Le grandi, talvolta oceaniche e
molto spesso spontanee manifestazioni che si sono svolte in tutta Italia in
queste settimane in solidarietà con il popolo palestinese sono ovviamente da
salutare molto positivamente. Il fatto che centinaia di migliaia, milioni di
persone si riversino sulle piazze per testimoniare il loro sostegno ad un
popolo martirizzato da un regime razzista e genocida ci dice che c’è tanta
gente ancora “viva”, che esiste ancora una potenzialità e una capacità di lotta
non sopita. Soprattutto perché si tratta di un tema considerato tabù fino a
pochi giorni fa. Criticare infatti le “politiche” criminali dello stato
sionista significava e significa in larga parte tuttora essere tacciati di
antisemitismo e questo impediva e impedisce a molte persone di pronunciarsi per
paura di essere scomunicate, ostracizzate, bollate, appunto, come antisemite.
Le mobilitazioni di questi giorni hanno quindi segnato un passaggio importante.
Oggi in tanti definiscono apertamente Israele come uno stato terrorista, lo gridano
nelle piazze e, addirittura, in televisione alcuni intellettuali ed esponenti
del mondo della “sinistra” si sono espressi in modo esplicito in tal senso;
fino a poco tempo fa non era possibile. Ma lo hanno potuto fare proprio perché consapevoli
che dietro c’è un popolo (e non solo
quello di sinistra) che la pensa in quel modo. Da sottolineare anche la
grandissima partecipazione alle manifestazioni e ai cortei di giovani e
giovanissimi che nonostante il rincoglionimento a cui sono sottoposti da un contesto
mediatico e ideologico altamente pervasivo e astuto, confermano di avere ancora
una sensibilità e una coscienza critica.
Fatta questa premessa, da modesti
analisti politici quali proviamo ad essere, ci toccano necessariamente alcune
considerazioni. Vado in ordine sparso.
Sarà possibile tradurre questa enorme
mobilitazione per la Palestina anche in un movimento di massa contro le
politiche antipopolari, neoliberiste e filo atlantiste dell’attuale governo Meloni
(e dei governi precedenti…), vero e proprio fantoccio degli Stati Uniti, della
NATO e di Israele (in modo ancora più sfacciato dei governi precedenti)? Perché
si scende in piazza per la Palestina – cosa sacrosanta – ma non per le grandi
questioni sociali e del lavoro? La mia risposta a questa domanda è che negli
ultimi quarant’anni la dimensione collettiva è stata scientemente devastata, l’individuale
ha prevalso sul collettivo, la coscienza di classe, cioè la consapevolezza di
appartenere ad una classe sociale e/o a una comunità di persone unite da una
medesima condizione sociale e in fondo anche esistenziale, è stata sostituita
con il concetto di individuo, cioè la percezione di sé come un io separato dagli
altri che dipende solo e unicamente da se stesso, nel bene e nel male, e la dimensione
sociale nella quale si trova comunque a vivere è soltanto uno spazio dove affermarsi,
vincere o perdere. In entrambi i casi, tutto dipende da se stessi. La vittoria,
cioè l’affermazione del sé (in ultima analisi l’arricchimento, la crematistica e
oggi anche la visibilità pubblica), ma anche e soprattutto la sconfitta diventano
e vengono vissute come un successo o un fallimento personale. La società, di
fatto, non esiste. Questo è il lascito dell’ideologia neoliberale e
neoliberista che ha scavato in profondità nella psiche delle persone. Questa è la ragione principale per la quale, a
mio parere, la sensibilità mostrata per le sorti del popolo palestinese, non si
traduce in una presa di coscienza politica più ampia e anche la mobilitazione
per la Palestina resta in larga parte come una questione più umanitaria che
politica.
Lo dimostra il fatto, e qui
arrivo ad un altro punto fondamentale, che la sensibilità dimostrata nei
confronti della questione palestinese non si manifesta nei confronti di altre,
penso all’attacco israeliano-americano all’Iran o al Libano e, naturalmente,
all’espansionismo della NATO ad est, alla guerra contro la Russia e ai pruriti
guerrafondai delle classi dirigenti europee. In parole più povere, la pur lodevole
sensibilità nei confronti della condizione del popolo palestinese, non si
traduce in una coscienza politica realmente antimperialista. La questione
palestinese viene vista come a se stante, come quella di un popolo vessato,
certamente, da uno stato terrorista e genocida, ma non come un pezzo di un mosaico
molto più grande. Non solo. Nei confronti della Russia e dell’Iran (e della
Cina) – e questo vale purtroppo anche per la grandissima parte del popolo che è
sceso in piazza per Gaza – si nutre un sentimento di ostilità perché si è intrisi
dell’ideologia liberal occidentalista per la quale tutto ciò che esiste fuori
dal “giardino” dell’Occidente è fondamentalmente oscurantista, totalitario,
patriarcale e in ultima analisi barbarico. E a costruire questo immaginario in
tutti questi anni è stata la “sinistra” forse ancor prima della destra. L’ideologia
cosiddetta “politicamente corretta”, fatta propria sotto questo profilo anche
dalla destra (che del politicamente corretto rigetta soltanto le sue propaggini
più estremiste, il woke, la cancel culture e la teoria gender), ha visto
accomunate destra e “sinistra” nella criminalizzazione dei movimenti arabi e
islamici, dell’Iran, della Russia e della Cina.
E, anche in questo caso, la
grandissima parte del “popolo di sinistra”, anche quello più genuino, che è
sceso in piazza per la Palestina, è imbevuto di tale ideologia, in tutte le sue
articolazioni. E questo è un problema molto grave perché è evidente che non si può
combattere un sistema se al contempo se ne sposa la sua ideologia. Si tratta di
una contraddizione in termini che purtroppo riguarda anche i settori
relativamente più avanzati di quel sindacalismo di base che è stato promotore e
protagonista della mobilitazione di questi giorni.
Non è un caso, ovviamente, che il
PD e la “sinistra” liberal (in questa includo anche AVS) abbiano di fatto, per
lo meno mediaticamente, messo il cappello su questa straordinaria mobilitazione
pro Palestina, sia pur essendo costretti a rincorrerla. Silenti sulla mattanza
in corso a Gaza finchè alla Casa Bianca c’era ancora Biden, hanno cominciato a
farsi sentire nel momento in cui Trump ha vinto le elezioni. A quel punto è scattato
l’ordine di scuderia e il mondo dem e liberal, soprattutto in Europa, ha
cominciato a mobilitarsi per la Palestina, chiedendo la testa di Netanyahu (in
quanto amico e alleato di Trump). Ed è la stessa “sinistra” – è bene ricordarlo
– che (come la destra) ha sostenuto e sostiene la guerra contro la Federazione
Russa e, andando indietro con il tempo, le guerre imperialiste della NATO contro
la Serbia, contro la Libia e contro la Siria (per mano dell’ISIS), camuffandole
come guerre “umanitarie” per portare diritti e democrazia, e oggi scende ipocritamente
in campo per la Palestina, facendo leva sul legittimo orrore che suscita anche
nel “suo” popolo il genocidio in corso in quella terra. E’ ovvio, dunque, che
siamo di fronte ad un’altra grande contraddizione. Esiste infatti la possibilità
molto concreta che questa “sinistra” possa capitalizzare il patrimonio umano e
di lotta sceso in campo in queste settimane per ricondurlo all’interno del solito
schema “sinistra buona” (o comunque meno peggio) vs “destra cattiva”. Una
polarizzazione che si sta facendo sempre più netta soprattutto da quando Trump
è al potere negli USA e, in casa nostra, la pessima Giorgia Meloni è al
governo.
Ma è’ proprio nella rottura di questa polarizzazione – falsa, perché entrambi gli schieramenti, sulle questioni strutturali, sono organici al “sistema” – che si gioca la possibilità di costruire una nuova soggettività sociale e politica, popolare e di classe, realmente alternativa all’ordine sociale e politico vigente. Un’impresa di una difficoltà improba, ma non ci sono scorciatoie.
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