggiunti, negli anni a cavallo tra i due secoli, tra il Pd e An ( il cui leader, Fini, aveva ripudiato il fascismo, e riconosciuto le superiori ragioni dei protagonisti della Resistenza e della Liberazione). In questo quadro e solo in questo quadro fu possibile oltre che giusto onorare la memoria delle nostre vittime e rompere il colpevole muro di silenzio intorno alla loro vicenda; tenendo ben fermo, sull’altro versante, la responsabilità del regime fascista nelle persecuzioni subite, prima e durante la guerra, dal popoli della ex Jugoslavia in generale e dagli sloveni in particolare.

Ora, quanto detto e scritto in questi giorni viola le lettera e lo spirito di quell’intesa. Scompaiono, infatti, il fascismo e le sue colpe; che sono poi anche quelle dell’Italia fascista  e degli italiani.  Mentre rimane l’immagine di un crimine compiuto contro gli italiani e l’Italia ma non del contesto in cui è avvenuto. E di una destra che di questa memoria e del suo uso politico diventa l’ unico legittimo titolare.

Pure a questo esito, la sinistra ha in qualche modo contribuito. Sua, infatti, la distinzione tra il fascismo, responsabile unico di ogni crimine e l’Italia, classi dirigenti e popolo, per definizione innocenti. Sua l’immagine degli “italiani brava gente”, in cui scomparivano dai nostri schermi, assieme ai criminali, i crimini: archiviati se non dimenticati, la repressione feroce della rivolta libica, l’uso massiccio del gas in Etiopia e le rappresaglie del macellaio Graziani, i crimini di guerra in Slovenia e i generali che li hanno ordinati, e ancora e ancora. E, allora, se esigiamo l’oblio per noi, questo dovrebbe valere anche per gli Jugoslavi; se non altro, in nome della riconciliazione e del nostro comune futuro.

 

UCRAINA

Dalla semiguerra alla semipace

In Ucraina qualcosa si sta muovendo in quest’ultima direzione. Anzi molte. C’ è Zhelinsky, russofono e pure ebreo: risoluto nel ritenere la scissione del Donbass una questione interna ( e non il frutto di un’aggressione russa) e nel volerla risolverla con mezzi pacifici; c’è lo scambio di prigionieri; c’è il ritiro delle armi pesanti dalle “zone calde”; c’è la proposta di elezioni sotto controllo Osce ( accettata da Mosca); c’è la resituzione delle navi sequestrate e la liberazione dei marinai; c’è l’apertura di nuovi varchi; c’è soprattutto il rinnovo dell’accordo sul gas (riapertura del transito, prezzi concordati, pagamento degli arretrati da parte di Mosca); e, infine, c’è un nuovo attivismo da parte del firmatario/garante europeo  dell’accordo di Minsk; c’è il nuovo responsabile a Mosca per la gestione dei rapporti con Kiev.

Ma questo movimento è lungi dal costituire un processo. Al punto che ogni conquista è soggetta a discussione e ridimensionata; e che il quadro politico complessivo in cui inserire l’accordo è lungi dall’essere definito.

Contano qui le resistenze dell’opinione pubblica ucraina, ancora contraria, in maggioranza, ad uno statuto speciale per il Donbass e a un’amnistia. C’è sempre, eccome, “la patria come ultimo rifugio dei mascalzoni” ( fascisti ucraini, con scarsissimo consenso popolare ma con grande capacità di nuocere, mercenari di ogni ordine e grado, autoproclamati dirigenti dello stesso Donbass, mercanti d’armi, fanatici di passaggio, dirigenti politici corrotti che sulla semiguerra ci inzuppano il pane). Ci sono gli americani. E tutti quelli che, per un motivo o per l’altro hanno interesse a che lo stato di crisi duri il più a lungo possibile. C’è il grande alibi dell’annessione della Crimea.

Ma c’è soprattutto il grande silenzio sulla questione di fondo. E cioè sul fatto che il conflitto è esploso come reazione preventiva di Mosca in vista di un evento che la Russia ( chiunque la guidasse) riteneva esistenzialmente intollerabile: l’entrata nella Nato di un’Ucraina superarmata grazie ai buoni uffici di Washington.

Un’ipotesi che andrebbe chiarita una volta per tutte. In un senso o nell’altro. Per allontanarla definitivamente dall’orizzonte così da arrivare ad una distensione generale. O per adottarla con chiarezza assumendosi tutta la responsabilità per le sue conseguenze.

 

NOTIZIE, NOTIZIOLE E NOTIZIACCE

AFGHANISTAN

E’ stato definita, nelle sue grandi linee la bozza di un accordo che coinvolga non solo americani e talebani ma anche il governo di Kabul

Si tratta, sostanzialmente di un accordo sul metodo e sui tempi. Sette giorni per mettere in campo un generale”cessate il fuoco”; verificato il quale l’avvio, concordato, di un più generale processo di pacificazione.  Sempre alla stessa data, formazione delle due delegazioni afghane per la definizione dell’”accordo interno”; un modo, singolare ma efficace, per ignorare il fatto che, a cinque mesi data, non si sa ancora chi ha vinto le elezioni presidenziali del settembre scorso.

Come si vede, si vola basso; al punto di lasciare al tempo e al negoziato la soluzione dei problemi di fondo.

Ma, di questi tempi, volare basso conviene. E in tutti i sensi.

 

SPAGNA

Come si sa, la Spagna è stata la prima ad obbedire alle intimazioni di Washington, riconoscendo Guaidò come legittimo presidente del Venezuela. Come non si sapeva, da allora in poi, i suoi buoni uffici sono stati sollecitati, in particolare da Maduro per arrivare ad una soluzione negoziata della crisi, tramite elezioni monitorate dalla collettività internazionale; una cosa di cui lo stesso Guaidò non vuol proprio sentir parlare. Come non si sapeva, ma poi Maduro ha ampiamente divulgato, la Spagna, assieme al Messico e all’Argentina, sta operando in questa direzione; a sostegno di questa tesi, un incontro, all’Aeroporto di Madrid, tra rappresentanti dei governi venezuelani e spagnoli.

Dopo, apriti cielo. Guaidò, anche perché praticamente disoccupato in Venezuela, si è precipitato a Madrid.

E non per chiedere smentite; ma rassicurazioni sul suo rango. Per sentirsi dire che lui rimane, per Madrid, il legittimo presidente.

A riprendere il contrattacco il presidente del Pp ( oggi ai ferri corti con Sanchez al punto di bloccare il rinnovo di fondamentali istituzioni pubbliche) , chiedendo ulteriori chiarimenti:” In che veste”ha chiesto,” riconoscete Guaidò; come legittimo presidente o come leader dell’opposizione “?

“In tutte e due”, gli è stato risposto. Il che significa che Madrid riconosce Guaidò dal punto di vista protocollare: e discute con lui, ma anche con Maduro, in veste di leader politico.

Dai tempi di Moro non si era mai sentito nulla di così equivocamente meraviglioso…

 

DESTRA E AMBIENTE

La Le Pen e i suoi confratelli hanno sposato la causa dell’ambiente.

Su questo non dovrebbero esserci problemi. Anche Hitler era ambientalista; nel più ampio senso del termine.

Risultato immagini per Merkel e Macron immagini

Fonte foto: Linkiesta (da Google)

 

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