Tigri di paglia

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Foto: Spiegel

Riceviamo e volentieri pubblichiamo:

Tempo fa mi è capitato di leggere una di quelle numerose vignette che compaiono sulla news feed di Facebook, la quale faceva osservare come durante il nazismo i tedeschi non fossero consapevoli di vivere quel periodo e di essere nazisti, e che molto probabilmente solo le generazioni future rispetto a quelle dell’epoca, non essendo coinvolte con gli eventi e con le idee che caratterizzano il presente, sarebbero state in grado di offrire un giudizio ed un’analisi critica obiettiva su quelle stesse idee e quegli stessi eventi. Applicando questo concetto non ad un intero popolo ma ad una singola persona, si può capire come il cammino verso la piena coscienza di sè possa essere lungo e tortuoso.

Sono profondamente convinto che la socialità sia centrale per l’identità di un essere umano, fino al punto di rappresentare per esso una necessità. Perciò con fatica e solo dopo molte frustrazioni riusciamo a prendere la giusta distanza dalle nostre esperienze per osservare e capire con un certo distacco gli impedimenti che ci precludono il raggiungimento di uno stato di appagamento di tali necessità, come il riconoscimento e l’approvazione sociale. Per quanto mi riguarda ero figlio di immigrati, gente di estrazione povera e operaia che aveva trovato una temporanea tregua dagli affanni in una città del nord Italia. Nonostante mio padre fosse veneto, le mie origini meridionali erano comunque evidenti, tradite dal mio aspetto e dal mio carattere. Soprattutto avevo un pessimo gusto nel vestire. Onestamente non avevo grandi scelte in merito, ma pensate che ciò mi importasse? Niente affatto, non me ne curavo. Credo ora che i miei jeans bucati in qualche modo potessero reggere il confronto con la moda, almeno fino a quando qualcuno avesse indagato sulla marca, e almeno durante l’inverno un maglione poteva coprire una maglietta anonima. Ma perché avrei dovuto curarmi del mio aspetto? Ero convinto che la gente potesse apprezzarmi per quello che ero, la mia intelligenza, le mie potenzialità, entrambe non eccelse, a dire il vero, ma per lo meno solo mie. Niente affatto ancora. Quanto di più immediato e rivelatorio delle proprie origini e del proprio ceto sociale vi è del proprio aspetto e dei propri vestiti? Da ciò la gente è abile nel formulare un giudizio sommario che per loro è apprezzabilmente preciso.

Sospetto che per un po’ di tempo la mia ingenuità in qualche modo mi abbia protetto, impedendomi di interpretare e quindi subire ancora di più il disprezzo e il rifiuto, in un periodo in cui, cercando l’altrui approvazione, scoprire che dipendeva da fattori sociali ed economici, che non consideravo affatto degni di attenzione, o dalle mie origini, che non potevo modificare, sarebbe stato per me una grande delusione. Ora naturalmente non me ne curo. La lotta di classe, nonostate abbia da sempre dovuto subirla, è diventata per me fondamentale, degna di essere vissuta, i vestiti logori sono diventati una divisa e un segno distintivo da cui non mi separerei volentieri, perché mi aiutano a vedere ciò che la gente nasconde dietro l’apparenza.

Tutto ciò ha un prezzo. Mi capita, ad esempio, per il mio aspetto severo ed allo stesso tempo dimesso, il mio essere fuori da schemi comunemente accettati, di essere additato e cacciato dalle bigotte, dalle devote cattoliche e dalle perpetue come un disgraziato, cioè uno senza grazia di dio. Oppure non è raro che io, e altri reietti come me, offriamo il destro alle gentil dame che bazzicano i mezzi pubblici per rivendicare il loro diritto ad usufruire in quanto donne di un posto a sedere. A Genova delle targhe invitano a cedere i posti a sedere alle donne, agli anziani e agli invalidi. Nulla da dire sulle utime due categorie, ma per il resto? Una discriminazione basata sul sesso richiama alla memoria discriminazioni razziali, come quella che obbligava gli afroamericani a prendere posto nel retro del mezzo e a cederlo qualora fosse loro richiesto da un bianco. Oggi, a Genova, non importa se quell’uomo, che tu donna hai adocchiato come usurpatore di un diritto che ritieni fondamentale, si sia accasciato su una sedia vuota perché stremato da una giornata di lavoro sottopagato in un cantiere navale o in un’ officina il cui proprietario ha la faccia tosta di vantarsi del fatto di offrire due soldi ad un disperato immigrato. Ritieni di avere il potere di esercitare un tuo diritto e lo usi contro quello che i tuoi occhi velati dall’odio dell’ideologia femminista ritengono un degno rappresentante di quel genere maschile che opprimerebbe le donne da tempi immemori. Molto probabilmente quel poveraccio è preso di mira non tanto perché di quel genere è degno, quanto perché ne è il capro espiatorio più agevole, l’obiettivo più semplice per diventare oggetto della tua viltà. Episodi simili sono alquanto ordinari. Mi sentii toccare la spalla due, tre volte, un giorno in cui avevo ceduto ad un malessere e, contrariamente alle mie abitudini, mi accasciai su una sedia. “Si alzi, mi serve quel posto”, mi comandò una donna dallo sguardo torvo e risoluto quando mi volsi per cercare l’origine di quel contatto improvviso. La guardai sorpreso ma mi accorsi che un moto di insofferenza si stava propagando dalla donna agli altri passeggeri. “E alzati, non hai sentito?”, disse non molto distante un uomo dal vestito curato ed il ventre prominente. Dovetti alzarmi, per evitare di essere aggredito. La donna si sedette e rivolgendomi uno sguardo compiaciuto mi disse: “Scendo alla prossima fermata. Dopo che mi sarò alzata potrà sedersi”. E così fece, dopo neanche un minuto. Rimasi in piedi fino alla fine del viaggio.

Inutile dire, ma necessario precisare, che non mi sono mai sentito, in quanto uomo, cioè solo per il fatto di essere tale, membro di una classe privilegiata. Non è facile gettarmi fumo negli occhi con slogan o retoriche sessiste.

In vita mia, per triste tradizione famigliare, ho svolto prevalentemente lavori da operaio e di fatica. Alla Fincantieri, ad esempio, il cantiere navale dove ho prestato servizio come saldatore per un tempo relativamente breve, non ho visto alcuna donna. Gli operai, nonostante tra loro ci fossero delle distinzioni nette determinate da ceto, appartenenza politica e sindacale o nazionalità, che determinavano il livello di pericolosità e la mole del lavoro da eseguire, erano solo uomini. Mi ricordo gruppi di albanesi appesi senza le necessarie protezioni a saldare sulle fiancate della nave in costruzione, perfettamente visibili per chi entrava come me in cantiere e si dirigeva a saldare all’interno della nave.

Ero stato affidato ad una ditta proveniente da Napoli che si occupava di installare i condotti di aerazione. Lavoravamo in condizioni di sicurezza precarie, in luoghi angusti dove per ironia della sorte non c’era sufficiente aerazione e il rischio di infortunio era elevato. Io stesso mi sono bruciato sul braccio perché un pezzo di materiale metallico fuso è colato dal punto che stavo saldando, e a causa del fatto che il posto in cui ero era talmente stretto che mi impediva di muovermi liberamente. Ho stretto i denti e ho proseguito. Sono piccoli incidenti che capitano con una certa frequenza.

D’altra parte la maggior parte degli operai Fincantieri è costituita da lavoratori in nero e prevalentemente da immigrati, sfruttati per 14 ore al giorno 7 giorni alla settimana, senza alcuna tutela sindacale o legale. Sono felici se la Domenica possono lavorare solo 8 ore. Tutti uomini. I miei stessi compagni di lavoro erano sudamericani. cileni o ecuadoriani, persone dalla generosità commovente considerando la loro condizione. Il tipo di retribuzione che recepivano era definito da loro stessi ‘paga globale’, comprendente cioè i contributi ma assolutamente ben lontana da un onesta paga: un altro modo per definire il lavoro in nero. Una definizione creata per produrre illusioni che essi stessi subivano e rafforzavano accettando di contribuire al discorso dialettico che si generava. Mi hanno offerto lo stesso trattamento retributivo ma ho rifiutato, probabilmente nella presunzione, di cui ora mi vergogno, che essendo italiano su suolo italiano potevo coltivare ambizioni più elevate. Da questo punto di vista, però, il sistema capitalistico è per la classe operaia estremamente egualitario e non discriminatorio: sfrutta chiunque, non importa quale siano le sue origini etniche, finché ha qualche stilla di energia. Non ho avuto l’opportunità di visitare gli uffici della Fincantieri durante la mia esperienza in quel luogo, né era previsto che lo facessi. Immagino comunque che la composizione sociale di chi ci lavora sia ben diversa, considerate le diverse condizioni di lavoro, di retribuzione e di tutela contrattuale, e considerando il rapporto di potere che esiste tra loro e i poveracci che rischiano la salute e la vita dentro le navi o appesi con una carrucola alle loro fiancate. A me onestamente sale il sangue alla testa quando mi accorgo che la maggior parte delle invettive e delle azioni intraprese dal femminismo colpisce gli uomini più deboli, come i miei compagni sudamericani, troppo rintronati per capire il motivo che si nasconde dietro l’odio che intravedono negli occhi di chi li insulta. Ma ovviamente, se l’obiettivo è il genere maschile, che in quanto tale godrebbe di privilegi radicati nel tempo, il bersaglio più facile, immediato e conveniente è rappresentato da quegli uomini dall’aspetto rozzo, magari sporchi per il duro lavoro, vulnerabili per la loro solitudine e la loro caparbietà nel preservare nel loro sguardo quel poco che possiedono, cioè la loro dignità, uomini senza potere che possono offrire poca resistenza. Quello sguardo, da chi è accecato dall’odio e dall’ideologia, viene intenzionalmente interpretato come arroganza e sfida, e pretesto per un attacco personale o, per chi è più ambiziosa, contro un’intera categoria sociale. In fondo, quale miglior supporto di un tenero pezzo di legno per affilare le unghie?

1 commento per “Tigri di paglia

  1. bojack
    20 gennaio 2017 at 4:04

    Bellissimo articolo, complimenti

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